Miscellanea

Storia civile ed ecclesiastica del Comune di Gualdo Tadino - Ruggero Guerrieri

PARTE PRIMA STORIA CIVILE
PARTE SECONDA STORIA ECCLESIASTICA
PARTE TERZA MISCELLANEA
Indice dei capitoli

PARTE TERZA – Miscellanea

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 UOMINI ILLUSTRI GUALDESI

 Matteo di Pietro di Ser Bernardo. *

QUESTO interessante e geniale Pittore, è oggi generalmente conosciuto nella Storia dell’Arte, con il semplice nome di Matteo da Gualdo. Ma in oltre centocinquanta documenti che lo riguardano, da me rintracciati nell’Archivio Notarile Gualdese, egli viene sempre nominato Matteo di Pietro, oppure Matteo di Pietro di Ser Bernardo « Macteus Petri Ser Bernardi», il più delle volte con la qualifica di Magister, spesso con quella di Pictor e con l’indicazione de Gualdo.
Fanno eccezione tre soltanto dei centocinquanta documenti suddetti, nei quali compare un quarto nome, trovandovisi infatti designato il nostro Artista, con le parole seguenti: Macteus Petrj Johannis Ser Bernardj de Gualdo – Magister Mattheus quondam Petri Jo hannis Ser Bernardi de Gualdo – Magister Matheus Petri Johannis pictor de Gualdo.

In due diverse maniere, noi possiamo interpretare quest’ultime successioni genealogiche, possiamo cioè leggervi tanto « Matteo di Pietro, di Giovanni, di Ser Bernardo», quanto « Matteo di Pietro Giovanni, di Ser Bernardo». La differenza è importante, perché, nel primo caso, il padre del Pittore si sarebbe chiamato Pietro, il nonno Giovanni, il bisnonno Bernardo; nel secondo caso egli avrebbe avuto per padre un Pietro Giovanni e per nonno un Bernardo. Io, per molti e svariati motivi, mi sono attenuto a quest’ultima ipotesi; ho giudicato insomma che Giovanni sia stato semplicemente il secondo nome di Pietro, come tale trascurato nella quasi totalità dei documenti che riguardano l’Artista Gualdese, e solo ricordato dai due più scrupolosi Notari, che redassero i tre Istrumenti a cui poco sopra, ho accennato, Istrumenti che sono quelli qui in Nota citati. (1)

Difficilmente si può confondere questo Pittore, nei documenti Gualdesi della sua epoca, con qualche omonimo. È ben vero, ad

* Le Note riferentisi a questo Capitolo, trovansi tutte dopo il Capitolo stesso.

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esempio, che furono suoi contemporanei in Gualdo, un Matteo di Pietro di Angelello, originario di Sellano, un Matteo di Pietro Brevis ed un Matteo di Pietro Cozhi, i quali però, senza eccezione, vengono sempre citati con i loro tre nomi al completo e quindi senza possibilità di confusione con il nostro Artista. (2)

Egli nacque in Gualdo durante la prima metà del XV secolo, probabilmente tra il 1430 e il 1440 e dovette morire assai vecchio. Infatti, in un suo testamento dettato il 25 Novembre 1503, egli stesso dichiara di essere carico d’anni (annis gravis) e ciò nonostante, come vedremo, visse ancora sino al Gennaio del 1507. Al contrario, dovette rimanere orfano in giovane età e certamente il di lui padre nel 1468 era già morto, poiché in un documento dell’11 Giugno di quell’anno, egli è indicato come figlio del fu Pietro di Ser Bernardo. Anche la sua madre per certo scomparve assai presto, tanto è vero che di essa non trovai giammai la minima traccia nei documenti numerosissimi e così ricchi di notizie famigliari, che ho potuto rintracciare intorno alla vita del nostro Pittore. (3)

I suoi genitori dovettero indirizzarlo negli studi di giurisprudenza e ci risulta infatti che egli fu Notaio in Gualdo. Ma questa professione poco o nulla esercitò, forse perché tutto assorto ed occupato nella sua passione per l’Arte. Nessun rogito, da lui firmato, è infatti sino a noi pervenuto, e solo raramente, qualche suo Atto notarile, trovasi citato, per incidenza, nei rogiti di altri Notari Gualdesi contemporanei. Notari furono anche, come vedremo, due dei suoi figli e un nepote. (4)

Sappiamo inoltre con certezza, che ebbe per moglie Margherita, figlia di Andrea di Giovanni d’Elemosina, del Castello di Crocicchio, con la quale procreò tre figli maschi, Michelangelo, Girolamo e Francesco, ed una femmina, Antonia.

Del primo poco o nulla noi conosciamo: Lo troviamo per la prima volta ricordato tra gli eredi designati da suo padre Matteo, in un testamento che, come diremo, quest’ultimo fece l’11 Agosto 1476, e assai più tardi, cioè il 13 Febbraio 1490, lo vediamo creato Notaio, con decreto del Nobil Uomo Maestro Ludovico di Maestro Antonio, di Ser Paolo Salvetti da Gualdo, conte Palatino, autorizzato a concedere appunto titoli e diplomi di tabellione dall’Imperatore Tedesco Federico III. L’ultima volta il suo nome appare, come si vedrà, in due Atti del 30 Giugno 1485 e del 15 Gennaio 1486, nei quali però non interviene personalmente, ma è rappresentato da altri, trovandosi egli lontano da Gualdo. Ed a tal punto si presenta un dubbio, se cioè la lontananza di Michelangelo fosse divenuta permanente e definitiva, per essersi egli stabilito in altra città, oppure se, dopo le date suddette, egli di poco fosse sopravvissuto, poi ché di lui più nessuna traccia poi si ritrova, neppure nei successivi testamenti di suo padre Matteo, dove pur sempre ricompaiono gli altri suoi figli. (5)

Di Girolamo ho potuto conoscere che visse sino al 1515 e che, dalla di lui moglie Fina, figlia di Nicolo di Angelo di Nicolo di Mattiolo alias Thiani, tuttavia in vita nel 1535, ebbe un figlio, Bernardo, e

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tre figlie, Margherita, Bartolomea e Meschina, della quale ultima, come pure di sua madre Fina, si seguono le tracce sino al 1535. Anche Girolamo, a somiglianza del padre, fu Pittore e Notaio. Di lui resta ancora un volume di Rogiti nel nostro Archivio Notarile Antico, Rogiti che vanno dal 1507 al 1515. Notevole il fatto che in tale volume, nelle pagine albe, esistono qua e là vari schizzi di teste e figure, fatte a penna, come per passatempo. Questi schizzi sono, senza alcun dubbio, opera di Girolamo, che dovette avere appreso dal padre Matteo, l’arte del disegno e della pittura. A provare la sua qualifica di pittore, basta un documento riferentesi al di lui figlio Bernardo, oggi esistente nell’Archivio suddetto, tra i Rogiti di Gregorio Bartucci, (Bastardelle del 1528, foglio 585t). Tale documento consiste in un Atto rogato il 15 Ottobre di tale anno, nel quale, nominandosi il suddetto Bernardo, costui è appunto chiaramente indicato come figlio del pittore Girolamo, con le parole: Ser Bernardus Ser Hieronimi pictoris de Gualdo. Ma nessun dipinto firmato da Girolamo è oggi da noi conosciuto; egli dovette essere un dilettante più che un professionista nella sua arte; ma probabilmente aiutò il padre Matteo, nell’esecuzione delle numerosissime opere pittoriche da quest’ultimo tramandateci. Non così può dirsi del figlio di Girolamo cioè di Bernardo, anch’esso Notaio, che fu invece un valente Pittore e del quale, in seguito, descriveremo la vita e le opere.

Il terzo figlio di Matteo, cioè Francesco, soprannominato Piaggiola, ebbe, come si vedrà dai documenti che illustreremo tra poco, una vita tragica ed avventurosa. Dovette essere il minore d’età, ad ogni modo è certo che il 2 Novembre del 1492 non aveva ancora raggiunto i ventidue anni. Non sappiamo quale professione egli esercitasse, ma ci consta invece che si gettò con ardore nelle tremende lotte partigiane di quei torbidi tempi e che, dopo aver commesso due omicidi, finì ucciso a sua volta, lasciando la moglie Beatrice di Percivalle di Gabriele di Andrea Rossi da Gualdo, ed una figlia Francesca ancora vivente nel 1532. Così Girolamo, come Francesco, furono per il loro padre Matteo, causa continua di affanni e di dolori. Secondo quanto apprenderemo dai documenti che illustrerò tra poco, Girolamo attentò persino alla vita del suo genitore, il quale, quasi che ciò non bastasse, dovette anche subire la prigione per i delitti che aveva commesso l’altro figlio Francesco. Poco o nulla infine sappiamo dell’unica figlia di Matteo, Antonia, più volte ricordata nei testamenti paterni. Oltre le notizie con questi tramandateci, ci risulta solo che, con il marito Michelotto di Giovanni di Antonio Malatesta, abitava in Gualdo presso la Porta civica del Quartiere di Porta S. Donato.

Matteo da Gualdo abitava invece nel Quartiere di Porta S. Martino, dove possedeva tre case contigue. Molti Atti notarili riguardanti il Pittore, appaiono infatti rogati quando in una, quando in altra, di queste tre case, delle quali ci sono pervenuti, negli Atti stessi, i nomi dei proprietari delle abitazioni confinanti e cioè Giacomo di Giovanni di Meo Thosi, detto Pulcinella, Salvatore di Giovanni da

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Firenze, Assalonne di Giovanni, Gabriele di maestro Pietro Lombardo e Bartolomea vedova di Antonio del Grosso; anzi, una di queste case, era stata venduta a Matteo da tal Giovanni di Antonio da Siena. In Gualdo, di fianco all’oggi scomparsa Porta civica di S. Martino, trovasi attualmente una casupola sulla facciata della quale è ancora murata una lapide appostavi nel 1877, dove si legge che quella era la dimora di Matteo di Pietro Pittore. Nessun documento però ce lo prova, e la presenza di tale lapide è solo effetto di un equivoco: Negli Atti notarili suddetti, le case di maestro Matteo, sono sempre indicate come esistenti « in Porta S. Martino » ed una di esse vi è sovente descritta come confinante da tre lati con la via pubblica. Ora, siccome la casupola su indicata, sorge, come ho detto, di fianco all’antica Porta civica di S. Martino e confina con la via da tre lati, si è creduto che fosse quella la casa del Pittore, non riflettendosi che la frase « in Porta S. Martino » secondo lo stile dell’epoca, non voleva affatto dire « presso la Porta di S. Martino» ma bensì « nel Quartiere di Porta S. Martino » che era appunto uno dei quattro quartieri in cui trovavasi allora divisa la città, e molte altre abitazioni in esso esistevano, ed esistono ancora, che confinano da tre lati con la via pubblica e che potevano quindi essere la residenza dell’Artista Gualdese. (6)

Matteo di Pietro, rimase per lungo tempo ignorato nel campo dell’arte. Dopo oltre tre secoli, primo a toglierlo da un ingiusta dimenticanza fu il Benfatti, il quale, dall’osservazione degli affreschi esistenti un tempo nella vecchia Chiesa di S. Antonio presso Gualdo e del trittico della Chiesa Parrocchiale di Nasciano, asserisce che il nostro Artista s’ispirò, nei suoi primi studi, alla scuola del Pittore Eugubino Tommasuccio Nelli, essendo somigliantissime le maniere dei due maestri. (7)

Secondo a parlarne fu il Rosini, che nella sua « Storia della Pittura Italiana » gli attribuisce un quadro, oggi conservato nella Pinacoteca di Perugia, di cui da anche la riproduzione, riconosce delle somiglianze tra gli angeli da lui dipinti e quelli del Senese Ansano di Pietro, lo giudica superiore al Mezzastris, secondo quanto appare dagli affreschi che ambedue lasciarono nell’Oratorio dell’antico Ospedale dei Pellegrini in Assisi dedicato ai S.S. Giacomo e Antonio e, dopo avere notato che Matteo fu ignoto al Lanzi, erroneamente dichiara che ebbe un fratello anch’esso pittore, ma di assai minore importanza. (8)

Terzo, dopo il Bonfatti e il Rosini, si occupò del Gualdese il Cavalcaselle, nella sua «Storia della Pittura in Italia». Egli assicura che Matteo da Gualdo influì sull’arte del Camerinese Girolamo di Giovanni e che, per il suo stile, assomiglia a Giovanni Beccati ed a Lorenzo da San Severino, senza che però tale somiglianza sopraffaccia in Matteo la grande tendenza a cercare di mantenere le caratteristiche della scuola Umbra e specialmente Folignate, sebbene nelle sue pitture del suddetto Oratorio dell’Ospedale dei Pellegrini in Assisi, la di lui arte mostri una certa affinità con la scuola Eugubina. Dice inoltre, che il carattere Umbro

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del nostro Pittore, è rivelato dal volto oblungo e quadrato delle sue Madonne, da uno sforzo per esprimere la grazia, dai panneggiamenti avviluppati, dai contorni sottili, dalla profusione degli ornamenti e dalle tinte speciali, concludendo per ritenerlo un debole artista. Ma il Cavalcaselle, ai suoi tempi, ben poco dovette conoscere delle opere di Matteo, se potè scrivere che non esiste in Gualdo Tadino un solo dipinto che porti la firma sua. Al Cavalcaselle furono infatti ignote le più caratteristiche opere del Pittore Gualdese, delle quali egli non vide che gli affreschi della Chiesetta di S. Maria di Scirca presso Sigillo, quelli dell’Oratorio dell’Ospedale dei Pellegrini in Assisi e il trittico di Nasciano poco lungi da Gualdo, di modo che, l’illustre critico d’arte, dovette basare le sue osservazioni e i suoi studi su opere, per tale intento, di secondaria importanza, non firmate ed in quel tempo più o meno erroneamente attribuite al Pittore Gualdese e cioè alcuni dipinti delle nostre Chiese di S. Francesco e S. Benedetto, il polittico della Parrocchia di S. Pellegrino presso Gualdo, gli affreschi di una Cappella in S. Maria in Campis nei dintorni di Foligno, e alcune piccole tavole della Pinacoteca Vannucci di Perugia e della Galleria di Monaco. (9)

Quarto infine, nella resurrezione artistica di Matteo da Gualdo, venne l’esimio Adamo Rossi, che nel 1872 redasse un incompleto elenco delle opere di Matteo e ricercando nell’Archivio Notarile Antico Gualdese e in quello Comunale d’Assisi, ne trasse sedici documenti riguardanti il nostro Pittore. (10)

Dopo il Rossi, per lunga serie di anni, nessuno più si occupò di Matteo di Pietro, sino a che, sopravvenuta nel 1907 la grande Esposizione di Antica Arte Umbra in Perugia ed essendovi stati inviati in buon numero le opere del Maestro Gualdese, queste suscitarono, forse appunto perché sconosciute o dimenticate, uno straordinario interesse e accesero tra i critici d’arte, convenuti in Perugia da ogni parte d’Italia e dall’estero, vivacissime discussioni. E ben ve ne era ragione, data la stranezza e l’originalità dei suoi dipinti, così come strana e singolare ci apparirà tra poco la vita di Matteo, attraverso gli abbondanti documenti che di lui potei rintracciare nei nostri Archivi. Non è possibile riassumere in un solo concetto, i giudizi che in quell’occasione espressero i critici sul Pittore Gualdese, troppo diversamente essendo state da costoro apprezzate l’opere sue. È per questo che io credo utile qui riportare integralmente alcuni di quei giudizi, sperando che un più completo e ponderato studio di queste sue opere, possa amalgamare tante disparate opinioni.

Così il Bernardini, in quell’occasione scriveva che « dei pittori locali dell’Umbria, potremo studiare il Melanzio a Montefalco, il Mezzastri a Foligno ed anche Francesco da Castello in Città di Castello e formarcene un’idea abbastanza adeguata, ma non è possibile arrivare ad intendere l’arte di Matteo di Pietro con i pochi dipinti che si trovano entro la città di Gualdo Tadino, ed è necessario studiare anche quelli esistenti in luoghi remoti e di disagevole accesso per farsene un concetto ». Egli ritiene che « le origini della sua maniera siano da ricercare nella scuola di

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Foligno, che s’iniziò con gli affreschi eseguiti dall’Eugubino Ottaviano Nelli nel Palazzo Trinci, e si affermò poi con un artista proprio, in Bartolomeo di Tommaso con il quale il nostro Matteo si riattaccherebbe per più di un punto. Infatti, nel trittico che Matteo dipinse in Nasciano, la figura grande e quella piccola del Bambino e l’effigi dei due Santi (secondo il Bernardini) richiamano in modo straordinario, il Putto e i due Santi del Trittico di Bartolomeo di Tommaso appartenente alla Chiesa di S. Salvatore in Foligno: i Putti per la loro conformazione, i Santi per l’alta statura e per il viso pieno coi lineamenti minuti ». Il Bernardini prosegue rilevando sul Gualdese anche « una manifesta influenza delle opere di Giovanni di Paolo, da cui forse avrebbe derivato l’eccessivo sviluppo della parte superiore nelle teste di alcuni suoi Santi, come nel S. Sebastiano e S. Rocco del trittico di Nasciano, nel S. Francesco e S. Bernardino del trittico della Pinacoteca di Gualdo già appartenente al Monastero di Santa Margherita e con la data 1462, nonché nell’altro trittico della Pinacoteca, che porta la data 1471, proveniente dall’ex Convento di S. Nicolo ». Il Bernardini asserisce inoltre che « nell’opera del Gualdese non mancano del tutto echi Eugubini, del Salimbeni e forse anche del Boccati e riconosce veramente delle analogie tra gli angeli di Matteo e quelli del Senese Sano di Pietro per il lungo ovale delle facce carnose e per le fisse pupille ». Nota infine che «l’arte sua non fu sempre u guale a sé stessa e che nella produzione pittorica dell’artefice Gualdese, possiamo riscontrare due periodi con forme diverse, un primo periodo più rudimentale, un secondo periodo più perfezionato, ed anzi appunto nel secondo, il Bernardini vede palesemente varie tracce dell’arte di Benozzo Gozzoli e del Folignate Mezzastris». (11)

Il Guazzaroni (G. Ugo Nazzari), sempre a proposito dell’Esposizione d’Arte Antica in Perugia, scriveva che « Matteo da Gualdo, uno dei quattrocentisti Umbri, la cui arte è singolarmente originale e significativa, sebbene debba considerarsi artista mediacre, merita però di essere studiato con intendimenti più alti che non siano quelli dei critici notomizzatori, che considerano i quadri con il criterio pedante della fredda e gretta osservazione e dell’arida erudizione, anziché con spirito e diletto d’artista ». Dice poi che « le sue Madonne hanno un carattere così spiccato nelle carni, nel viso e nell’atteggiamento, da conferire all’Autore uno stile proprio, dal quale non si discosta nonostante la sua vantata versatilità e questa pretesa varietà di pennello e di maniera, da cui Matteo trarrebbe la forza verista della scuola Folignate, i languori di Sano di Pietro e l’intonazione fastosa della pittura Marchigiana, spiegherebbe soltanto, secondo il Guazzaroni, l’errore di false attribuzioni spesso verificatesi pel nostro pittore». Egli prosegue dicendo che « Matteo da Gualdo, il Giovanni Pisano della Scuola Umbra, manifesta la sua personalità artistica specialmente nell’atteggiamento del capo e nei lineamenti del viso delle sue Madonne, che hanno un colorito scialbo, i lineamenti irregolari, il naso a figura quasi geometrica e l’espressione un poco imbambolata, il che tenderebbe ad escludere dallo spirto dell’artista Gualdese, quella concezione del

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bello che appare invece nobilissima in altre delle sue figure ». Per cui il critico si domanda: « Se Matteo usò varie maniere, come mai le sue Madonne in nessun caso modificano quello spiacevole aspetto ?» e conclude riconoscendo che «sull’interessantissima collezione delle opere del pittore quattrocentista Gualdese, i giudizi dei critici sono ancora troppo contradittori e indecisi». (12)

Trattando della Mostra di Perugia, il Lupattelli vede anch’esso « in Benozzo Gozzoli, se non il maestro, certo la guida e l’ispiratore di Matteo da Gualdo, i cui dipinti, di gran morbidezza, assai vaghi e diligentemente condotti, appaiono assai interessanti». Né le opere del Gualdese erano ignote al Lupattelli che, poco prima della Mostra stessa, le illustrava in una sua monografia, scrivendo tra l’altro che « Matteo si ispirò per l’arte sua a quasi tutti i pittori della scuola Umbra suoi predecessori o contemporanei come il Nelli, il Mezzastris, l’Alunno, il Caporali, Fiorenzo di Lorenzo, il Bonfigli, non escluso il Boccali, dalle opere dei quali trasfuse nei suoi dipinti la soavità dello stile, i caratteri delle figure, l’impasto e la vivacità dei colori». Dice inoltre che «della regione in cui nacque, Matteo sentì tutta la serena tristezza, gustò tutte le linee delicate, tutto il profumo di quella segreta malinconia, di quei miti sentimenti famigliari di pura religiosità, di estasi languide e soavi, che si riflettono tanto nell’animo del poeta quanto dell’artista, come il mondo di un sogno sconosciuto ». Così il Lupattelli spiega perché « i suoi soggetti sono sempre sacri e le sue Madonne non spirano la calma eterna, la maestà severa, le forme gravi, gli occhi tremendi e minacciosi dei Santi Bizantini, ma appaiono sorridenti di un sorriso che innamora tutta Italia, di una grazia soave che nel sacro concetto della maternità conciliava ai cuori afflitti una fede sincera, le speranze più serene, la sicurezza di protezione e di materno aiuto nelle perigliose vicende della vita ». Il Lupattelli qualifica Matteo di Pietro « come un religioso, pieno di domestico fervore, assai toccante nella sua semplicità, che esprimeva in volto ai Santi le virtù che esso stesso coltivava nel cuore». Dice anche che «amava circoscrivere la sua sfera di azione non lungi dalla terra nativa, soddisfatto di quanto aveva appreso dai suoi contemporanei nella pratica dell’arte, contento di attenersi a quanto gli veniva commesso, applicandovi nella esecuzione un largo studio della natura e infondendovi un idealismo che conquide e commuove, creando nelle sue Vergini, nei suoi Bambini, nei suoi Angeli, nei suoi Santi, un tipo tutto speciale che, mentre per tradizione ha molti punti di contatto con quelli che lo precedettero o che gli furono compagni, lascia scorgere con i distintivi che caratterizzano la sua maniera di dipingere, un’impronta individuale dovuta al suo ingegno e al suo animo gentile, che dell’arte, più che una professione, aveva fatto una religione ». Il Lupattelli nel suo studio su Matteo, conclude domandandosi se questi ebbe una scuola sua propria ed egli crede che « non sia strana ipotesi il ritenerlo, poiché molti dipinti in Gualdo e nei luoghi limitrofi, potrebbero benissimo attribuirsi ai suoi imitatori od allievi ». Ma giudica che « questi, se anche vi furono, rimasero offuscati dai pregi del maestro, il quale, nonostante una certa

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debolezza nel disegno, un po’ di durezza nei contorni e nel pieghettare, sia per la grazia dell’espressione, sia per la vigoria e per la tonalità del colorito, come per lo studio intelligente, del vero e per alcune caratteristiche e geniali novità nel comporre, può (sempre secondo quanto giudica il Lupattelli) ben gareggiare con l’Alunno e con lui dividere il merito e l’onore di aver condotto alla più vivida aurora la scuola Umbra, preparando così l’ora di quello splendido meriggio cui la scuola stessa assurse col Perugino e con la pleiade dei suoi discepoli». (13)

Umberto Gnoli scrisse invece che « Matteo da Gualdo fu un debole artista provinciale, scorretto nel disegno, strano, puerile spesso e che talvolta sa acquistarsi la nostra simpatia per la sua ingenuità; che la sua maniera ondeggia fra quella dei Folignati, dei Senesi, di Benozzo Gozzoli, dei Camerinesi, succhiando come ape ogni fiore che gli sta attorno, di modo che le sue pitture rivelano una quantità d’influenze diverse. Bartolomeo di Tommaso, l’Alunno, Giovanni Boccati, fra gli Umbri; Giovanni di Paolo, Sano di Pietro, Sassetta, fra i Senesi , (secondo lo Gnoli) sarebbero stati i suoi ispiratori ed egli avrebbe riunito questi diversi elementi, ingenuamente, ora seguendo l’uno ora l’altro, ora fondendo la maniera di più maestri in uno stesso quadro, in una stessa figura, pur mantenendo nell’insieme dell’opera una nota schiettamente personale ». Lo Gnoli ritrova « la maniera di Giovanni di Paolo nelle figure del Trittico che Matteo dipinse in Gualdo nel 1462, per l’ex Convento di Santa Margherita, specie nella figura di S. Bernardino »; riconosce « somigliarne tra gli angeli dipinti dal Boccati e quelli che il nostro artista effigiò nel Trittico della Chiesa abbaziale di S. Pietro in Assisi»; vede « l’influenza dell’Alunno nel San Francesco e San Bonaventura dal Gualdese apposti nella predella del Trittico datato con l’anno 1471 e dall’ex Convento di S. Nicolo oggi passato nella Pinacoteca Comunale di Gualdo. Nel Trittico di Nasciano, le figure della Presentazione » ricordano allo Gnoli « l’arte di Mariano d’Antonio, gli angeli quella di Sano di Pietro, le architetture di fondo negli scomparti occupati dall’Annunciazione quella di Benozzo Gozzoli, e il Bambino infine quella di Bartolomeo di Tommaso » . Poco dopo l’esposizione d’Arte Antica Umbra in Perugia, lo Gnoli tornò ad occuparsi di Matteo da Gualdo in una breve monografia, dove, in verità, egli si mostra troppo ingiusto con il Pittore Quattrocentista, per averlo voluto considerare più con l’arido e freddo criterio del tecnico che non con il diletto, lo spirito vasto e gli intendimenti molteplici del poeta e dell’artista. Scrive infatti lo Gnoli che « un complesso di cause estranee alle ragioni tecniche, hanno concorso a rendere noto questo Maestro molto più di quello che merita e che se egli non si fosse compiaciuto di apporre in molte sue opere la propria firma, sarebbe rimasto nell’oscura falange degli anonimi pittori di immagini votive e forse nessun critico avrebbe pensato a toglierlo dalla umile e numerosa schiera per contrassegnarlo di un nome convenzionale ». Prosegue assicurando che « se egli riprese da tutti i migliori maestri delle città vicine, non da tutti prese il meglio e sembra, che quasi si

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compiacesse di appropriarsene i difetti. Ma ciò nonostante le sue Vergini dal volto lungo e fino, dai tratti sottili, dal collo esile con crani allungati e pupille tonde da gatto, richiamerebbero più i maestri di Siena della metà del secolo XV che non quelli Umbri» di modo che lo Gnoli suppone che «Matteo, nella sua giovinezza, possa aver preso visione in Siena stessa delle opere che ispirarono la sua maniera». Aggiunge infine che «per la poca importanza che questo Maestro ha nell’arte, se ne è già troppo discorso; egli (dice lo Gnoli) dipinge male i corpi disegnandoli lunghi e scarni, piega bizzarramente le vesti come non avessero rispondenza con il corpo che rivestono, produce tipi brutti e talvolta ridicoli, ha qualche notizia di prospettiva lineare, ma gli scorci delle membra sono falsi, i piedi non sa disegnare né colorire e quindi, quando può, li nasconde; diversamente ne risultano dita ugualmente lunghe, distaccate e disposte a rastrello che sembrano trasparenti, come non avessero ossa; così pure le mani sono volgari e rattrappite; anche quando riesce a dar grazia alle sue figure, lo sforzo fatto risulta palese». Riconosce però lo Gnoli che « nella sua goffagine provinciale, ha qualche eleganza, qualche nota fresca e piacevole con notevole armonia e giustezza di colorito, specie negli Angeli » e aggiunge che « seguendo la tradizione Umbra, non dipinse che figure indipendenti le une dalle altre, anche quando le raggruppò in una parte o in un trittico »; che « non ebbe la forza e l’originalità dell’Alunno, la festosa giocondità del Boccati, la grazia dei Senesi»; che «fu inferiore a Pierantonio Mezzastris » e che « il suo posto nella pittura Umbra, è vicino a quello di un Ludovico de Urbanis o di un Ugolino da Foligno ». (14)

Ancora più tardi, in altra sua pubblicazione, Io Gnoli ripete che «Matteo da Gualdo muove dai Senesi, da Giovanni di Paolo specialmente », nota che « il suo più antico lavoro, il Trittico di Santa Margherita del 1462, ha un impronta Senese e reminiscenze di Girolamo di Giovanni», crede perciò che egli «a Siena soggiornasse qualche tempo, tanto che, ricordi di quella scuola, perdurano fino alle ultime sue opere ». Cita anzi il fatto che «nell’affresco di San Paolo in Assisi, del 1475, scompartisce la incorniciatura a finte pietre chiare e scure, come il Duomo di Siena ». Aggiunge poi che Matteo « deve molto ai maestri migliori delle città vicine »; che « Benozzesco è il fondo della Cappella dei Pellegrini del 1468, scompartito verticalmente da pilastri e orizzontalmente da un muro, dietro il quale s’innalzano i cipressi»; che «gli angeli ricordano Giovanni Boccati e Girolamo da Camerino»; che «il Padiglione sopra la Vergine del Trittico del 1471, lo ritroviamo in molte Madonne dell’Alunno »; che « il suo temperamento artistico, strano e provinciale, ma attraente e sincero, si avvicina a quello di Gianfrancesco da Rimini, del quale è un trittico con la Madonna fra San Girolamo e San Francesco nella Regia Galleria di Perugia, il quale, fino ad ora, ha portato il nome di Matteo » ; che infine « esercitò qualche influenza su Pierantonio Mezzastris, che da lui riprese quei putti festanti e recanti ghirlande». (15)

Mario Labò scrive che « se il critico d’Arte nella grande mostra

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Perugina poteva sorvolare sulle tavole dei molti pittori Umbri quattrocentisti già ben conosciuti e studiati, non poteva invece fare a meno di soffermarsi d’innanzi a quelle di Matteo di Pietro». Egli vede nel Gualdese « un fanciullino dipintore o, a volere essere indulgenti, un pittore ineguale che ci lascia perplessi avvicinando corpi grossi e contorti, con figure signorili e piene di grandiosità e di carattere e tali incoerenze » gli appaiono « non solo considerando fra loro le sue varie opere, ma anche le figure di uno stesso quadro ». Il Labò spiega ciò in una maniera invero troppo semplice, supponendo cioè che « Matteo da Gualdo sulle sue tavole possa aver lavorato in comunione con altri pittori della sua epoca». (16)

Anche un altro critico, Umberto Bianchi, dice «preferire di soffermarsi innanzi alle opere del Gualdese, pittore tipico emanante un sentimento eterno come la poesia e la cui scuola è di dolore, dolore umanamente inteso ed espresso nelle figure dalla singolare posa melanconica, con volto reclinato, la bocca amara, gli occhi socchiusi, mentre nello sfondo dei quadri, quale simbolo di un sentimento ispiratore dominante, s’erge il cipresso». Termina infine notando che « se nei pittori del quattrocento il misticismo, come una necessità psicologica, trionfò sempre sulla naturalezza, fissando l’espressione, la posa, il colorito, incatenando broccia e sentimenti, imponendo temi obbligati, leggi e consuetudini che degeneravano spesso in goffaggine, in Matteo da Gualdo invece, come in pochi altri della sua epoca, si notano i primi tentativi di ribellione a questo leggendario artificio e la tendenza verso una naturalezza più disinvolta e sincera ». (17) Anche Giustino Cristofani, critico d’arte e artista egli stesso, studiò i dipinti di Matteo nella Mostra Perugina non addimostrando certo molta indulgenza verso l’artefice di essi. Nota il Cristofani, che nell’opera portante la data 1462, proveniente dalla Pinacoteca di Gualdo, sono contenuti tutti i caratteri distintivi dell’arte di Matteo nelle forme e nello spirito: Teste lunghe con occhi piccoli, naso prolungato e diritto, bocche brevi, figure allungate e non sempre bene in equilibrio ma quasi cadenti, espressione imbronciata, panneggi duri e intralciati, colorito poco vivace. E più innanzi aggiunge che, in generale, la carnagione delle sue figure è pallida e fredda e le cornici delle sue tavole, considerate sotto l’aspetto architettonico, sono poveramente scompartite senza profusione d’intagli e di rilievi. Da tutto ciò deduce che il Gualdese è un artista debole, sebbene schietto nella sua infantile ingenuità e non privo quindi di una certa attrattiva, che ha qualche derivazione da Bartolomeo di Tommaso, da Giovanni Beccati e dagli Eugubini, ossia dalle scuole pittoriche delle città in mezzo alle quali trovavasi la sua terra natale, che esprime nella sua rozza maniera montanina qualche cosa di proprio e che la devozione un po’ goffa dei suoi Santi, la maestà un po’ accigliata delle sue Madonne, non possono far confondere tali dipinti con quelli di altri artisti a lui contemporanei. Il Cristofani nega l’influenza che, secondo il Cavalcaselle, Matteo da Gualdo avrebbe avuto sul Camerinese Girolamo di Giovanni, ma stima invece che quest’ultimo sia superiore a Matteo e che le affinità che si riscontrano tra i due

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pittori, si debbano alla comune loro derivazione dall’altro Camerinese Giovanni Boccati. Aggiunge infine, che l’artista Gualdese, non andò sempre più perfezionando l’arte sua, come è regola generale, ma che invece, dopo il periodo che va dal 1462 al 1468 e che corrisponde alla sua migliore attività, cominciò a declinare sino a dare il trittico della Chiesa di Nasciano, dove i S. S. Rocco e Sebastiano « hanno teste dall’espressione quasi animalesca e traballano sulle lunghe gambe stranamente piantate di sgembo ». Qualche tempo dopo, lo stesso Cristofani scriveva di Matteo da Gualdo, che egli fiorì nel più bel periodo della Rinascenza, ma che l’opera sua di modesto e ingenuo pittore popolare, perde ogni pregio se vieti giudicata alla stregua di confronti estesi fuori della cerchia paesana nella quale egli formò la sua maniera rozza, ma non priva di espressione e di un vivo senso decorativo; che tarde reminiscenze della scuola del Nelli, spunti Marchigiani tolti dal Boccati e da Girolamo di Giovanni, qualche influsso Senese derivategli da Ansano di Pietro e l’arte di Nicolo da Foligno, spiegano solo in parte certe qualità dei dipinti di Matteo, ma non le più caratteristiche. E aggiunge che egli conserva, per tutta la vita, il disegno schematico, i tipi convenzionali e la tecnica semplicista dei pittori votivi, cantando nel suo rude dialetto montanino, le spirituali laudi del popolo Umbro, senza velleità letterarie, senza aspirare a forme d’arte più evolute, ma però più lontane dall’anima popolare. Perciò i suoi dipinti interessano il folklore più che la storia dell’arte. Ma riconosce infine il Cristofani, che al potente soffio della Rinascenza non fu Matteo del tutto insensibile, poiché mentre l’Alunno, il Boccati, Girolamo da Camerino e Fiorenzo di Lorenzo, chiedevano ancora alle forme gotiche gli elementi architettonici dei loro polittici, il Gualdese scompartiva sin dal 1468 i suoi affreschi e le sue tavole con pilastri architravati o con archi a pieno centro, decorandoli con festoni di foglie e frutta e sovrapponendo alle cornici, putti ignudi che spargono fiori. Eccettuati però questi caratteri decorativi, Matteo di Pietro appare al Cristofani un tenace conservatore, che ignora quasi del tutto i progressi della pittura Perugina e accetta appena, timidamente, qualche novità introdotta dai vicini artisti di Camerino e di Foligno. (18)

Anche F. Mason Perkins, all’Esposizione di Perugia, rimase colpito dall’originalità di Matteo da Gualdo, del quale scrisse che, malgrado certe deficienze tecniche, costui rimane pur sempre, pel vero amante dell’arte Umbra, una delle più attraenti figure di tale Scuola. Egli spiega la poca fama dell’artista Gualdese, con la relativa rarità dei suoi lavori, col trovarsi questi quasi tutti in Gualdo Tadino o nei suoi dintorni e col giudizio poco favorevole che ne dette un tempo il Cavalcaselle. Si duole non potere subito iniziare un profondo studio su Matteo, analizzando lo strano ma innegabile fascino formato in gran parte da una nota eminentemente personale che si riscontra sempre nelle sue creazioni, nota personale che non riuscirono a cancellare neppure i molti e diversi influssi che agirono sull’arte sua emanati da altri pittori dell’epoca, come Bartolomeo di

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Tommaso, Antonio da Fabriano, Giovanni Beccati, Benozzo Gozzoli, Nicolo da Foligno, Mezzastris, Bonfigli, Giovanni di Paolo con la Scuola Senese del Sassetta. Anzi il Perkins dice che per la sua ingenuità, per la bizzarra immaginazione, per il suo amore di tipi e forme curio samente originali, Matteo da Gualdo può ben chiamarsi il Giovanni di Paolo della Scuola Umbra. Si meraviglia lo scrittore del multiforme sviluppo, della sorprendente differenza di stile che corre tra le varie opere dell’artista Gualdese e in prova di ciò egli presenta la tavola della Pinacoteca di Gualdo firmata e con la data 1462 che nella tecnica accurata, nel colorito metallico e profondo, nei curiosi particolari architettonici quasi ricorda lo Schiavone, e la confronta con l’altro trittico della Pinacoteca di Gualdo, pure firmato e con la data 1471, che mostra invece un fare largo e libero, una composizione eccessivamente semplice e rudimentale, dai tipi e dalle tinte assai simili a quelli dei Senesi Sano di Pietro e Giovanni di Paolo. Altro confronto fa tra il trittico della Chiesa di S. Maria di Nasciano, nel territorio Gualdese, e la grande tavola della Chiesa di S. Maria in Gualdo (oggi nella Pinacoteca Comunale) raffigurante un fantastico Albero Genealogico della Vergine, e una decorativa tavoletta pure nella Pinacoteca suddetta, dove si ammira un’Annunciazione e che reca segni evidenti di tardi influssi Fiorentini e Perugini. Il Perkins conchiude dicendo che difficilmente si riscontra un caso come questo e cioè di un artista che in un singolo gruppo di lavori, presenta tante varianti pur conservando la propria personalità, e con ciò spiega varie errate attribuzioni di opere non firmate, a proposito di Matteo da Gualdo.

Non era ancora spenta l’eco dell’Esposizione Perugina, che un altro grande critico d’arte, Adolfo Venturi, tornava ad occuparsi del Pittore Gualdese. Egli scriveva infatti che a costui « giunse qualche riflesso dell’arte di Piero della Francesco, insieme con esemplari di Girolamo di Giovanni e d’altri d’arte Senese, di Giovanni di Paolo e di Sano di Pietro … Le sue figure si riconoscono facilmente tanto hanno stretta e schiacciata la testa, fuor del vero i corpi di locusta … mostrano il difetto di accostar gli occhi stranamente e restringere le teste e i corpi in modo inverosimile. Quello strano squadro di proporzioni, fu proprio a Matteo da Gualdo, che ridusse in quelle sue forme le più ampie di Sano di Pietro … e qualche volta anche mantenne, con le proporzioni, i tipi del Maestro Senese. E più innanzi il Venturi aggiungeva che errò chi volle cercar somiglianze tra l’arte del Folignate Bartolomeo di Tommaso e quella di Matteo, essendo quest’ultimo assai superiore al primo, come pure lo ritiene superiore all’altro Folignate Pierantonio Mezzastris.

Scrive anzi a tal proposito, osservando i dipinti dell’Oratorio annesso all’Ospedale dei Pellegrini in Assisi, dove i due artisti la vorarono insieme, che Matteo da Gualdo « nelle sue pitture trova forme festose e par che da Giovanni Boccali s’ispiri nel fare gli angeli … in atto di pender festoni, di stender ghirlande, di prendere fiori da una cesta, ottenendo così una qualche vivezza decorativa ». E il venturi concludeva dicendo: «Pierantonio s’ingegnò ancora una volta, nella Chiesa di S. Anna in Foligno, di

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ripetere la gaia schiera dei fanciulli dipinti da Matteo da Gualdo nell’Oratorio dei Pellegrini in Assisi … ma coi suoi grassi putti non riuscì a far festa » .(19)

Molti altri ancora studiarono e scrissero su i dipinti di Matteo da Gualdo, tra i quali Berenson, che non a torto rilevò anch’esso la parentela dell’arte di Matteo con quella di Girolamo di Giovanni da Camerino, ma credo che gli scritti qui sopra riportati, bastino a provare con quanti diversi intendimenti sia stata considerata dai critici l’opera artistica del Pittore Gualdese, e questa diversità di opinioni e di giudizi ci mostra solo una cosa, che cioè ciascun critico considerò Matteo sotto un personale ed unico punto di vista e non già alla stregua, come già dissi, di tutto un cumulo di circostanze, risultanti da condizioni di luogo e di tempo, di rigida tecnica e di benigna poesia, così come si conviene nel giudicare un artista che, oltre quattrocento anni or sono, visse ed operò nelle umili e mistiche terre dell’ Umbria verde.

Le ricerche sulla vita e sulle opere di Matteo di Pietro, come si è detto appena iniziate dal Rossi nel 1872, m’invogliarono a praticarle in più vasto campo ed infatti, dopo avere pazientemente scorso, foglio per foglio, ben sessanta volumi manoscritti del nostro Archivio Notarile Antico, potei trame più di centocinquanta documenti, per la massima parte sconosciuti ed inediti, riferentisi alla vita di questo interessante ed originale Pittore Umbro.

Considerati isolatamente, tali documenti possono non avere grande importanza, ma nel loro insieme sono certo di notevole valore, poiché, anno per anno, anzi talvolta mese per mese, ricostruiscono e descrivono la vita di uno dei molti pittori Quattrocenteschi operanti nelle minori città dell’Umbria, sia nell’intimità della famiglia, sia nell’industrie e nei commerci, sia nella propria arte, sia nelle lotte politiche dell’epoca.

In genere, per la scarsezza di documenti, riesce impossibile, a distanza di secoli, poter fare consimili ricostruzioni biografiche e perciò la vita di Matteo da Gualdo è interessante, poiché, così fortunatamente riesumata dalle polverose e inesplorate carte dei nostri Archivi, può restare come esempio di quella di molti altri Pittori Umbri di quel secolo.

Dopo ciò, non ci resta che esporre in ordine cronologico, i documenti rintracciati, dopo i quali illustreremo dettagliatamente tutte le opere lasciateci dal Gualdese ed anche quelle oggi perdute, ma di cui ci è pervenuta memoria:

29 MAGGIO 1463. – Pietro di Angelello, originario di Sellano ma residente in Gualdo, promette in isposa a Matteo di Pietro Pittore, la propria figlia Pellegrina, con la dote di quattrocento fiorini, in ragione di quaranta bolognini per fiorino. Ma tale fidanzamento non dovette poi avere alcun seguito, oppure, subito dopo il matrimonio, Matteo rimase vedovo, poiché altra donna egli ebbe per moglie, come risulta da un documento che seguirà. (20)

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24 SETTEMBRE 1465. – Matteo di Pietro fa il suo primo testamento e doveva essere allora assai giovane, per cui tale atto fu probabilmente motivato o da una sua grave malattia o dall’essere quello tempo di peste o dal doversi egli accingere a qualche lungo e pericoloso viaggio. Con tale testamento lascia cinque soldi all’Altare Maggiore della Chiesa di S. Benedetto, nella quale vuole essere seppellito; lascia un fiorino «pro male ablatis»; per luminarie etc., durante i suoi funerali, vuoi che si spenda a beneplacito del suo erede; alla suddetta Chiesa di S. Benedetto lascia un vestito da uomo di colore rosaceo ed a quella di S. Margherita un consimile vestito, mentre per ornamento della Chiesa di S. Francesco, a titolo di espiazione dei suoi peccati, dona la somma di due fiorini. Un pezzo di panno di lino, atto a far camici per celebrar Messa, si sarebbe dovuto distribuire fra quelle Chiese che avrebbe designato il suo erede. Sempre alla Chiesa di S. Francesco, da un lenzuolo grande per far camici da Messa o consimili abbigliamenti sacerdotali ed all’Ospedale di S. Giacomo, una certa quantità di stoffa di canapa per far lenzuola. Alla Chiesa di S. Maria degli Angeli d’Assisi, destina una cinturella colorata e ricamata in argento, nonché alcuni pezzi di questo metallo ed una tovaglietta. Vuole che si venda un vestito nuziale di color monachino ed una camorra (specie di vestito allora in uso) di color bruschino e ad uso di donna, dovendosi distribuire poi il denaro ricavato, per amor di Dio, nel modo che vorrà il suo erede. Lascia poi in legato a Donna Bartolomea di Ranaldello, due terreni in località indeterminata ed alle figlie di Angelo di Ranaldello, una cintura ricamata in argento. Ad un tal Benedetto ed al fratello di questo, assegna una coperta da letto azzurra e bianca, una clamide con scapolare da uomo, un guarnello (specie di vestito) da uomo e di color bruschino, più tre fiorini di quaranta bolognini l’uno. A Giacomo di Silvestre di Assisi, cede tutti i diritti che aveva su di una casetta posta in quella città nella strada di S. Chiara; a Fino di Giuliano dona una giornera di color paonazzo, più un letto di legno ed un berretto; a Gioacchino di Giuliano un altro berretto ed a Maestro Benedetto; da Camerino due fiorini. Finalmente delega, quali suoi esecutori testamentari, Gioventino di Andrea ed il Notaio rogante quest’Atto, Luca di Ser Gentile, ai quali assegna, pro labore et mercede, venti bolognini per ciascuno e nomina Giuliano di Costantino suo erede universale. (21)

14 NOVEMBRE 1465. – Essendosi i Monaci della Badia di S. Benedetto in Gualdo riuniti in Capitolo, Matteo di Pietro con due compagni, interviene quale testimonio nella stipulazione dell’Atto notarile che autenticava le deliberazioni prese dai Monaci. (22)

1 FEBBRAIO 1467. – Andrea di Giovanni di Elemosina, del Castello di Crocicchio, promette al nostro Pittore la figlia Santa in isposa, assegnandole altresì come dote, trenta fiorini di quaranta bolognini l’uno, e da parte sua il Pittore dichiara di accettare per moglie la stessa Santa dando in garanzia tutti i suoi beni. Ma da altri

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documenti, che qui tra poco descriveremo, ci risulta invece che la figlia del suddetto Andrea di Giovanni di Elemosina sposatasi con Matteo, chiamavasi Margherita. Quindi bisogna supporre che, o per ragioni ignote, ad esempio per la morte di Santa, il Pittore sposò invece una di lei sorella chiamata Margherita, o che la sposa portava promiscuamente i due nomi suddetti. (23)

20 AGOSTO 1467. – Matteo di Pietro compera da Gentile di Ser Crispiano da Gualdo un terreno lavorativo, più una canepina, nella Parrocchia di Cajano, nel vocabolo Isola, per il prezzo di dodici fiorini e trenta bolognini. (24)

11 GIUGNO 1468. – Dichiara di aver ricevuto dal suocero, il su nominato Andrea di Giovanni di Elemosina, venticinque fiorini, quale dote dallo stesso Andrea concessa alla propria figlia Margherita moglie di Matteo, con la clausola, che detta dote, si sarebbe dovuta restituire nel caso di scioglimento del matrimonio per morte, per divorzio o per altra legittima causa, non esistendo figli o esistendone minori di due anni di età, a seconda degli Statuti Gualdesi e perciò obbligandosi il nostro Pittore con ipoteca su i propri beni. (25)

30 GIUGNO 1468. – Compera da donna Michelina vedova di Villano Mancini da Gualdo e dalla di lei figlia Elena un terreno lavorativo della misura di un modiolo, otto tavole e sessantacinque piedi, posto nella Parrocchia di S. Benedetto o Cajano, in vocabolo Le Pezze e Fossiano o Padule confinate con lo stesso compratore, la strada della Fiammegna (Flaminia) etc. per il prezzo di dieci fiorini e trentaquattro bolognini. (26)

2 APRILE 1469. – Vende a Renzo di Nicoluccio, del Castello di Pieve di Compresseto, una vigna posta nei dintorni di questo Castello, in vocabolo Buzaneto, per il prezzo di sei fiorini. (27)

4 OTTOBRE 1470. – Viene eletto arbitro, insieme a certi Domenico di Jacopo e Cristoforo di Biagio, per comporre una difficile vertenza, insorta tra parenti nella divisione di vari beni. (28)

26 NOVEMBRE 1470. – A nome di Marina, Angelina e Vica, figlie ed eredi della fu Bartolomea di Sante da Gualdo, Matteo di Pietro fa quietanza a Facondino di Angelo Sibotte, di un vestito azzurro e di un piumaccio di piume, concessi alla suddetta Bartolomea da tale Andromica già moglie del detto Facondino, come da testamento rogato per mano del notaio Antonio di Lello da Gualdo; nonché fa quietanza di certo grano avuto dalla suddetta Bartolomea, dichiarando infine di rilasciare dette quietanze affinchè fosse palese, che il già ricordato Facondino, aveva ottemperato al suo debito verso Bartolomea, per quanto si riferiva al vestito, al piumaccio ed al grano. (29)

19 OTTOBRE 1471. – I Priori del Comune di Assisi, rilasciano a Matteo di Pietro due bollette, una di fiorini dodici «pro mercede

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sui laboris picture quindecim armorum » e l’altra di un fiorino e mezzo « pro pictura armorum sculptorum in lapide affixorum in pariete pa latii novi». Matteo aveva infatti dipinto lo stemma del nuovo Ponteficie Sisto IV e forse quelli dei suoi Ufficiali, nei luoghi principali della città e propriamente cinque armi sulla facciata del Palazzo dei Priori, cinque sopra la Porta di S. Pietro e cinque sulla Porta Nuova. Il saldo delle su citate bollette, gli veniva poi fatto dal Tesoriere di Assisi, con fiorini undici e soldi venticinque, il 30 Aprile dell’anno seguente. (30)

25 NOVEMBRE 1471. – Vende al Gualdese Mariotto di Sante di Bernardo Mosca, una casetta posta in Gualdo, nel Quartiere di Porta S. Martino, presso l’abitazione dello stesso compratore per il prezzo di due fiorini, calcolati, come al solito, di quaranta bolognini ciascuno. (31)

30 DICEMBRE 1471. – Compera una vigna nel territorio di Pastina, nel vocabolo Macerigno, da Domenico di Nicoluccio di Becchetto e dal di lui figlio Francesco, per il prezzo di sedici fiorini. (32)

19 SETTEMBRE 1473. -I fratelli Nanni, Vico, Nicolo e Marco, figli di Biagio Brozi, possedendo indiviso insieme al Pittore Matteo un podere nella Parrocchia di Monterampone, in vocabolo Vallium, ricevono da Matteo stesso l’incarico di lavorare a cottimo, anche la metà del podere a lui spettante, e ciò per la durata di dodici anni a cominciare dall’Agosto del 1474. I quattro fratelli si obbligano, da parte loro, di corrispondere ogni anno a Matteo, per la metà del podere ad essi ceduta in lavorazione, sette mine di grano secondo la misura in uso nel Comune di Gualdo e d’altra parte il Pittore promette, durante i dodici anni suddetti, di non annullare il contratto con essi stabilito e di mantenerli nei loro diritti, sotto pena di cinquanta ducati di multa. Contemporaneamente si riconosce a ciascuna delle parti anche il diritto di potere costruire una casa di abitazione nel suddetto podere. (33)

10 LUGLIO 1474. – Matteo di Pietro appare quale testimonio in un Atto notarile (vendita di un oliveto). (34)

1 NOVEMBRE 1474. – Di nuovo funge da testimonio, con due compagni, in altri due Atti rogati dal notaio Luca di Ser Gentile, nel Chiostro di S. Donato. (35)

8 FEBBRAIO 1476. – In presenza del Podestà di Gualdo, da il proprio consenso, quale parente di donna Polisena, figlia di Francesco di Maestro Antonio di Ser Paolo da Gualdo, affinchè alla stessa sia assegnato, quale Curatore, Antonio di Nicolo Paccie. (36)

27 APRILE 1476. – Torna a figurare, come testimonio con due altre persone, in un Istrumento riguardante la vendita di un terreno. (37)

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28 APRILE 1476. – Insieme ad un compagno, funge ancora da testimonio, davanti al notaio Piero di Mariano Muscelli, in una costituzione di dote. (38)

8 AGOSTO 1476. – La stessa funzione compie, con altri sei individui, nel Castello di Crocicchio, vocabolo Colle S. Pietro, in occasione di un Atto testamentario, dettato da Giuliana di Andrea di Bartolomeo da S. Pellegrino. (39)

11 AGOSTO 1476. – Matteo di Pietro, trovandosi ancora in Crocicchio presso la famiglia di sua moglie, vuoi rinnovare anch’esso il suo testamento, così disponendo di sé e dei propri beni: II suo corpo, morendo in Gualdo, si sarebbe dovuto seppellire nella Chiesa di S. Benedetto. Lascia « pro ultimo juditio » dieci soldi, e venti «pro male ablatis», e per cera, luminarie, etc. durante i suoi funerali, quello che avrebbero stabilito i di lui esecutori testamentari. Vuole che si fosse fatto fare un palio per l’Altare Maggiore della Chiesa di S. Benedetto, adibendo a tale uso, il vestito migliore di color rosa che a lui apparteneva. Per la stessa si sarebbe dovuto confezionare un camice, adoperando certa stoffa sottile che egli aveva in casa di donna Caterina, vedova di Angelo Scaturzi. E similmente lascia alla Chiesa di S. Benedetto, alcuni oggetti che si trovavano conservati in un suo cofano e che erano indicati e descritti, per mano dello stesso testatore, in un registro nel quale egli soleva annotare i suoi crediti ed i suoi debiti. Ordina poi, che per tre anni, nell’anniversario della sua morte, si distribuissero ai poveri venti bolognini, e che a Margherita, sua moglie, fosse restituita la somma di venticinque fiorini che portò in dote, con l’aggiunta di altri otto fiorini per suo conto. Ma volendo detta Margherita mettere in comune la propria dote con i beni degli eredi universali di Matteo, mantenendosi contemporaneamente vedova e onesta, allora la stessa doveva essere accolta, vita naturale durante, nella famiglia di questi eredi, con diritto di amministrarne i beni ereditati. A Paola ed alla sorella di questa, figlie del fu Donato di Antonio Cagni da Gualdo, lascia i diritti che egli aveva su di una cavalla, su di una polledra e su di un muletto, da lui posseduti in soccita, con i figli di Filippo di Baldo di Maltento, come risultava da rogito del notaio Ser Andrea di Angelo da Gualdo. E se detta Paola e sorella morissero senza figli ed eredi viventi, allora di questi suoi diritti sul valore delle tre bestie, la metà sarebbe andata agli eredi del suddetto Antonio Cagni e l’altra metà alla Chiesa di S. Donato di Gualdo per restauri. Ordina che sia anche soddisfatto un suo voto emesso a favore delle Chiese di S. Maria di Loreto e di S. Bernardino di Aquila e lascia inoltre venti bolognini, per ornamento della Chiesa di S. Maria di Scirca, sulle cui pareti si ammirano anche oggi alcuni affreschi di Matteo. Delega quali suoi esecutori testamentari, con piene facoltà, Giacomo di Cecco D’Assisi, Francesco di Maestro Antonio di Ser Paolo e Giacomo di Maestro Antonio Sgarigli da Gualdo. Nomina, dopo tutto ciò, suoi eredi universali i figli Michelangelo e Girolamo

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e la figlia Antonia, con queste condizioni, che se alcuno di essi morisse senza figli legittimi, la quota ereditaria « recadat de uno in alium vel aliam » e che se tutti morissero senza figli viventi, allora i beni ad essi spettanti si sarebbero dovuti distribuire nel modo seguente: Alla Chiesa di S. Francesco di Gualdo si sarebbe data una vigna posta nel territorio Gualdese, in vocabolo Macerigno, confinante con Gabriele di Andrea Rossi, con gli eredi di Antonio Cagni e con Francesco di Domenico Becchetti, ma a condizione che la Chiesa non avesse poi potuto, in qualsiasi tempo, rivenderla o comunque alienarla e che se questo si facesse contrariamente alla sua volontà, allora tale Atto si doveva considerare nullo e la vigna sarebbe passata in proprietà dell’Ospedale di S. Giacomo di Gualdo. Similmente a Fiorano, a Domenico e ad altri due loro fratelli carnali, tutti e quattro figli del fu Benedetto di Sante da Camerino, abitanti nel Castello di Montirolo, nepoti del testatore, sarebbe stata concessa una casa posta in Gualdo, nel Quartiere di Porta S. Martino, confinante da due lati con la via, con la casa di Piero Lombardo e con la propria abitazione, in altre parole quella casa che egli aveva comperata da Giovanni di Antonio da Siena, da non confondersi però quest’ultima, con altre due case contigue, pure appartenenti allo stesso testatore. Ai suddetti Fiorano, Domenico e fratelli, sarebbe stata concessa anche una vigna ed un campo limitrofo, in vocabolo Fossiano o Padule, confinante con gli eredi di Pietro di Matteo, con Gabriele di Andrea Rossi e con la via, ma a condizione che, almeno uno dei suddetti, avesse abitato sino alla morte, nella casa come sopra ad essi donata e ciò non facendosi, prescriveva che gli stessi, dei beni del testatore, dovessero avere soltanto un fiorino, del valore di quaranta bolognini e null’altro. Ad Angelina, moglie di Ciolo di Giacomo ed a Nicolosa e Marietta e Giovanna, figlie di Marino di Bartolomeo, si sarebbe elargito un fiorino per ciascuna e ad Antonio, a Bernardo e ad Angelo di Andrea di Giovanni di Elemosina da Crocicchio (suoi cognati) due fiorini per persona. Sempre nel caso che i suoi figli morissero senza prole, sarebbe stato dichiarato suo erede universale Giacomo di Cecco di Silvestre d’Assisi suo nepote, con il diritto di poter disporre, nel modo più ampio, di tale eredità. Se però Giacomo morisse prima dei su nominati figli del testatore, allora tutti i suoi beni, sarebbero dovuti andare per metà alla Chiesa di S. Francesco di Gualdo e per l’altra metà all’Ospedale di S. Gia­como dello stesso luogo, istituendo in tal caso amministratore di detti beni, Frate Angelo della Valle di Boschetto per la Chiesa di S. Francesco e Giacomo di maestro Antonio per l’Ospedale, dovendo però costoro amministrare detta eredità per evidente vantaggio di questi due Enti. Dichiara infine di annullare il precedente suo testamento, esteso per mano del notaio Luca di Ser Gentile da Gualdo, che già descrivemmo. Il presente Atto testamentario, appare rogato in una capanna davanti la Porta del Castello di Crocicchio, patria della moglie di Matteo. Vi sono nominati, come testimoni, Don Bartolo di Gioventino, Gentile di Ser Crispiano da Gualdo, Matteo di Pietruccio, Benvenuto di Filippo, Nicola di Benedetto di Pietro,

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Antonio dì Bartolomeo di Benedetto e Andrea di Bartolomeo Niri da Crocicchio. (40)

23 AGOSTO 1476. – Nella Chiesa di S. Michele Arcangelo in Crocicchio, Matteo di Pietro, insieme a Biagio di Paolo Meze da Caprara, interviene come testimonio in un Istrumento notarile, consistente nella divisione di alcuni beni mobili e immobili posseduti in comune tra Andrea di Giovanni di Elemosina, suocero dello stesso Matteo, da una parte, e dall’altra parte Elemosina, Pietro e Giovanni, nepoti carnali del suddetto Andrea, essendo figli del di lui fratello Gaspare, nonché Jacopo figlio di Lazzaro, il quale ultimo era fratello dei sopra nominati Elemosina, Pietro e Giovanni, tutti residenti in Crocicchio e anch’essi parenti della moglie di Matteo di Pietro. Durante la stipulazione dell’Atto, al Pittore come pure al suo compagno Biagio di Paolo Meze, presenti come testimoni, si da anche l’incarico di giudicare inappellabilmente, quali arbitri, su di una vertenza riferentesi alla restituzione della dote di Angela, moglie del suddetto Andrea, dote che in parte era servita per acquistare sette terreni, i quali, essendo passati a far parte del patrimonio comune, venivano ora da questo separati prima della divisione e riconsegnati ad Andrea ed a sua moglie Angela. Matteo di Pietro e Biagio di Paolo Meze, avrebbero dovuto appunto dichiarare, quale somma o in danaro o in terreni, si sarebbe dovuta dare ancora ad Andrea ed alla moglie Angela, per completare la restituzione della dote che quest’ultima aveva versato nel patrimonio comune. (41)

27 AGOSTO 1476. – In conseguenza dell’Atto precedente in data 23 Agosto 1476, le parti in causa, per opera di Matteo di Pietro e di Biagio di Paolo Meze, avendo effettuata la divisione dei beni posseduti in comune ed essendosene rilasciata scambievolmente finale quietanza, danno di nuovo mandato agli stessi Matteo di Pietro e Biagio di Paolo di decidere inappellabilmente, quali arbitri, anche su alcune questioni secondarie, inerenti alla divisione suddetta, che erano rimaste insolute. (42)

27 AGOSTO 1476. – Matteo di Pietro e Biagio di Paolo Meze, ottemperando al mandato ricevuto con il già descritto Atto del 23 Agosto 1476, ascoltate e ponderate le ragioni delle due parti, dopo avere invocato Cristo, la B. V. Maria e S. Michele Arcangelo Patrono di Gualdo, emettono definitivamente in Crocicchio la loro sentenza, giudicando che Andrea di Giovanni di Elemosina, e la di lui moglie Angela, a saldo di restituzione di dote, debbono ancora avere quattro fiorini e ciò nel termine di quattro anni. (43)

28 AGOSTO 1476. – Matteo di Pietro e Biagio di Paolo Meze, in adempimento dell’arbitrato ad essi commesso con il primo dei due su descritti Rogiti aventi la data 27 Agosto 1476, presa visione delle questioni rimaste insolute tra le parti in causa, invocato l’aiuto celeste, pronunziano in modo definitivo la loro sentenza. (44)

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1 FEBBRAIO 1477. – Matteo di Pietro nomina Feliziano di Costantino da Gualdo, quale suo procuratore per agire davanti al Giudice di quest’ultima città, contro gli eredi di Facondino Sibocte. (45)

6 LUGLIO 1477. – Trovasi come testimonio, con altro individuo, in un rogito notarile consistente in una promessa di matrimonio. (46)

24 NOVEMBRE 1477. – Andrea di Giovanni di Elemosina, suocero di Matteo di Pietro, fa testamento e nomina quest’ultimo suo esecutore testamentario, insieme a due altre persone. (47)

29 MAGGIO 1478. – E’ chiamato come testimonio, con tre compagni, in un rogito, con cui un tale, dichiara di aver ricevuto un assegno a titolo di dote. (48)

7 DICEMBRE 1478. – Con tale data esistono due Atti notarili riguardanti Matteo di Pietro: Con il primo Atto si premette che tal Restore del fu Angelo da Gualdo, aveva istituito suo erede universale il concittadino Marco di Angelo Fabbri e che nello stesso tempo, alla propria moglie Berardina di Ciolo di Jacopo, aveva concesso il diritto di aver vitto, vestito ed abitazione nella casa maritale, finché si fosse onestamente mantenuta vedova, durante cinque anni; autorizzandola altresì a ritenere presso di sé, a spese del testatore, il suo fratello Antonio e, nel caso passasse ad secunda vota, lasciavale la camera, i vestiti e tre terreni, come da testamento e codicilli rogati dal notaio Ser Gaspare di Raniero, più venticinque fiorini, dovendosi però affidare tutto ciò, per conto di Berardina, al di lei procuratore Maestro Matteo di Pietro Pittore. Nel secondo Atto poi si ricorda anzi tutto che, ad istanza di quest’ultimo, dal Giudice di Gualdo era stata emanata una sentenza contro il suddetto Marco di Angelo Fabbri, a proposito di un orto facente parte dei beni lasciati dal fu Restore di Angelo già sopra ricordato, orto posto nel Quartiere di Porta S. Donato e che contro tale sentenza, Marco di Angelo Fabbri aveva interposto appello, affidando la causa al Castellano della Rocca di Gualdo. Volendo ora le parti recedere dalla lite in corso, evitando così ulteriori spese, il Pittore Matteo e David del fu Restore da Perugia, del Quartiere di Porta Sole, quest’ ultimo quale procuratore del suddetto Marco, stabilivano quanto appresso: Veniva interrotta ogni lite annullandosi così la sentenza come l’appello e perdonandosi scambievolmente ogni passata offesa, salvo eventuali rifazioni per danni ed interessi. L’orto in contrasto restava in proprietà di Matteo Pittore. Quest’ultimo, per tale cessione, versava in mano del procuratore di Marco la somma di otto fiorini, che il procuratore stesso confessava di avere già ricevuto da Matteo e di averli versati a donna Berardina, vedova del su ricordato Restore di Angelo, in conto di venticinque fiorini che detta vedova, come risulta dall’Atto precedente, doveva avere da Marco quale erede di Restore. I due Rogiti suddetti, con la stessa data 7 Dicembre 1478, sono completati dal relativo Atto di quietanza, rilasciato a Matteo di Pietro da Marco di Angelo Fabbri. (49)

643 – PARTE TERZA – Miscellanea

1 GENNAIO 1479. – Matteo di Pietro vende a donna Francesca, figlia di Tommasso di Giovanni Elemosina, vedova di Bartolomeo di Melchiorre e a donna Elisabetta, vedova di Filippo di Melchiorre Granella da Gualdo, un orto posto presso le mura di questa città, per il prezzo di sette fiorini, a quaranta bolognini per fiorino. (50)

4 FEBBRAIO 1479. – Compera da donna Elisabetta, figlia del fu Ser Antonio di Lorenzo e vedova di Ser Pier Giovanni di Ser Ludovico da Gualdo, un terreno sodivo nella Parrocchia di Santa Croce, in vocabolo Prati, e ciò per il prezzo di un fiorino e mezzo. (51)

21 FEBBRAIO 1479. – Nella Chiesa Abbaziale di S. Benedetto in Gualdo, si raduna il Capitolo di quei Monaci ed al conseguente Atto notarile, assiste, quale testimonio, Matteo di Pietro con quattro compagni. (52)

3 MARZO 1479. – Con altri due si ritrova, come testimonio, in un Istrumento comprovante il versamento di un assegno dotale. (53)

12 MAGGIO 1480. – Matteo di Pietro con Vico di Brozzo da S. Pellegrino da una parte e Nicolo alias Mazolo da Monterampone nel Comune di Gualdo dall’altra parte, essendo in lite a proposito di alcune loro possessioni ed avendo sottoposto tale lite al giudizio di due arbitri e cioè di Betto da Monterampone e di Monaldo di Melchiorre da Gualdo, si presentano ora al Podestà di Gualdo, Pier Domenico de Leopardis da Osimo, dichiarando di accettare la sentenza arbitrale ed obbligandosi, se a questa dichiarazione venissero meno, a pagare una multa di dieci ducati, da destinarsi metà alla Camera Apostolica e metà al Comune di Gualdo, per restaurare le mura civiche. (54)

25 MAGGIO 1480. – E’ testimonio, con altro cittadino, in un Atto notarile (pagamento di una dote) esteso nel Chiostro di S. Benedetto in Gualdo. (55)

11 DICEMBRE 1480. – Con altra persona, è chiamato quale testimonio, nell’Atto di nomina di un Procuratore. (56)

8 gennaio 1481. Figura nuovamente fra i testimoni di un atto testamentario. (57)

13 GENNAIO 1481. – Ser Giovanni di Ser Antonio, Nercolo di Angelo di Paolo, Vittorio di Bartolomeo di Nicolo della Porta, tutti da Gualdo, nominano loro Procuratore generale Matteo di Pietro, specialmente per curare la vendita di alcuni terreni che possedevano nella Parrocchia di Umbrano. (58)

14 GENNAIO 1481. – In questo documento si ricorda anzi tutto, che tra Matteo di Pietro e Nicolo alias Mazolo da Monterampone, esisteva una vertenza a causa di due terreni, posti nella stessa Parrocchia di Monterampone, nei vocaboli Colle Gennaro e

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Sterpeto, vertenza che, assai probabilmente, è quella stessa a cui si riferisce il precedente documento in data 12 Maggio 1480. Volendo ora le due parti venire ad un accordo, nominano nuovi arbitri in persona di Giuliano di Costantino per Matteo e di Angelo di Gentile per Nicolò, promettendo di attenersi, senza alcun appello, al giudizio arbitrale, sotto pena, per l’inadempiente, di venticinque ducati, da devolversi per metà alla parte osservante e per l’altra metà al Comune di Gualdo, a scopo di restauro delle mura civiche. Nello stesso tempo le parti nominano, quale loro Procuratore, Bartolomeo di Stoppolone da Gualdo, per la ratifica, applicazione ed esecuzione della sentenza che sarà emessa dai due arbitri su nominati. (59)

15 GENNAIO 1481. – In relazione con il precedente Atto del 14 Gennaio, davanti a Ser Polo, Luogotenente del Podestà di Gualdo, Matteo di Pietro stipula la pace con Nicolo detto Mazolo da Monterampone. Le due parti si obbligano per loro stesse e per i propri figli ed eredi, di non più offendersi scambievolmente, in qualunque modo, per l’avvenire, pena la multa di cinquecento libbre di denari. Si nominano a tale scopo, quali fideiussori, per Matteo, Giuliano di Costantino da Gualdo e per Nicolo detto Mazolo, Bartolomeo di Angelo. Nello stesso tempo, i due contendenti, garantiscono con i propri beni, i suddetti fideiussori ed in tale garanzia, con Nicolò, intervengono anche i di lui figli Bernardino e Tommaso. (60)

21 GENNAIO 1481. – In occasione del fidanzamento di Giovanna, figlia di Angelo di Ranaldello, altrimenti detto Angelo delle Marmole, con Antonio figlio di Betto di Antoniuccio da Gualdo, si nominano, quali delegati a stabilire la dote di Giovanna, Matteo di Pietro e Cenzio di Evangelista da Gualdo, i quali fissano detta dote, nella somma di dieci fiorini, a quaranta bolognini per fiorino. (61)

29 GENNAIO 1481. – Per effetto del su descritto Atto in data 13 Gennaio 1481 e quindi investe di Procuratore, Matteo di Pietro vende a Valentino di Nicolò detto Bachantonìo da Maccantone, un terreno sodivo, prativo e lavorativo, della misura di due modioli, posto nella Parrocchia di Umbrano, vocabolo Vignoli. La vendita si effettuava per il prezzo di quattro fiorini in moneta della Marca. Dei quattro fiorini, uno per ciascuno spettava ai tre venditori suddetti e il quarto, come compenso, al loro Procuratore Matteo. (62)

7 FEBBRAIO 1481.- Interviene, con altri testimoni e anch’esso come tale, alla firma di un testamento. (63)

13 FEBBRAIO 1481. – Certo in relazione con i precedenti Atti in data 12 Maggio 1480, 14 e 15 Gennaio 1481, Nicolo alias Mazolo da Monterampone, nomina suo Procuratore generale Bernardino di Gaspare da Gualdo, nella lite che, davanti al Podestà Gualdese, egli aveva ancora contro Matteo di Pietro. (64)

18 MARZO 1481. – Domenico di Giacomo di Angelo da Gualdo, dichiara di tenere presso di sé quattro fiorini e mezzo (di quaranta

645 – PARTE TERZA – Miscellanea

bolognini Marchigiani ognuno) che avrebbe dovuto pagare dal Gennaio 1482 al Gennaio 1483, al Pittore Matteo di Pietro, dietro sua richiesta e per conto di Berardino e Tommaso, figli di Nicolo detto Mazolo, i quali da parte loro, esoneravano il su nominato Domenico da ogni responsabilità, garantendogli l’autorizzazione e la ratifica, per tale Atto, anche da parte del loro padre. Dopo tale dichiarazione, Matteo di Pietro cede in perpetuo ai due fratelli Berardino e Tommaso, che accettavano non solo a nome proprio ma anche per conto del padre Nicolo, due terreni della misura di quattro modioli ciascuno, nella Parrocchia di Monterampone, nei vocaboli Colle Gennaro e Sterpeto e la cessione avveniva per il suddetto prezzo di quattro fiorini e mezzo. E’ evidente che con tale vendita si poneva fine alla lunga lite vertente tra il Pittore e Nicolo detto Mazolo, lite di cui abbiamo descritto le vicende nei documenti che precedono. (65)

29 GIUGNO 1481. – Matteo di Pietro nomina Ser Bernardino di Pietro, quale suo Procuratore, per agire contro Maestro Giovanni de Buta da Forlì, già Podestà di Gualdo. (66)

31 DICEMBRE 1481. – A seguito del precedente documento in data 18 Marzo 1481, Matteo Pittore dichiara ora di aver ricevuto da Tommaso di Nicolo detto Mazolo, due fiorini e mezzo sulla somma totale di quattro fiorini e mezzo, di cui era depositario Domenico di Giacomo alias Pochette e detto pagamento veniva effettuato dal suddetto Tommaso anche a nome del proprio fratello Berardino e del padre Nicolo. Quanto ai restanti due fiorini, Matteo di Pietro autorizzava il depositario Domenico di Giacomo a pagarglieli, anziché entro i termini stabiliti con il precedente contratto, nella ricorrenza invece della festa di S. Michele Arcangelo, ossia il giorno 8 Maggio venturo. (67)

11 FEBBRAIO 1482. – Matteo di Pietro, con altre due persone, alla presenza del Podestà Gualdese Piermatteo dei Paoletti da Gubbio, nella Chiesa di S. Francesco in Gualdo, funziona da testimonio in un Atto notarile consistente nella vendita di una casa. (68)

10 AGOSTO 1482. – Matteo di Pietro autorizza il Notaio Pierantonio di Ser Giovanni Durante, ad annullare i due Atti già descritti in data 18 Marzo e 31 Dicembre 1481, essendo stato anticipatamente pagato a saldo, dei quattro fiorini e mezzo a lui spettanti, secondo quanto risultava dagli stessi due Atti. (69)

10 AGOSTO 1483. – Si premette che era insorta una questione tra Matteo di Pietro da una parte e dall’altra Berardo, Antonio ed Angelo, figli di Andrea di Giovanni di Elemosina da Crocicchio, fratelli carnali di Margherita moglie di Matteo, nonché Elemosina e Giovanni figli di Gaspare di Giovanni di Elemosina, cugini quindi della stessa Margherita, i quali ultimi intervenivano anche come tutori dei figli ed eredi di Lazzaro e Pietro loro defunti fratelli. La vertenza era insorta in occasione della raccolta del grano, fatta

646 – PARTE TERZA – Miscellanea

durante tre anni, in un podere venduto a Matteo di Pietro dal suocero, il suddetto Andrea di Giovanni di Elemosina e dal di lui fratello Gaspare, ambedue genitori dei su nominati avversari di Matteo. Volendosi ora comporre tale vertenza, le due parti in causa nominano, di comune accordo, quale arbitro, Pierantonio di Ser Giovanni da Gualdo, dichiarando altresì di rimettersi inappellabilmente al suo giudizio. (70)

23 GENNAIO 1484. – Matteo di Pietro, dal Giudice del Comune di Gualdo, è nominato Curatore di donna Flora, figlia di Antonio di Andrea di Giovanni di Elemosina da Crocicchio e quindi nepote della moglie dello stesso Matteo. A tale nomina danno personalmente il proprio consenso Berardo di Andrea da Crocicchio, zio di Flora, Giacomo di Cristoforo pure da Crocicchio e Berardino di Ludovico Accomanduzzi da Gualdo, anche questi due ultimi parenti della stessa Flora. Si addiviene alla suddetta nomina, perché, in occasione del suo prossimo matrimonio, dovendo Flora stipulare un Atto notarile per la sistemazione di alcuni suoi diritti su i beni paterni e materni, non avrebbe potuto ciò fare da sola e senza un Curatore, essendo di età superiore ai dodici anni, ma minore di venticinque, secondo quanto prescrivevano le disposizioni statutarie allora vigenti in Gualdo. Matteo accetta l’incarico e promette di bene e fedelmente eseguirlo nell’interesse della nepote di sua moglie. (71)

25 FEBBRAIO 1484. – Funge da testimonio, con due suoi compagni, in un Atto notarile rogato nella Piazza del Comune in Gualdo, per l’affitto di un forno. (72)

29 FEBBRAIO 1484. – I Rettori delle Arti del Comune di Gualdo, per conto del Comune stesso, donano a Matteo di Pietro, in ricompensa dei servigi da lui resi alla Patria e per avere ben meritato dei Priori e del Popolo, i seguenti beni di proprietà Comunale e cioè: Tutto ciò che il Comune possedeva nella Parrocchia di Caprara secondo i suoi reali confini. Tutto ciò che possedeva nella Parrocchia di Pierle, in vocabolo Piaggia dei Sassi, presso il torrente Arone. Un terreno nella parrocchia di Umbrano, vocabolo Lete, presso il confine Nocerino. Dieciassette modioli di terra nella Parrocchia di Morano, nel vocabolo Monterampone. Ignoriamo però quali importanti servigi avesse Matteo reso al paese nativo, per esserne ricompensato con un dono così cospicuo. (73)

1 MAGGIO 1484. – Come testimonio, è chiamato con due com pagni, in un Istrumento consistente nella nomina di un Procuratore. (74)

17 GIUGNO 1484. – Matteo di Pietro stipula un accordo con tale Paolo di Pietro Tei, detto Tempesta, del Castello di Caprara, con il quale era già in lite a causa di un orto dell’estensione di cinque tavole, posto nel suddetto Castello, nonché a causa di una soccita di porci, gestita da Paolo stesso per conto di Matteo. Per effetto di tale accordo, Paolo cedeva a Matteo in proprietà l’orto su indicato e

647 – PARTE TERZA – Miscellanea

Matteo, da parte sua, rilasciava a Paolo la suddetta azienda di porci, con ogni diritto ad essa pertinente, per il prezzo di otto fiorini, da pagarsi entro il termine di cinque mesi. (75)

27 FEBBRAIO 1485. – Matteo di Pietro, insieme a Ser Giovanni di Ser Antonio, è eletto arbitro nella composizione di un dissidio, insorto tra Gabriele di Andrea Rossi e Giovanni di Angelo da Camerino, da una parte, e Gioventino fratello del suddetto Gabriele, dall’altra parte, dissidio scoppiato a proposito di alcuni castrati. Gli arbitri promettono di bene e imparzialmente espletare il loro mandato. (76)

28 FEBBRAIO 1485. – Sempre a proposito della vertenza insorta tra Matteo di Pietro ed i parenti di sua moglie e della quale si è trattato nel documento in data 10 Agosto 1483, si addiviene ora alla nomina di altri due arbitri per comporre la vertenza stessa. Vengono infatti eletti Giuliano di Costantino per Matteo di Pietro e Pietro di Angelo Thiani per la parte avversaria. I contendenti danno agli arbitri piena facoltà di decisione ed in caso d’inosservanza della loro sentenza, si obbligano per la multa di venticinque fiorini, da destinarsi, per metà alla parte osservante e per l’altra metà al Comune di Gualdo, a scopo di restauro delle Mura Castellane. (77)

7 MARZO 1485. – Matteo di Pietro, con il cognato Berardo di Andrea da Crocicchio, assiste quale testimonio, ad un Istrumento notarile (Nomina di un fidejussore). (78)

29 MAGGIO 1485. – Riferendosi alla vertenza tra Matteo di Pietro ed i parenti della di lui moglie, vertenza di cui trattano anche i precedenti Atti in data 10 Agosto 1483 e 28 Febbraio 1485, le parti in causa, per la terza volta, nominano un arbitro a risolvere, con pieni poteri, la vecchia lite e ciò in persona di Domenico di Pietro, residente all’Isola, nel Comune di Nocera. Per chi non si fosse attenuto al suo giudizio, si prescrive la multa di venticinque libbre di denari, da devolversi come venne indicato nel secondo dei due Atti suddetti. (79)

29 MAGGIO 1485. – Per effetto dell’Atto che precede e in quello stesso giorno, l’arbitro Domenico di Pietro, pronunzia finalmente il suo giudizio nella lite tra Matteo di Pietro ed i congiunti di sua moglie, sentenziando che questi ultimi, tutti rappresentati da Elemosina di Gaspare di Giovanni di Elemosina, avrebbero dovuto dare al Pittore Matteo due mine di grano, secondo la misura in uso nel Comune di Gualdo ed in occasione della festa di S. Maria, ricorrente nel venturo mese di Marzo. (80)

30 GIUGNO 1485. – Matteo di Pietro figura, in quest’anno, tra i quattro Rettori delle Arti del Comune di Gualdo. (81)

30 GIUGNO 1485. – I Rettori delle Arti del Comune di Gualdo tra i quali, come sopra si è detto, appare in quest’anno Matteo di Pietro, donano, sotto certe condizioni, tra le quali il divieto di

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rivendita, alcuni stabili di proprietà Comunale a Battista di Ser Ascanio da Gualdo, che li riceveva non solo per proprio conto, ma anche a nome dell’assente Michelangelo, figlio del suddetto Matteo di Pietro. Ignoriamo anche qui i motivi per i quali, al figlio del nostro Pittore ed al suo compagno, vien fatta dal Comune una tale donazione. (82)

30 NOVEMBRE 1485. – Con il suo amico Giuliano di Costantino, nella Spezieria di quest’ultimo ed insieme ad un altro compagno, Matteo funge da testimonio in un Atto notarile, consistente nel rilascio di una quietanza. (83)

10 DICEMBRE 1485. – Unitamente al suddetto Giuliano di Costantino, essendo stato eletto arbitro in una lite vertente tra Antonio alias Casciolo di Luca Merenne da una parte e dall’altra gli eredi di Paolo di Luca Merenne, rappresentati questi ultimi dal Procuratore Ser Andrea di Angelo Benadatti, Matteo di Pietro e il suo collega d’arbitrato Giuliano, pubblicano ora il loro giudizio sulla risoluzione della lite. Alla suddetta funzione, Matteo era stato designato dagli eredi di Paolo di Luca e dal loro Procuratore. (84)

13 DICEMBRE 1485. – Per l’arbitrato di cui trattasi nell’Atto che precede con la data 10 Dicembre, a Matteo di Pietro spettava, in compenso, una certa somma e ciò in forza di disposizioni Statutarie Gualdesi. Ma egli lascia ora in deposito tale somma presso i debitori e cioè presso i già ricordati eredi di Paolo di Luca Merenne, i quali però si obbligano di farne la consegna a Matteo integralmente, senza alcuna eccezione ed in qualsiasi tempo, a richiesta dello stesso. (85)

27 DICEMBRE 1485. – Lo troviamo, in tale giorno, tra i tre testimoni di un’Istrumento notarile, esteso per rilasciare una quietanza. (86)

15 gennaio I486. – A seguito dell’Atto già descritto con la data 30 Giugno 1485, il Pittore Matteo (quale padre ed amministratore dell’assente suo figlio Michelangelo) nonché Battista di Ser Ascanio, dichiarano di accettare la donazione degli stabili ad essi fatta, con il su indicato Atto, dal Comune di Gualdo, ed entrano in possesso di questi stabili, consistenti in una casa contigua al Palazzo dei Rettori del Comune, nel Quartiere di Porta S. Martino ed in una stanza esistente a pianterreno nella Torre della stessa Porta S. Martino. (87)

12 NOVEMBRE 1487. – Matteo di Pietro, essendo nuovamente in lite con il già ricordato Paolo di Pietro Tei detto Tempesta da Caprara, a causa di un terreno sito nel suddetto Castello, a comporre tale vertenza i due litiganti nominano di comune accordo, quali arbitri, Pellegrino di Balduccio e Bartolomeo Stoppoloni, obbligandosi di sottostare alla multa di venticinque ducati d’oro in

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caso di inadempienza dell’arbitrato e di ritenere questo inappellabile e definitivo. (88)

13 NOVEMBRE 1487. – Per porre fine alla lite di cui si tratta nell’antistante documento del 12 Novembre, Paolo di Pietro Tei detto Tempesta da Caprara, avanti la Porta del Palazzo del Podestà, alla presenza di Conventino dei Conventini da Gubbio, Giudice dello stesso Podestà, nonché del Notaio rogante, promette solennemente di non più offendere, né fare offendere Matteo di Pietro, i suoi figli ed i suoi parenti, né nelle loro persone, né danneggiandone i beni, sotto pena di cinquecento libbre di denari, dando inoltre perciò, quale suo fideiussore, Benedetto alias Barcio da Gualdo. (89)

5 e 6 FEBBRAIO 1488. – Essendo insorte delle discordanze tra i due fratelli Giovanni e Berardo, figli di Ludovico Accomanduzi, a proposito del pagamento di alcune opere murarie eseguite nella loro casa, gli stessi, alla presenza del Podestà di Gualdo Brunelle Brunelli da Perugia, stabiliscono la nomina di due arbitri, aventi piena facoltà di decisione: Berardo designa a tale ufficio il Pittore Matteo di Pietro, e Giovanni, Balduino di Francesco (90).

20 AGOSTO 1488. – Anche in quest’anno, Maestro Matteo di Pietro figura tra i quattro Rettori delle Arti del Comune di Gualdo. Questi Rettori infatti, con deliberazione presa nel giorno qui indicato, donano un terreno Comunale, lavorativo e olivato, posto nella Parrocchia di Gaifana, nel vocabolo Le Chiusure, a Girolamo, figlio dello stesso Matteo di Pietro, a Bernardino di Ser Lucido ed a Michele di Giovanni Fidatti. Non è indicato il motivo della donazione e perciò ci appaiono assai strani questi doni fatti a nome del Comune, dai Rettori delle Arti, ai figli di Matteo pittore, proprio quando quest’ultimo è nel numero dei Rettori stessi. Di una consimile donazione all’altro di lui figlio Michelangelo, trattammo infatti anche nei documenti aventi le date 30 Giugno 1485 e 15 Gennaio 1486. (91)

24 AGOSTO 1489. – Maestro Matteo di Pietro, vende ad Angelo di Pietro di Luca, soprannominato Ronca da Gualdo, il quale compera anche a nome dei fratelli Giovanni e Domenico, un terreno lavorativo posto nella Parrocchia di S. Martino, in vocabolo Moglie e ciò per il prezzo di quarantacinque fiorini, a quaranta bolognini per fiorino. (92)

21 SETTEMBRE 1489. – Vende a Rosato di Giovanni, detto Anichino, barberius, da Gubbio, un terreno posto in Caprara per il prezzo di un fiorino. (93)

21 SETTEMBRE 1489. – Rilascia quietanza a Paolo di Pietro Tei detto Tempesta da Caprara, per la somma di otto fiorini già ricevuti e spettantigli in forza della transazione che precedentemente abbiamo riportato sotto la data 17 Giugno 1484. (94)

650 – PARTE TERZA – Miscellanea

28 OTTOBRE 1489. – Compera da Francesco di Bartolomeo di Ciarengone da Gualdo e dal di lui fratello carnale Filippo, una canepina posta nella Parrocchia di Cajano, in vocabolo Isola, confinante con altri suoi beni e con il fiumicello detto dell’Isola, per il prezzo di due fiorini e venticinque bolognini. (95)

12 MARZO 1490. – Vende a Gregorio alias Goro di Bartoccio da Crocicchio, un terreno boschivo posto nella Parrocchia omonima, il vocabolo Elci, per il prezzo di sei fiorini, la qual somma però Maestro Matteo lascia temporaneamente in deposito presso il compratore. (96)

1 NOVEMBRE 1490. – In veste di testimonio e con altro individuo, assiste alla stipulazione di un Istrumento, mediante il quale alcune terre vengono affidate ad un agricoltore per la coltivazione. (97)

7 NOVEMBRE 1490. – Matteo di Pietro promette a Michelotto di Giovanni Malatesta da Gualdo, sua figlia Antonia in isposa, con cinquanta fiorini di dote. Subito dopo segue il contratto matrimoniale, che qui piacerai trascrivere nel suo caratteristico testo originale, per la conoscenza delle consuetudini locali in quei tempi lontani : « Eodem die, etc ….. Constituta personaliter dicta domina Antonia coram dictis testibus et me notarlo …. et interrogata an sibi placeat per verba de presenti in legitimum sponsum et maritum Michilottum Johannis predictum presenterà …. et cum eo contrahere sponsalitia et matrimonium …. inclinato capite dixit quod sic. Et ex contra, interrogata a me notarlo dictus Michilottus an sibi placeat in sponsam et uxorem legitimam dictam dominam Antoniam presenterà …. et cum ea contrahere legitimum matrimonium et sponsa lium …. respondendo dixit quod sic. Et immediate eam desponsavit actu legitimo et anulum de argento deaurato in digito anulari ipsius domine Antonie posuit …».(98)

23 NOVEMBRE 1491. – Nella casa di Matteo di Pietro, si riuniscono donna Gentilina del fu Nicolò di Coccia da Gualdo, vedova di Vanni di Giacopuccio ed il lombardo maestro Domenico di Pietro da Vigevano ed ivi stipulano, davanti al notaro, un Atto legale consistente nella vendita di una vigna fatta da Gentilina a Domenico. (99)

17 GENNAIO 1492. – In Gualdo, nel Palazzo dei Priori, presenti Antonio e Francesco di Nanni, piliccarii, Matteo di Pietro nomina quale suo Procuratore il proprio figlio Ser Girolamo, in confronto di chiunque, ma in ispecial modo in confronto di Cecco di Gramaccia. (100)

22 GENNAIO 1492. – Con tale data Matteo trovasi nominato tra i Priori del Comune di Gualdo. (101)

2 NOVEMBRE 1492. – Matteo di Pietro, sanus corpare et mente, per la terza volta fa testamento, così disponendo dei suoi beni: Pro suo ultimo juditio offre cinque soldi, nell’epoca della sua morte,

651 – PARTE TERZA – Miscellanea

all’Altare Maggiore della Chiesa di S. Benedetto, dove intende essere sepolto, vestito col saio Francescano ed alla stessa Chiesa la sua salma doveva essere trasportata dai Frati Eremiti che abitavano nell’Eremo di S. Francesco, posto fuori della città, o almeno da chiunque altro vestisse l’abito Francescano. Per riparazione delle cose male acquistate durante la sua vita, lascia dieci soldi d’elemosina. Per la spesa dei ceri, lumi, chierici etc. occorrenti al funerale, si rimette a quanto avrebbero fatto i suoi esecutori testamentari che nomina nelle persone di Michelotto di Giovanni di Antonio Malatesta suo genero, e Corrado di Andrea di Corraduccio da Gualdo. Ordina che i propri eredi, per cinque anni, nell’anniversario della sua morte, distribuissero due mine di grano panificato ai poveri ed alle Comunità religiose, a pro dell’anima sua. Inoltre gli stessi eredi, nell’anno in cui sarebbe morto, dovevano far celebrare per due volte le Messe di S. Gregorio in suffragio della di lui anima e nell’anno seguente, di tali Messe, parte dovevano essere celebrate per la sua anima, parte per l’anima di Donato di Antonio Cagni da Gualdo. Finalmente questi eredi dovevano adempiere tutti i voti che si sarebbero trovati scritti di suo pugno, nell’ultimo foglio del Registro in cui soleva annotare i propri debiti e i propri crediti. Alla sua figlia Antonia, moglie del suddetto Michelotto Malatesta, a titolo di dote lascia cinquanta fiorini, in ragione di bolognini quaranta per fiorino, somma già consegnata al di lei marito, come appariva da pubblico Istrumento rogato dal notaio Gualdese Ser Vincenzo di Piero. Alla stéssa figlia Antonia, conferisce il diritto, in caso di vedovanza o di altra necessità, di essere nuovamente accolta dagli eredi nella casa paterna e averne vitto e vestimenta, ma partecipando all’azienda famigliare con la sua dote e con il suo lavoro ed alla stessa, iure institutionis et benedictionis, lascia la somma di un fiorino, dovendosi con ciò ritenere in tutto tacitata e soddisfatta. Dispone poi perché venga restituita alla propria moglie Margherita, la somma di venticinque fiorini, già a lui portati in dote e la nomina usufruttuaria dei beni del testatore, sino a che si fosse mantenuta vedova e onesta, con la clausola però, che avrebbe potuto vendere di questi beni, in caso di assoluta necessità, solo quel tanto che a tale necessità avesse supplito; la stessa d’altronde, morendo, non avrebbe potuto lasciare ciò che possedeva ad altre persone fuorché agli eredi del testatore. Passando poi ad secunda vota, la di lui vedova avrebbe avuto diritto solo alla restituzione della dote di venticinque fiorini, dovendosene contentare né più altro richiedere. Infine, quante volte la stessa Margherita volesse restare ad abitare con i propri figli nella casa del testatore, non possa essere mai privata della camera ov’era solita dormire. Tutto ciò premesso, nomina eredi universali i suoi figli Girolamo e Francesco, i quali però non avrebbero potuto dividersi i beni paterni, sino a che il secondo di essi non avesse raggiunta l’età di ventidue anni. E nel caso che uno di questi morisse senza figli legittimi, la sua porzione dei beni paterni doveva andare al fratello sopravvivente; invece morendo entrambi, gli stessi beni sarebbero spettati, per un terzo alla figliola Antonia o ai di lei figli se fosse

652 – PARTE TERZA – Miscellanea

deceduta, per un terzo alla Chiesa di S. Francesco a scopo di abbellimento o restauro di tale edificio e per un terzo quale fondo destinato a dotare delle pupille da maritarsi. Il testamento risulta esteso nella sagrestia della Chiesa Conventuale di S. Francesco in Gualdo, alla presenza dei testimoni Padre Cristoforo di Benedetto di Binotto da Gualdo maestro di Teologia, Fra Cristoforo di Matteo da Cascia Guardiano del Convento, Fra Angelo di Stefano del Castello della Valle di Boschetto nel Comune di Nocera, Fra Nicolò di Andrea da Bagnoca vallo e Fra Antonio di Pellegrino di Alessandro, tutti Religiosi del Chiostro di S. Francesco in Gualdo, nonché alla presenza degli altri due testi laici Rosato e Meo di Cesare da Gualdo. (102)

14 GENNAIO 1493. – Si premette che Matteo di Pietro, con testamento rogato dal notaio Gualdese Gaspare di Raniero, aveva ricevuto in deposito da Donato di Antonio Cagni da Gualdo, la somma di dodici ducati d’oro Veneziani, tre ducati d’oro largì, dieci carlini e sessantacinque bolognini vecchi ossia Perugini e che in più riprese e per vari motivi, aveva poi pagata parte di questa somma, per disposizioni date dal testatore Donato. Ora, dopo la morte di quest’ultimo, Maestro Matteo consegna ai cinque eredi, la somma che ancora restava in sue mani, divisa in altrettante parti e cioè un fiorino, trentanove bolognini e sei denari per ciascuno erede. Erano questi Paola e Lucaria, figlie di Donato ed i fratelli di costui Giovanni, Gabriele e Marco. (103)

15 GENNAIO 1493. – In rapporto con il precedente Atto del 14 Gennaio, Giovanni e Gabriele, fratelli di Donato di Antonio Cagni, rilasciano piena e finale quietanza al Pittore Matteo di Pietro, per la somma da quest’ultimo ad essi restituita, nella quantità che a loro spettava, così come è indicato nel suddetto precedente Atto. (104)

31 MARZO 1493. – Antonio di Mariano Tei da Caprara, vende a Maestro Matteo Pittore, tutte le pietre in buono stato ed atte per murare, a scelta dello stesso Matteo, esistenti in una casa diruta che il suddetto Antonio possedeva nel territorio di Caprara e ciò per il prezzo di dieci bolognini Marchigiani per ogni cento salme di dette pietre. Contemporaneamente Maestro Matteo, consegna ad Antonio la somma di venti bolognini, a condizione che se il costo totale delle pietre fosse stato maggiore, il primo avrebbe poi dovuto versare al secondo il denaro mancante e se fosse stato minore, restituire quello in più percepito. (105)

16 GIUGNO 1493. – Bartolomeo di Nicolo di Rinalduccio da Gualdo, quale marito e procuratore della propria moglie Paola, figlia del fu Donato di Antonio Cagni, rilascia definitiva quietanza a Matteo di Pietro, per la somma da quest’ultimo dovuta alla suddetta Paola, in conseguenza dell’Atto già descritto con la data 14 Gennaio di questo stesso anno. (106)

653 – PARTE TERZA – Miscellanea

18 AGOSTO 1493. – Marco di Antonio Cagni da Gualdo, quale erede del proprio fratello Donato, fa anch’esso piena quietanza a Matteo di Pietro, per la somma che quest’ultimo gli doveva, come appare dal precedente e più volte ricordato rogito del 14 Gennaio 1493. (107)

2 NOVEMBRE 1493. – Matteo Pittore, essendo stato eletto arbitro da Giovan Battista di Guerriero de Arfitellis e da Federico di Nicolò, ambedue da Gualdo, in una vertenza insorta tra questi ultimi, per la quantità della dote che Giovan Battista doveva dare a Lisantonia di lui sorella e moglie del suddetto Federico, pronunzia la sua sentenza fissando tale dote in fiorini settanta. (108)

4 NOVEMBRE 1493. – Unitamente ad altra persona, Maestro Matteo funge da testimonio in un Atto notarile, stipulato nella di lui casa, con il quale la già nominata Lisantonia e il di lei marito Federico, dichiarano di avere ricevuto venti fiorini, sulla somma totale di settanta fiorini, determinati dal suddetto Matteo, quale dote di Lisantonia, come già fu visto nel precedente documento del 2 Novembre. (109)

29 gennaio 1494. – Torna ad assistere, quale testimonio, con altri sei cittadini, ad un Atto di ultima volontà. (110)

21 AGOSTO 1494. – E’ in lite con tal Bernardo di Pietro. A costui, da circa sei anni, aveva consegnato in deposito una corazina ed avendogliela poi richiesta, Bernardo aveva negato di averla ricevuta. Portata la vertenza davanti al Podestà di Gualdo, questi impone alle due parti il giuramento di quanto affermavano. (111)

27 AGOSTO 1494. – Nella casa di Matteo di Pietro, davanti ad un notaio, intervengono il genero di Matteo, Michelotto di Giovanni di Antonio e Rosato di Cesare da Gualdo, i quali volevano stipulare tra di loro l’Atto di costituzione d’ una società per l’esercizio d’una calzoleria. A tale Atto Matteo, unitamente ad un prete e ad altro individuo, assiste in qualità di testimonio. (112)

10 NOVEMBRE 1494. – Matteo di Pietro, quale Procuratore di Bernardino Vanni da Caprara e Sante figlio del suddetto Vanni, che interviene per conto proprio e per conto della di lui madre Gentilina, danno in affitto a Maestro Domenico di Piero lombardo, residente in Caprara, una casa posta in tale Castello e ciò sotto determinate condizioni e per il prezzo di un fiorino all’anno. Subito dopo, i suddetti Sante di Vanni con Gentilina sua madre e Domenico di Piero, delegano lo stesso Pittore Matteo e Vico Brozi, a presenziare la correzione di un precedente Atto notarile, consistente nella vendita di un terreno già fatta da Gentilina a Domenico di Piero, Atto nel quale era stato errato il nome del vocabolo ove trovavasi il terreno stesso. (113)

17 GENNAIO 1495. – Interviene con altri, quale testimonio, nella scrittura di un testamento, dettato da Meo di Pietro di Ser Vinardo da Gualdo, alias Castracane. (114)

654 – PARTE TERZA – Miscellanea

17 MARZO 1495. – Nuovamente è chiamato come testimonio, insieme ad altra persona, nell’Atto di vendita di un terreno appartenente alla Chiesa del Corpo di Cristo in Gualdo. (115)

6 luglio, 4 e 5 agosto, 12 ottobre 1495. – In tali giorni, Maestro Matteo interviene alla stipulazione di quattro Atti notarili, riferentisi a suo figlio Girolamo ed alla moglie di quest’ultimo. Costui aveva infatti sposato donna Fina, figlia di Nicolò di Angelo di Nicolò di Mattiolo alias Thiani, che possedeva altre due figlie Angela e Giovanna. Ora appunto, con gli Atti suddetti, si definisce un lungo e complicato affare, riguardante alcuni beni e denari, che donna Fina doveva avere dal padre e dalle sorelle, per diritti dotali ed ereditari, e negli Atti stessi, Maestro Matteo, secondo le disposizioni statutarie Comunali Gualdesi, interviene sempre quale padre di Girolamo, sia per dare il suo consenso alle deliberazioni prese, sia per rilasciare quietanze, unitamente al figlio Girolamo ed alla nuora Fina. (116)

8 AGOSTO 1495. – Nicolò di Angelo di Nicolò di Mattiolo alias Thiani, già ricordato nel documento che immediatamente precede, come padre di donna Fina, moglie di Girolamo figlio del Pittore Matteo, fa ora testamento, ed in questo, fra l’altro, dispone che alla stessa Fina, oltre i trentacinque fiorini che già aveva ricevuto come dote, ne siano dati altri cinque, con i quali doveva ritenersi in tutto soddisfatta per la sua quota ereditaria. Fa poi eredi universali le altre due sue figlie e sorelle di Fina cioè Angela e Giovanna, ma però con questa condizione: Che se Fina, restando vedova, più non avesse potuto abitare nella casa maritale in compagnia del suocero Maestro Matteo, allora l’eredità, anzi che tra le sole Angela e Giovanna, si sarebbe invece dovuta dividere tra tutte e tre le sorelle. (117)

23 AGOSTO 1495. – Pier Tommaso e Andriangelo, figli di Cecchino di Cecco da Nocera, stipulano un Atto di pacificazione con il loro avversario Baldassarre di Melchiorre da Gubbio. I due primi, a garanzia dei patti stabiliti, designano quale loro fidejussore, Matteo di Pietro. (118)

2 NOVEMBRE 1495. – Maestro Matteo compera da Pierangelo di Gioventino di Andrea dei Rossi da Gualdo, un terreno parte la vorativo e parte sodivo, confinante con i beni dello stesso compratore, posto nei vocabolo Poltri o Piano di Mancetta, che il notaio rogante è in dubbio se faceva parte della Parrocchia di Caprara o di quella limitrofa di S. Pellegrino e ciò per il prezzo di venti fiorini. (1 19)

8 DICEMBRE 1495. – Maestro Matteo, insieme ad altra persona, assiste, in veste di testimonio, ad un Istrumento notarile (vendita di un terreno) rogato nel Chiostro di S. Benedetto in Gualdo. (120)

655 – PARTE TERZA – Miscellanea

22 GENNAIO 1496. – Pellegrino di Nicolò da Caprara, anche a nome dei suoi fratelli Martino ed Ercolano, vende a Matteo di Pietro, un terreno lavorativo nella Parrocchia di Caprara, in vocabolo Poleri, confinante con i beni dello stesso Matteo, per il prezzo di tre fiorini Marchigiani. Subito dopo, il Pittore concede in affitto, per due anni, ai suddetti fratelli, il terreno da essi comprato, con l’obbligo di corrispondergli, ogni anno, due mine di buon grano. Finalmente Pellegrino, anche per conto dei suoi fratelli, riceve da Maestro Matteo, a titolo di mutuo, venti bolognini Marchigiani, da restituirsi al termine dell’affitto, o in denaro, o in una corrispondente quantità di grano. (121)

23 GENNAIO 1496. – Matteo di Pietro e Gionta di Pietro di Fancello, nella loro qualità di più prossimi parenti della giovanetta minorenne Pellegrina, figlia di Pietro Angelo di Giolino e di donna Nicolosa, alla presenza del Podestà di Gualdo, danno il loro consenso alla rinunzia ai beni paterni e materni, fatta dalla stessa Pellegrina, ed approvano inoltre la nomina di un apposito Curatore per tale pratica, nella persona del Gualdese Mariotto di Matteo. (122)

28 FEBBRAIO 1496. – Matteo di Pietro, con un suo compagno, appare quale testimonio in un Atto Notarile, nel quale una delle parti è quel Jacopo di Giovanni di Meo Thosi, che vedemmo avere la propria abitazione attigua a quella di Matteo. (123)

11 APRILE 1496. -Lo ritroviamo nuovamente come testimonio,
con un altra persona, in un Istrumento notarile rogato per la vendita di un campo. (124)

17 APRILE 1496. – Ancora, insieme ad altri sei individui, funge da testimonio e ciò in un fidanzamento con assegnazione di dote. (125)

19 MAGGIO 1496. – Nella casa di Matteo di Pietro, davanti al notaio Èrcole di Gabriele, convengono Biagio di Paolo Meze da Caprara e Giuliano di Pietro Mancia da Colle di Nocera, per stipularvi un Atto notarile, al quale partecipano anche, in qualità di testimoni, lo stesso Matteo e suo figlio Girolamo. (126)

5 SETTEMBRE 1496. – II Pittore Matteo, con altre tre persone, è chiamato dal suddetto notaio Èrcole di Gabriele, per assistere quale testimonio, nel Palazzo dei Priori, alla conclusione di una tregua, conclusa tra alcune famiglie Gualdesi che erano in lotta tra loro. (127)

21 NOVEMBRE 1496. – Andrea di Giacomo di Paolozzo d’Assisi, nomina suo Procuratore il Pittore Matteo, in confronto di chiunque ma specialmente di Baldo di Meo Brozi da S. Pellegrino. (128)

12 DICEMBRE 1496. – Insieme ad altri due concittadini, interviene, sempre come testimonio, in un Istrumento con il quale, a risolvere una vertenza, si nominavano alcuni arbitri. (129)

656 – PARTE TERZA – Miscellanea

12 APRILE 1497. – Matteo di Pietro, essendo creditore di donna Laura, vedova di Giuliano di Costantino, per la somma di tre fiorini e possedendo la suddetta Laura una cavalla con poliedro data in soccita, lo stesso Matteo, allo scopo di soddisfare il suo credito, dopo le necessarie pratiche legali, subentra a donna Laura, per la di lei porzione, nei diritti che la stessa aveva nella soccita sopra nominata. (130)

28 NOVEMBRE 1497. – Assiste, come testimonio, all’Atto di vendita di un terreno. (131)

17 MAGGIO 1498. – In veste di testimonio, assiste al testamento di Lucrezia, vedova di Pietro di Ser Matteo, la quale, da un altro documento, ci risulta essere figlia di Ser Mariotto da Perugia. (132)

18 giugno 1498. – Si effettua in tale giorno, un trattato di pace, di concordia e di perdono, con promessa di non più offendersi per l’avvenire, tra due opposte fazioni cittadine Gualdesi, a capo delle quali, da un lato era tal Francesco di Pietro e dall’altro lato Orfeo di Francesco dei Ranieri, del quale Orfeo torneremo ancora a parlare, per tragici avvenimenti accaduti poi nella famiglia del nostro Pittore. Tra i partigiani di Francesco di Pietro, che intervengono a tale Atto, figurano Francesco di Giacomo detto Bucaro, Battista di Berardo, Giovan Paolo di Tommaso, i figli di Ser Nanni di Ser Angelo, i figli di Angelo di Martino, Gabriele di Rosso, Domenico di Antoniuccio, tutti da Gualdo; tra i seguaci di Orfeo troviamo Battista di Ser Ascanio, Bartolomeo di Andrea, Ser Girolamo di Ludovico, Berardino di Gentile di Ser Crispiano, Palamede di Ser Giacomo, Antonio di Ceccolo, anch’essi Gualdesi. Tutti costoro dichiarano di stipulare la pace, non solo a nome proprio, ma anche a nome delle proprie famiglie, dei propri parenti e di altri loro seguaci qui non nominati. Si stabiliscono le pene da applicarsi a chi verrà meno ai patti e le due parti, a garanzia di quanto era stato giurato, si obbligano con i propri beni, dando altresì quattro loro fideiussori, tra i quali trovasi appunto il Pittore Matteo di Pietro. (133)

29 SETTEMBRE 1498. – Nella casa di Matteo di Pietro, con l’intervento del Notaio, convengono Ser Giacomo di Angelo da Gualdo ed un cognato dello stesso Matteo, cioè Berardo di Andrea di Elemosina del Castello di Crocicchio, il quale vende a Ser Giacomo un terreno posto presso il Castello suddetto. Tra i testimoni presenti all’Atto, figura l’altro cognato di Matteo, Angelo di Andrea di Elemosina. (134)

7 GENNAIO 1499. – Matteo di Pietro da una parte, e dall’altra Giuliano e Renzo di Menicuccio da Caprara, anche in veste di rappresentanti di Marco e Polidoro loro nepoti (essendo figli del defunto loro fratello Pellegrino), addivengono alla nomina di due arbitri, aventi pieni poteri, per definire una vertenza tra di essi esistente. Maestro Matteo nomina infatti Mariano di Ciolo ed i suoi

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avversari designano Domenico di Betto di Lello, ambedue da Gualdo. Le parti in questione, si obbligano infine di accettare incondizionatamente il giudizio degli arbitri, pena la multa di venticinque libbre di denari, da pagarsi per metà alla parte osservante e per l’altra metà al Comune di Gualdo, e nello stesso tempo nominano loro Procuratore Periteo di Fino da Gualdo, per curare la ratifica, l’applicazione e l’esecuzione della sentenza arbitrale che sarebbe stata emessa dai due arbitri su nominati. (135)

1 AGOSTO 1500. – Matteo di Pietro vende a Matteo di Nallo da Roccafranca nel Comitato di Foligno, che acquista per sé e per il fratello Pier Sante, alcuni beni immobili, posti nel Comune di Gualdo, nella Parrocchia di Monterampone, consistenti in sei terreni in parte sodivi, in parte lavorativi, dei quali uno nel vocabolo Vignalium, unitamente a due case di abitazione e tutto ciò per il prezzo di cinquantadue fiorini, in moneta di nuovo corso, a quaranta bolognini per fiorino. (136)

11 AGOSTO 1500. – Piero, figlio del fu Maestro Domenico di Pierino da Vigevano « partibus Lombardie » nomina suo arbitro, con pieni poteri, il pittore Matteo in una lite che, a causa della divisione di alcuni beni ereditari, egli aveva con il fratello Vincenzo e con gli eredi di Vincenzo Salvalagli, altro Lombardo residente in Gualdo. Lo stesso Piero, s’impegna, pena la multa di venticinque libbre di denari, a sottostare alle decisioni che avrebbe preso Matteo e di non fare per suo conto alcuna pratica con il suddetto suo fratello Vincenzo, senza la presenza e il benestare dell’arbitro, di cui riconosce l’esperienza, la bontà, la prudenza e la diligenza. (137)

19 LUGLIO 1501. – Nomina suo Procuratore speciale, Pierantonio di Ser Giovanni, in una Causa giudiziaria che aveva con gli eredi di Mariano Tei da Caprara, davanti a qualsiasi giudice. (138)

18 OTTOBRE 1501. – Matteo di Pietro da una parte e dall’altra Angelo e Domenico di Giacomo, dopo una lunga lite, promettono scambievolmente di non più offendersi né fare offendere, estendendo la promessa a tutti i loro consanguinei, sino al terzo grado di parentela, stabilendo delle pene per chi verrà meno ai patti. Matteo presenta come suo fideiussore e garante Maestro Paolo di Maestro Ludovico ed i suoi avversari la stessa persona con in più Battista di Gabriele. (139)

6 DICEMBRE 1501. – Matteo di Pietro aveva venduto, ad lucrum, un bove a Giuliano di Mencuccio da Caprara, con contratto rogato da Ser Giovan Paolo da Perugia, notaio del Podestà di Gualdo. Essendo poi insorta tra i due una lite a proposito di detto bove, per risolverla, si addiviene alla nomina di appositi arbitri, in persona di Balduino dei Coppari da Gualdo e Nicolo di Cenzio da Caprara, i quali, esaminata e studiata la vertenza, decidono quanto appresso: Giuliano di Menicuccio avrebbe dovuto pagare a Maestro Matteo nove fiorini e mezzo, in moneta Marchigiana, per detto bove e Maestro Matteo, avrebbe dovuto

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invece dare al primo venticinque bolognini, per un quarto di carne avuta del bove stesso. Sicché, fatta la dovuta sottrazione, Giuliano restava a pagare a Matteo otto fiorini e trentacinque bolognini, comminandosi, per chi non avesse ottemperato a detta sentenza, quella stessa pena che era già stata stabilita nel contratto di vendita su ricordato. (140)

31 GENNAIO 1502. – Michelotto di Giovanni di Antonio, dichiara di perdonare al cognato Ser Girolamo, figlio del Pittore Matteo di Pietro, dal quale era stato offeso, percosso e ferito, e fa con il suo avversario una piena e duratura pace, stabilendosi altresì, per chi verrà meno ad un tale accordo, una multa di cinquanta ducati, da dividersi tra la parte rimasta fedele ai patti e la Camera Apostolica. In quello stesso giorno Matteo di Pietro e il suddetto Michelotto di Giovanni Antonio suo genero, addivengono tra di loro ad una convenzione, in forza della quale Michelotto, avrebbe avuto dallo stesso Ser Girolamo figlio di Maestro Matteo, per danni subiti nell’aggressione sopra ricordata, la somma di sette fiorini Marchigiani, da depositarsi in mano di Battista di Giolivo, che avrebbe dovuto consegnarli a Michelotto ad ogni sua richiesta. Per quanto poi si riferiva ad un’altra vertenza, insorta tra gli stessi Michelotto e Maestro Matteo, con alcuni loro dipendenti, a proposito di una certa quantità di farina, che il Pittore aveva avuto nel Castello di Maccantone, si nominano quali arbitri, per risolvere la questione, Pierantonio di Ser Giovanni ed Angelo di Giacomo. (141)

14 MARZO 1502. – Matteo di Pietro, anche a nome dei propri figli da una parte, e Antonio di Ceccolo, anche per conto dei suoi fratelli, nepoti e figli dall’altra parte, dopo una precedente lite, fanno tra di loro la pace, perdonandosi scambievolmente ogni offesa, specialmente per quanto si riferiva ad un atto disonesto, compiuto da Francesco, figlio dello stesso Matteo, in danno di un nepote del suddetto Antonio di Cecco, a condizione però che Francesco, per la durata di un anno, non debba transitare per la strada che, incominciando dalla casa degli eredi di Domenico di Antoniuccio, termina alla Porta Civica di S. Benedetto, e per sei mesi similmente non debba passare per l’altra strada che, dalla Piazza di S. Agostino, va sino alla casa di Cola di Pietro da Sellano. (142)

10 AGOSTO 1502. – Figura quale testimonio, con altre due persone, in un Atto pubblico che interveniva tra il Comune di Gualdo ed alcuni cittadini. (143)

30 GENNAIO 1503. – Concede per tre anni e per tre raccolti, a Renzo di Menicuccio ed a Marco suo nepote, ambedue del Castello di Caprara, la coltivazione di tutte le terre che possedeva nell’omonima Parrocchia, eccetto un campo già dato a lavorare a Biagio di Meze. I suddetti coloni avrebbero dovuto rilasciare a Matteo la terza parte di qualsiasi prodotto di queste terre e la metà delle olive; avrebbero dovuto coltivare i vari campi (tra i quali ne

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indica uno detto di Genga ed un altro detto di S. Giovanni) secondo determinate modalità che Matteo specifica nell’Atto di concessione; avrebbe dovuto abitare la casa colonica annessa al predio, sita in prossimità del Castello di Caprara, ivi ritenere il bestiame e questo alimentare con i foraggi del predio stesso, per il quale doveva servire il letame delle stalle. Senza licenza di Matteo, non avrebbero potuto abbattere alberi atti a produrre legname da lavorazione, né alberi fruttiferi, pena il rifacimento dei danni al proprietario e la multa sancita dagli Statuti del Comune. Si stabilisce inoltre, che Matteo e la di lui famiglia, se le circostanze talvolta lo avessero richiesto, sarebbero potuti andare ad abitare nel predio che ora si dava in colonia e che i due coloni Renzo e Marco, all’epoca della falciatura delle erbe nel prato che Matteo possedeva nel predio stesso, dovessero a lui pagare ogni anno per dette erbe, bolognini trentacinque, oppure una quantità di grano corrispondente a tale valore; che Matteo, per la porzione che lo riguardava, potesse far valere giudizialmente le sue ragioni in caso di qualsiasi danneggiamento, da chiunque arrecato alle sue terre; che i suddetti coloni, ogni anno, dovessero seminare nelle terre del predio tre o quattro coppi di semi di lino per esclusivo uso e vantaggiò di Matteo, il quale era però tenuto alla fornitura del seme necessario, ma che d’altra parte, della canepina posta a capo della vigna detta della Chiesa, dell’orto e dell’uso della casa di abitazione, lo stesso Matteo non dovesse percepire alcun frutto od interesse. (144)

10 MARZO 1503. – A richiesta di Pietro di Corrado, accetta in deposito dodici fiorini Marchigiani, prezzo di una casa venduta da quest’ultimo a Pellegrina moglie di Nicolò di Sordello, la qual somma sarebbe però stata versata a Matteo, anzi che dalla compratrice, da certo Francesco di Pier Tommaso, dietro ordine del venditore suddetto. (145)

13 APRILE 1503. – Dichiara di ricevere da Mosè, ebreo, a titolo di deposito, la somma di sei fiorini, da restituirsi ad ogni richiesta dello stesso Mosè. (146)

25 NOVEMBRE 1503. – Maestro Matteo di Pietro, « mente, sensu et intellectu sanus, licet corpore languens paululum et annis gravis » detta il suo quarto testamento: Anzi tutto dispone per il suo seppellimento nella Chiesa di S. Francesco in Gualdo, vestito dell’abito Francescano, ed il trasporto della propria salma alla Chiesa, si sarebbe dovuto effettuare per mano di eremiti e frati dell’Ordine di S. Francesco. Pro ultimo judicio, lascia all’Altare Maggiore della Chiesa suddetta cinque soldi, pro male ablatis et incertis dieci soldi, per le spese del suo funerale quella somma che piacerà ai suoi esecutori testamentari ed agli eredi. Ordina che, entro due anni, si restituiscano due fiorini e mezzo a Suor Maddalena da Casa Castalda o alla persona che costei designerà. A Ser Damiano da Nocera, siano restituiti in laboreriis sei fiorini, che aveva avuto a mutuo da Maestro Bartolomeo, a condizione quod faceret laboreria. Similmente siano resi a Don Leonardo di

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Annichino da Gubbìo, tre fiorini anch’essi ricevuti in mutuo ed agli eredi di frate Giacomo, pittore Bolognese, siano restituiti due fiorini d’oro, già avuti dalla moglie di Matteo in Valentano e ciò nel caso che qualcuno si presentasse a ritirarli con regolare autorizzazione. Similmente sia dato un fiorino ad un certo mercante di Fabriano, dal quale ebbe della stoffa per fare camici (pro clamidibus) e, per amor di Dio, due fiorini e mezzo agli eredi di Donato di Antonio Cagni, entro tre anni. Dichiara infine che, considerando quello che già aveva pagato a Giuliano di Costantino e quello che ne aveva ricevuto per lavori fatti, ben poco il testatore doveva ancora ricevere. Dopo ciò dispone come appresso: Margherita sua moglie vada oppure mandi a Camerino, per adempiere un atto di devozione a lei noto, similmente porti o mandi, a S. Maria di Loreto ed a S. Maria degli Angeli, l’ex voto, lavorato su panno, che era stata promesso alla Vergine, quando ella si trovava in fin di vita, in conseguenza di un parto, e così pure vuole che sia inviato, sempre come ex voto, un braccio di cera a un sacro luogo di Serra Brunamonti, in territorio di Gubbio. Dichiara di avere ricevuto, quale dote della stessa Margherita, la somma di venticinque fiorini che vuole siano a lei restituiti. Cosi pure confessa di avere avuto, quale dote di donna Fina, sua nuora, fiorini cinquantacinque, dei quali trenta erano stati spesi per panni, per una cintura e per argenterie che necessitavano alla stessa Fina, ed il resto, cioè venticinque fiorini, nell’acquisto di un terreno, con il consenso del di lui marito Girolamo. In quanto alla Camora (specie di vestito anche detto Camorra) che costò dieci fiorini, la quale, da luogo sicuro essendo stata portata in luogo malsicuro, andò perduta, crede il testatore che ciò sia avvenuto per colpa di detto Girolamo, ma tuttavia si rimette per tale affare alle vigenti disposizioni di legge. Assegna alla figlia Antonia, iure institutionis, fiorini cinquanta che dice avere già versati, per sua dote, come da rogito del notaio Ser Vincenzo. Alla stessa lascia inoltre cinque fiorini, per un vestito da farsi dopo la di lui morte, né altro possa più richiedere, sotto qualsiasi forma, a titolo di eredità. Ma vuole che, in caso di vedovanza, abbia diritto di ricorrere alla casa paterna e averne vitto e vestito, partecipando però, con la sua dote e con il suo lavoro, all’azienda domestica. Dona al Monastero di S. Margherita di Gualdo fiorini dieci, a patto che due o quattro di quelle Monache, vadano a pregare, per la sua anima, alla Chiesa di S. Maria degli Angeli. A causa dei demeriti e della crudeltà, verso di lui più volte addimostrata dal su ricordato suo figlio Girolamo, che lo aveva vilipeso, gli aveva negato il pane, lo aveva stretto con le mani alla gola, lo aveva perfino percosso sul capo con una zappa a scopo omicida, per tutte queste e per altre consimili violenze, non da allo stesso né benedizione, né maledizione e lo disereda lasciandogli solo cinque soldi per qualsiasi sua eventuale pretesa. Vuole che la cavalla di proprietà del testatore, ed i proventi di questa, restino in possesso assoluto della moglie Margherita. Fa suoi esecutori testamentari Pierantonio di Ser Giovanni e Percivalle di Gabriele. Nomina finalmente suoi eredi universali la stessa sua

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moglie Margherita ed il figlio Francesco, a condizione però che quest’ultimo porti amore e reverenza alla madre e così non facendo, vuole che, dei suoi beni, abbia soltanto quello che non gli si può togliere spettandogli per legge e che a detta Margherita vada invece anche la parte tolta a Francesco; ma tornando quest’ultimo al retto vivere, la madre debba restituirgli i suoi beni. Se poi Francesco morisse senza figli legittimi, prescrive che quanto resterà dei suoi beni, sia elargito, per restauri ed ornamento, ai Conventi di S. Francesco e S. Margherita di Gualdo, nonché alla già ricordata sua figlia Antonia, purché fosse per quell’epoca, morta anche Margherita. Vuole però che la stessa Margherita, della propria quota ereditaria, non possa alienare che l’indispensabile per i suoi ordinari bisogni e che in detta quota s’intenda compresa anche la dote che aveva portato. Ordina in pari tempo, che la medesima, vita naturale durante, non possa essere espulsa dalla camera e dai letto coniugale e che dopo la di lei morte, la detta dote vada al figlio Francesco e morendo prima costui senza figli, resti a Margherita finché vivrà e morendo anch’essa, sia assegnata per un terzo alla figlia Antonia, per un terzo al Convento di S. Francesco e per il rimanente a quello di S. Margherita a scopo di restauro e di abbellimento e ciò in suffragio dell’anima sua. Annulla infine ogni altro precedente testamento. Funzionano da testimoni a tale Atto, Don Pietro di Giovanni delle Piagge, Frate Cecco di Mariano di Meo Boye, Antonio e Perfetto di Matteo, Bartolomeo di Jacopo Felcis, Antonio di Betto di Tommaso e Berto di Francesco delle Piagge, tutti del Comune di Gualdo. (147)

29 GENNAIO 1504. – Si premette che tre anni prima, mediante Istrumento rogato dal notaio Biagio di Fiorentino, tal Biagio Meze, aveva venduto, con patto di recupero entro sei anni, a Matteo di Pietro, un olivete nella Parrocchia di Caprara, in vocabolo Foreste, per il prezzo di tredici fiorini Marchigiani. Ora Matteo, cede tutti i suoi diritti su detto olivete, al sacerdote Paolo di Mariotto da Fratta (oggi Umbertide) sostituendolo a sé stesso, così nei diritti come ne­ gli oneri, in ogni evenienza legale e ciò per lo stesso prezzo di tredici fiorini Marchigiani. (148)

11 FEBBRAIO 1504. – Matteo di Pietro insieme a Cristoforo di Mascio, in un Atto notarile rogato nella Chiesa di S. Donato, è incaricato di stabilire un aumento dotale, che tali Mariano, Antonio, Giacomo e Venanzo di Ciolo, del villaggio di Busche, dovevano fare sulla dote spettante per eredità paterna ad una loro sorella, promessa sposa a Marino di Sante di Giovannandrea Cinzi. (149)

11 FEBBRAIO 1504. – Maestro Matteo, nella Chiesa di S. Chiara in Gualdo, anche detta Pieve di S. Maria di Tadino, insieme ad altra persona, assiste quale testimonio alla stipulazione di un fidanzamento tra Marco di Giacomo di Ciolo e Pellegrina di Nicolò di Giovannandrea Cinzi. (150)

662 – PARTE TERZA – Miscellanea

12 OTTOBRE 1504. – A causa del contratto già descritto con la data 30 Gennaio 1503, dovettero per certo poi insorgere delle liti tra Matteo da una parte e Renzo di Menicuccio unitamente al nipote Marco dall’altra parte, per cui gli avversari nominano ora, arbitri della vertenza, con pieni poteri, Percivalle di Gabriele e Giuliano di Menicuccio, fissando la multa di venticinque fiorini per chi non si fosse attenuto al giudizio degli arbitri. (151)

9 NOVEMBRE 1504. – Compie la funzione di testimonio, unitamente ad un compagno, durante l’Atto di vendita di alcune terre, situate nella Parrocchia di Poggio S. Ercolano. (152)

15 NOVEMBRE 1504. – Come conseguenza del precedente documento in data 12 ottobre 1504, i due arbitri Percivalle di Gabriele e Giuliano di Menicuccio del Castello di Caprara, stabiliscono quanto appresso: Nominano un terzo arbitro nella persona di Bartolomeo di Andrellino e con questo concordemente giudicano, che i coloni Renzo e Marco, per effetto del contratto già stipulato con Matteo di Pietro, dovevano dare a quest’ultimo, per la coltivazione effettuata nell’anno in corso, quattro mine e mezza di grano e cioè una mina subito, ossia in quello stesso mese di Novembre, ed il restante nel mese seguente; più dovevano dargli un quarto e mezzo di buon farro, secondo le misure Gualdesi. Di tutte le altre richieste fatte da Matteo, contro Marco e Renzo suddetti, gli arbitri decidono non doversi tener conto, essendo egli stato soddisfatto, con quello che già aveva ricevuto dai suoi coloni. (153)

20 NOVEMBRE 1504. – Si premette che Francesco, figlio di Matteo di Pietro, insieme al suo concittadino Giovannangelo di Maestro Giovanni, aveva ucciso in Assisi, tal Pierantonio di Giacomo da Perugia, probabilmente durante una delle solite lotte di parte. In conseguenza di questo omicidio, il Vice-Tesoriere Perugino della Camera Apostolica in Gualdo, Pier Marino di Bonifacio da Montefalco, aveva fatto imprigionare Maestro Matteo, affinchè pa gasse la così detta legittima (ad solvendum legitimam) per conto del figlio Francesco, probabilmente fuggito. Questa legittima, consisteva nella quota o percentuale che spettava alla Camera Apostolica sulle pene pecuniarie, prescritte per l’omicidio, negli Statuti Comunali di quell’epoca. Ad esempio, negli Statuti Perugini del sec. XIII, tale pena era di cinquecento libbre di denari e in quello successivo di seicento libbre, delle quali solo un terzo andava agli eredi del morto ed il restante alla Camera Apostolica, al Comune, etc. Ora il Pittore Matteo, volendo sottrarsi alla prigionia a causa del mancato pagamento della legittima per conto del figlio, consegna nel giorno su indicato, al Vice-Tesoriere della Camera Apostolica in Gualdo, la somma di dieci fiorini, ottenendone in cambio la promessa di non essere più molestato in conseguenza di tale affare. (154)

663 – PARTE TERZA – Miscellanea

Dal 10 al 16 febbraio 1505, ho rintracciato sette documenti, dai quali si apprende quanto segue: A poco tempo di distanza dal primo omicidio, ma certo dopo il 15 Dicembre 1504, il figlio di Matteo Pittore, Francesco, ne aveva commesso un altro in persona di Orfeo, figlio di Francesco dei Ranieri e nepote di Ser Gaspare dei Ranieri, Conte Palatino, appartenente a illustre famiglia Gualdese, con gran probabilità derivante dall’omonimo tronco Perugino, i di cui membri nelle carte dell’epoca, sono quasi sempre indicati con qualche titolo nobiliare. Anche questa volta, l’uccisione era avvenuta in conseguenza delle lotte di parte che allora travagliavano la nostra città, ed Orfeo dei Ranieri, apparteneva appunto ad una di quelle turbolente fazioni cittadine in qualità di capo. Tanto è vero, che nel passato, il 20 Maggio 1500, con tale qualifica lo vediamo stipulare un solenne trattato di pace con la parte avversaria ed altra volta lo troviamo persino imprigionato, unitamente al proprio fratello Michele, per ordine del Podestà di Gualdo, Andrea Alevolini da Sassoferrato, perché sorpresi mentre di notte «post tertium sonum campane » vagavano per la città senza lanterne e con armi, ottenendo poi la libertà provvisoria solo dietro consegna, da parte della famiglia a titolo di cauzione, di due tazze d’argento. Francesco, nella trista impresa di questo nuovo omicidio, ebbe a compagni Pier Felice di Pier Matteo Berardi, Giovanni di Mariotto Marcazi, un tal maestro Francesco, Francesco di Agnolino, Bernardino di Ser Nanni e Ser Francesco di Piero con il proprio figlio Girolamo. In seguito, con l’intervento del Legato Pontificio in Assisi, era stato concluso un trattato di pace e di condono, tra gli omicidi suddetti ed i membri della famiglia Ranieri, fra i quali in ispecial modo, la vedova dell’ucciso, Pellegrina di Ser Lucido ed i di lei figli Luca, Annibale e Francesca. In conseguenza di questa pace, a garanzia di una piena osservanza dei patti e condizioni stabiliti nel trattato stesso, mediante regolari Atti notarili, ciascuno dei colpevoli, si obbliga ora con la somma di cento ducati d’oro, da pagarsi in caso di mancata fede, e per tale somma, similmente ciascuno di essi, da un proprio fideiussore. Per Francesco di Maestro Matteo di Pietro, si offre infatti, quale garante, Percivalle di Gabriele. A questi Atti non intervengono le parti in causa, ma i loro procuratori, che sono Matteo di Giovanni da Branca per i Ranieri, e per gli omicidi, Gallieno di Francesco e Saldino, quest’ultimo figlio del su nominato omicida maestro Francesco. (155)

28 FEBBRAIO 1505 – Matteo di Pietro, con un suo concittadino, è chiamato ad assistere, in qualità di testimonio, all’Atto di vendita di un terreno. (156)

4 GIUGNO 1505, – Battista di Berardo e Benvenuto di Filippo, nominati arbitri in una vertenza nuovamente insorta tra Maestro Matteo di Pietro ed il colono Renzo di Menicuccio da Caprara, a proposito di una porcella data in soccita dal primo al secondo, giu dicano che Renzo doveva restituire a Matteo, la somma di un

664 – PARTE TERZA – Miscellanea

fiorino e trenta bolognini, prima del prossimo futuro mese di Agosto, restando la porcella in proprietà di Matteo. (157)

30 SETTEMBRE 1505. – Con questa data trovo un Istrumento notarile, che non riguarda affatto il pittore Matteo, ma che c’interessa solo perché da esso si apprende che lo stesso Matteo, oltre i fabbricati ove abitava nel Quartiere di Porta S. Martino, possedeva dei beni stabili anche nel Quartiere di Porta S. Donato. (158)

2 NOVEMBRE 1505. – Appaiono ancora in corso i dissidi tra Matteo di Pietro ed i suoi coloni di Caprara, dei quali trattammo nei documenti del 12 Ottobre 1504 e del 4 Giugno 1505, poiché troviamo che lo stesso Matteo, stipula ora un nuovo Atto notarile, per sistemare ogni questione con i suoi coloni. (159)

12 DICEMBRE 1505. – Maestro Matteo di Pietro, sanus mente, sensu et intellectu… licet corpore languens, affinchè dopo la sua morte non possa insorgere discordia tra gli eredi per la divisione dei suoi beni, fa per la quinta volta testamento, disponendone come appresso: Raccomandanda la sua anima alla Vergine e lascia pro suo ultimo juditio, cinque soldi da offrirsi all’Altare Maggiore della Chiesa di S. Francesco, dove vuole essere sepolto vestito col saio Francescano e trasportato dagli Eremiti Terziari di quest’Ordine. Lascia, pro male ablatis et incertis, venti soldi. Lascia anche, per ornamento e restauro della Cappella e Altare ove si celebrava la festa della Presentazione di Maria Vergine, nelle stessa Chiesa di S. Francesco, fiorini quindici, da spendersi dal Guardiano di quei Convento e dai suoi Esecutori testamentari, i quali lavori di ornamento e restauro si sarebbero dovuti compiere entro tre anni dalla morte del testatore, e se i suoi eredi morissero senza figli, la somma suddetta si sarebbe dovuta portare a venticinque fiorini. Vuole poi che, quanto trovasi annotato e descritto in un suo quaderno, sia eseguito dai suoi eredi ed esecutori testamentari. Assegna alla figlia Antonia, moglie di Michelotto di Giovanni di Antonio, iure institutionis, oltre i cinquanta fiorini già a lei dati in dote, un altro fiorino, dovendosi ritenere con ciò soddisfatta e null’altro potendo più chiedere ai suoi eredi. Alla stessa, iure legati, da però il diritto, in caso di vedovanza, di ritornare ad abitare nella casa paterna e ricevervi vitto e vestimento, ma collaborando, insieme agli eredi, con il suo lavoro e con la sua dote. Concede al figlio Girolamo la sua benedizione e con questa quindici fiorini, a titolo di Legittima Falcidia o Trebellianica, dovendosi contentare di questa sua eredità e null’altro pretendere sotto qualsiasi forma. Ordina inoltre, che se insorgessero dubbi sulla dote di donna Fina, moglie dello stesso Girolamo, circa la restituzione di detta dote in rapporto ad alcune spese per lei fatte, come appariva dal suo precedente testamento, redatto per mano del notaio Ser Piero e già precedentemente ri portato con la data 25 Novembre 1503, allora gli esecutori testa mentari di detto testamento, avrebbero dovuto risolvere la vertenza.

665 – PARTE TERZA – Miscellanea

Per la soluzione e soddisfazione di tutto quanto sopra, nomina suoi Fidecommissari Don Pietro Antonio di Ser Giovanni e Percivalle di Gabrielle con piene facoltà. Vuole che, a titolo di restituzione, siano dati a Margherita sua moglie, i trenta fiorini già portati in dote e che la stessa possa prelevare suppellettili e lingerie a sua coscienza e discrezione. Le assegna anche una cavalla con poliedri, data in soccita a Gentile delle Piagge, nonché un vestito nero ed un pallio da donna. Iure institutionis, lascia all’altro suo figlio Francesco dieci fiorini, che il testatore aveva già pagato alla Camera Apostolica a titolo di Legittima per conto dello stesso Francesco, in occasione della pena pecuniaria alla quale costui era già stato condannato, come risulta dal documento in precedenza descritto con la data 20 Novembre 1504, né altro egli avrebbe potuto più chiedere dell’eredità paterna. Di tutti i restanti suoi beni mobili e immobili, diritti, azioni e ragioni, presenti e futuri, costituisce erede universale usu fruttuaria a vita la suddetta sua moglie Margherita, con facoltà di potere però anche disporre, in via eccezionale, di questi beni, per qualche sua impellente necessità. Ma se il figlio Francesco, sistemasse in futuro i suoi affari penali, in modo da poter tranquillamente vivere senza impedimenti e molestie da parte della Camera Apostolica, in conseguenza delle condanne che aveva riportato per gli omicidi da lui commessi, allora Margherita sua madre, salvo l’usufrutto predetto, avrebbe avuto l’obbligo di restituire a Francesco la sua porzione d’eredità, dovendosi costui considerare, con pieno diritto, come riabilitato. E se la detta Margherita morisse prima che Francesco avesse ottenuto la liberazione dalle sue condanne, fin da ora sostituisce a Margherita stessa, quale erede universale, l’altro figlio Girolamo, con il su descritto obbligo verso Francesco, al momento di una eventuale riabilitazione. E se quest’ultimo, avverandosi il proscioglimento dalle sue condanne, morisse senza figli legittimi, nati da lui e dalla moglie Beatrice, figlia del già ricordato Percivalle di Gabriele, allora se piacerà sia. a Margherita sia a Percivalle, la stessa Beatrice potrà restare con pieno diritto nella casa di Matteo, e se queste condizioni non si avverassero, tale diritto spetterebbe invece ai due figli del testatore, Girolamo e Antonia. Vuole infine che s’intenda decaduto ogni altro suo precedente testamento, specialmente quello rogato dal notaio Ser Piero di Mariano. Al presente Atto, scritto dal notaio Èrcole di Gabriele, assistettero quali testimoni: Frate Angelo di Bartolo da Foligno, che era Priore della Chiesa del Corpo di Cristo in Gualdo, Don Pierantonio di Ser Giovanni, Francesco Bucari, Betto di Buzio di Giacomo di Baldo, Pier Francesco di Pier Paolo Guardioli, Alessandro di Ser Giovanni e Percivalle di Gabriele. (160)

21 GENNAIO 1507. – Matteo di Pietro, detta il seguente codicillo testamentario: Premette che il suo ultimo testamento è quello che, scritto di sua mano e firmato da lui insieme a sette testimoni, trovasi sigillato nella Sagrestia della Chiesa di S. Francesco in Gualdo, affidato al Padre Guardiano di tale Convento ed è proprio

666 – PARTE TERZA – Miscellanea

a questo testamento che egli apporta ora le seguenti modificazioni: 1° Annulla il legato fatto a favore delle figlie di Ser Bernardino di Pietro Benadatti.
2° Similmente annulla il diritto conferito a quest’ultimo di aprire e pubblicare detto testamento dopo la sua morte e ciò stante l’assenza dello stesso Bernardino.
3° Avendo nominati suoi Esecutori testamentari Pierantonio di Ser Giovanni, Percivalle di Gabriele ed il suddetto Ser Bernardino, cancella quest’ultimo ed in suo luogo pone Battista di Bernardo.
4° Avendo inoltre fatto un lascito di alcuni fiorini alle Monache del Monastero di S. Margherita, diminuisce questo lascito, riducendolo alla somma di quattro fiorini, da pagarsi entro tre anni, dopo la di lui morte.
5° Dispone che, avvenuto il suo decesso, si apra il testamento e se ne faccia una copia da consegnarsi agli Esecutori testamentari, ma l’originale rimanga sempre presso i suddetti Frati di S. Francesco.
6° Conferma infine, in tutto il resto, il testamento stesso. Da tutto ciò si deduce che l’ultimo testamento del Pittore non è quello che, quinto in ordine cronologico, vedemmo esteso dal notaio Èrcole di Gabriele il 12 Dicembre 1505, ma che dopo questo, Matteo ne redasse un sesto di proprio pugno, oggi andato perduto, che è appunto quello a cui si riferisce il presente codicillo. (161)

21 GENNAIO 1507. – Maestro Matteo, dichiara di avere ricevuto da Percivalle di Gabriele, fiorini ventuno a quaranta bolognini per fiorino, quale parte della dote di donna Beatrice, moglie di Francesco figlio dello stesso Matteo e figlia di Percivalle. Però il Pittore non riceve direttamente la somma suddetta, essendo stata questa già pagata da Percivalle, per conto di Matteo, ad alcuni creditori di quest’ultimo, tra i quali evvi un tal Cecco Bucari ed il Tesoriere del Comune di Perugia. (162)

29 GENNAIO 1507. – Nella Chiesa di S. Francesco alla presenza di testimoni, Francesco figlio del Pittore Matteo, quale erede universale, assistito dall’esecutore testamentario Percivalle di Gabriele, dopo aver presenziato all’apertura del testamento del defunto suo padre e averne presa visione, versa cinque soldi per l’Altare Maggiore della Chiesa suddetta, alla stessa lasciati da Matteo prò ultimo judicio. Tale somma è ricevuta da Frate Antonio di Pellegrino, Guardiano del Convento di S. Francesco. (163)

Quest’ultimo documento è per noi interessantissimo, poiché, confrontato con quello immediatamente precedente, ci permette di stabilire con esattezza, l’epoca precisa della morte del Pittore Matteo di Pietro. Con tale documento cesserebbe anche la serie degli Atti che lo riguardano e che potei rintracciare nel nostro Archivio Notarile Antico. Piacerai però aggiungerne altri sei, riferentisi alle ultime vicende dei suoi figli Francesco e Girolamo e cioè sino all’epoca della loro morte, poiché mi sembrano un necessario complemento, per la vita del geniale e multiforme Artista Gualdese.

30 APRILE 1507. – I figli ed eredi di Matteo di Pietro, cioè Francesco e Girolamo, essendo tra loro in lite a causa della dote

667 – PARTE TERZA – Miscellanea

portata da donna Fina, moglie di Francesco, addivengono ora tra di loro ad un amichevole transazione. Notevole il fatto che questa vertenza, era stata prevista dal proprio padre, nel testamento del 12 Dicembre 1505. (164)

10 AGOSTO 1507. – Francesco, quale figlio ed erede di Maestro Matteo di Pietro, con la presenza e con il consenso della madre Margherita, vende a Jacopo di Mannello, che interviene anche per il fratello Biagio, un terreno nella Parrocchia di S. Benedetto, vocabolo Padule, per il prezzo di quindici fiorini in moneta nuova. (165)

30 DICEMBRE 1508. – Ser Girolamo di Maestro Matteo Pittore, acquista una vigna in Parrocchia di Pastina, vocabolo Ghinardo. (166)

19 APRILE 1511. – Francesco di Maestro Matteo, cede l’andito di una sua abitazione, al proprietario della casa contigua. (167)

DATA INCERTA. – Dopo avere partecipato, come si è visto, a due omicidi, lo stesso Francesco di Maestro Matteo, finisce a sua volta di morte violenta. Ciò si deduce da un Atto notarile, che disgraziatamente ho rintracciato senza data e dal quale risulta quanto segue: Piero di Francesco di Piero, Lucangelo di Silvestre. Francesco di Giovanni di Ser Ascanio, Salvatore di Baccio, Gianbernardino di Battista di Biagio, tutti da Gualdo e Morgante da Caldarola, avevano ucciso Francesco di Maestro Matteo, durante le solite fazioni cittadine, forse per vendicare Orfeo dei Ranieri e per questo erano stati tutti condannati a morte. Ma la pena capitale non fu eseguita, perché, dietro interessamento dei Nobili Eugubini Bernardino dei Gabrielli e Matteo di Giovanni da Branca, era stato poi concluso un Trattato di tregua e pace tra gli omicidi suddetti ed il fratello dell’ucciso, cioè Girolamo di Maestro Matteo, con la condizione però, che trascorso un certo tempo, detto Trattato di tregua e pace, per maggiore sicurezza ed efficacia, doveva essere riconfermato e rinnovato. L’Atto relativo era stato rogato dal notaio Vittorio dei Marioni da Gubbio, allora Cancelliere del Comune di Gualdo. Ora, essendo trascorso il periodo di tempo stabilito, i suddetti due Nobili Eugubini, curano la riconferma ed il rinnovamento del Trattato di tregua e pace, tra gli omicidi ed il fratello dell’ucciso cioè Girolamo, la qual cosa viene infatti effettuata, stabilendosi una multa di cento ducati d’oro per chi verrà meno ai patti. (168)

Come sopra ho detto, il documento ora descritto è privo di data, ma considerando che il 19 Aprile 1511 Francesco era ancora vivo, poiché lo vediamo effettuare la cessione sopra riportata con tale data, e sapendo, d’altra parte, che il di lui fratello Girolamo, che si trovò a stipulare la suddetta pace con gli uccisori di Francesco, morì tra il Maggio e il Giugno del 1515, dobbiamo con ogni certezza ritenere che, l’uccisione di Francesco, avvenne appunto nei quattro anni interposti tra la primavera del 1511 e quella del 1515.

668 – PARTE TERZA – Miscellanea

20 MAGGIO 1515. – Ser Girolamo di Maestro Matteo, sano di mente, licet corpore languens, detta il suo testamento. Da questo risulta tra l’altro, che egli lasciava un figlio, Bernardo e tre figlie, Bartomonea, Meschina e Margherita, nonché la moglie Fina. Risulta anche che, per pagare i suoi debiti, aveva dovuto vendere vari beni, tra cui per novanta fiorini, il podere di Caprara, il quale come vedemmo, era stato donato per i suoi meriti al di lui padre Matteo, il 29 Febbraio 1484, dal Comune di Gualdo. Risulta infine, che egli aveva seguitato ad abitare sino alla morte, nella casa paterna, nel Quartiere di Porta S. Martino. Subito dopo questo testamento, troviamo una quietanza in data 13 Giugno di quello stesso anno, con la quale si dichiara che, avvenuta la morte di Girolamo, era stato soddisfatto un suo legato testamentario. È quindi chiaro che egli dovette spegnersi dal 20 Maggio al 13 Giugno 1515. (169)

L’unico suo figlio maschio Bernardo, egregio Pittore di cui tra poco descriveremo la vita, morì non molto tempo dopo, nel 1532 a trentatre anni, senza figli, avendo fatto usufruttuaria la madre Fina, ma lasciando tutti i suoi beni alla Confraternita del Crocifisso, con testamento rogato il 7 Dicembre dell’anno suddetto. (170)

Assai probabilmente con costui si spense la discendenza maschile di Matteo Pittore. Si può supporre ciò considerando che, degli altri due figli di quest’ ultimo, Michelangelo morì per certo celibe in giovane età e che Francesco, fatta eccezione per una sua omonima figlia, non dovette avere neppur lui discendenti maschi, poiché di essi non troviamo mai traccia in tanti documenti che lo riguardano, neppure nell’ importante Atto di pacificazione che vedemmo stipulato, dopo la sua tragica fine, dove infatti la di lui famiglia è rappresentata dal fratello Girolamo.

Dopo avere descritto la vita di Matteo di Pietro, passeremo ora ad illustrarne le opere, delle quali parecchie sono a noi pervenute e quasi tutte nell’Umbria, poiché solamente in questa regione, pare che il nostro Pittore esplicasse la sua vita di Artista.

La prima opera firmata e datata che di lui ci resta, è la tavola a tempera che nel 1462 dipinse in Gualdo per le Monache del Convento di S. Margherita e che si conserva oggi nella nostra Pinacoteca Comunale. Consiste in una specie di trittico di linee gotiche, con fondo d’oro disegnato ad arabeschi, che ha nel mezzo la figura della Vergine, seduta su di un ricco trono, con Gesù Bambino in braccio. Questi veste una camicetta bianca, ha le gambe avvolte in un drappo rosso e porta sul capo una coroncina di rose bianche e rosse, con intorno al collo una collanina, da cui pende un rametto di corallo. La Vergine porta un velo sul capo, una veste di broccato e un manto azzurro cosparso di fiorami d’oro e del motto Ave. La stessa appare adorata da due Angeli, con la testina coronata di fiori e inginocchiati sui due braccioli del seggio; altri quattro angioletti trovansi sulla cimasa del trono, due entro piccole nicchie e due sull’estremo superiore, questi ultimi in atto di sorreggere le e stremità di un festone di fiori, mentre altri fiorì sono

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contenuti in due vasi ai piedi della Madonna. Sul fianco sinistro di quest’ultima, ammiransi S. Caterina con in mano la ruota ed un libro, e S. Margherita orante ed avente ai piedi un drago diabolico; sul fianco destro S. Bernardino, anch’esso in atto di pregare, e S. Francesco con una crocetta d’oro e un libro rosso in mano. In due piccoli tondi, stanno infine le mezze figure di S. Bonaventura e S. Ludovico, ambedue recanti un libro: il primo tondo è posto al disopra delle due Sante, su i due Santi il secondo.

A pie del quadro, sotto la Madonna, in un cartello bianco leggesi: Macteus de Gualdo pinxit » e lateralmente, a destra, «M°CCCC°LXII» a sinistra « Die XXVIII Aprilis ». In quest’opera è accentuata la maniera di dipingere di Matteo e cioè la sottigliezza e altezza delle figure, con cranio protundente nell’occipite, viso allungato, ampia fronte, naso lungo quasi senza incavo alla radice, sopracciglia vicine, lineamenti marcati, collo esile, mani con dita lunghe, affusolate e sottili, occhi rotondeggianti. Inoltre noteremo come anche qui non manchino alcuni di certi dettagli pittorici di cui raramente Matteo privava i suoi quadri, i quali consistono nel rametto di corallo rosso al collo del Bambino, le ghirlandette sul capo degli Angeli, che per solito portano in mano un candeliere con candela accesa o strumenti musicali, il cipresso o il muricciolo che appare costruito con mattoni rossastri sullo sfondo dei quadri, il cartellino che si finge attaccato con ceralacca e che porta le indicazioni storiche del dipinto, la data e la firma.

Un affresco, con la data 4 Giugno 1466, rappresentante S. Nicolò da Tolentino (oggi acefalo) dipinse poi nello spessore dell’arco della Cappella contenente il terzo Altare di sinistra della Chiesa di S. Francesco in Gualdo.

Proseguendo per ordine cronologico, vengono i bellissimi affreschi che Matteo lasciò in Assisi, nell’intento e sulla facciata esterna dell’Oratorio annesso all’antico Ospedale dei Pellegrini, dedicato a S. Giacomo e a S. Antonio, i quali affreschi possiamo per certo ritenere essere i migliori tra quelli di lui pervenutici. Tali dipinti occupano tutta la parete di fondo avanti cui sorge l’Altare Maggiore e rappresentano nel centro la Madonna seduta su un ampio trono e contornata da dieci Angeli, parte in piedi e parte seduti, dei quali sei suonano istrumenti musicali, e quattro, presso i braccioli del trono, stanno in adorazione. Nudo ed eretto sulla ginocchia della Madre, è il Bambino in atto di benedire e avente nella mano sinistra un nastro ove è scritto Fiat. A destra di questo quadro, su uno sfondo decorato con cipressi, ammirasi S. Giacomo recante un libro e il bordone in mano ed a sinistra S. Antonio Abate, ambedue figure gigantesche, e ancor più all’esterno di questi Santi, da ciascuna parte, su di uno sfondo che sta a rappresentare un muro costruito con mattoni rossi, un Angelo in piedi, portante un candeliere con candela accesa. Sopra la testa dell’Angelo di destra, nel solito cartellino, sta scritto : Hoc opus factum fuit sub anno domini millesimo quatro gentesimo sessagesimo octavo, die primo junij. Macteus a Gualdo pinsit. Le figure sin qui descrìtte, occupano tutta

670 – PARTE TERZA – Miscellanea

la metà inferiore della parete e appaiono racchiuse in cinque scompartimenti divisi da quattro colonne sorreggenti un lungo architrave. Sopra questo, per tutta la lunghezza del dipinto, corre un ampio fascione comprendente sei putti alati i quali hanno in mano cestini di fiori che vanno spargendo. Nella parte superiore della parete, sopra il fascione ora descritto, si apre nel punto mediano una piccola finestra, negli sguanci della quale sono dipinti degli Angeli. Lateralmente a questa, sulla destra è effigiato l’Angelo Annunziatore, con il giglio in mano ed il motto Ave gratta plena, e sulla sinistra la Vergine Annunziata seduta in una graziosa stanzetta, nel cui vestibolo vedonsi un cagnolino ed un uccello. Tale dipinto fu fatto dietro commissione datane dai Duchi d’Urbino. Le restanti pareti della Chiesa, sono state dipinte da Pier Antonio Mezzastris.

Gli affreschi sulla facciata esterna del fabbricato, anche essi opera di Matteo, sono assai deperiti e non è certo se fossero compiuti in questo medesimo anno. Sopra l’arco della porta d’ingresso, vi è il Padre Eterno, seduto, con la destra benedicente e con un libro aperto nell’altra mano. Egli è circondato da dodici figure di Angeli disposti a coppie, quattro dei quali sono in atto di preghiera, quattro fanno musica e quattro portano delle lunghe cartelle scritte. Di fianco alla porta ammiransi, in grandi dimensioni, S. Giacomo e S. Antonio Abate. Il tutto appare chiuso in una fantastica cornice consistente in due alte e ricche colonne laterali, su cui poggia un architrave ornato con festoni di fiori e frutta. Sopra questo, nei quattro spazi esistenti tra le mensole che sorreggono l’ampia grondaia, sonvi dipinti, a due a due, otto eleganti figurine di Angeli che suonano istrumenti. L’estremità della facciata della Chiesa, a sinistra di chi riguarda, era poi occupata dall’effigie colossale di un Santo, da alcuni identificato come S. Cristoforo, che è però oggi quasi del tutto scomparso.

Assai probabilmente nella medesima epoca, Matteo dipinse anche nell’interno del suddetto Ospedale dei Pellegrini, ma di questi suoi dipinti ci restano solo due graziosi Angeli oranti che, distaccati, conservansi oggi nella Pinacoteca Comunale di Assisi.

In tale città, esistono anche altri tre affreschi distaccati, che sono opera del Gualdese e che, presentemente, trovansi custoditi in una sagrestia della Chiesa di S. Rufino. Uno di essi consiste nella Madonna seduta sul trono e avente in grembo Gesù Bambino nel l’atto di introdurre una mano nel seno materno. Gli altri rappresentano due Santi Monaci, forse S. Bernardino e S. Benedetto. Questi tre dipinti provengono da un’abitazione della Confraternita Assisana del Sacramento.

Dopo aver dipinto la su ricordata Cappella dei Pellegrini, l’anno seguente Matteo era di nuovo in Gualdo, dove eseguiva l’affresco che ammirasi sopra la porta d’ingresso della Chiesa di S. Francesco, dal lato interno, rappresentante S. Giuliano che uccide i genitori, lateralmente i S.S.Giovanni Battista e Bernardino da Siena e sotto l’iscrizione: Hoc opus fedi fieri Fiordalisa uxor S . . . i – 1469 die 9 Agusti.

671 – PARTE TERZA – Miscellanea

Due anni dopo dipingeva per il Monastero Gualdese di S. Nicolo, un trittico oggi conservato nella Pinacoteca di Gualdo Tadino, dove venne trasportato quando si verificò la soppressione di quel Chiostro. Nello scompartimento mediano vi è Maria in trono, con il Bambino nudo e diritto sulle ginocchia e avente ai piedi due Angeli dalle ali rosse, inginocchiati, portanti il giglio e sorreggenti un candeliere con candela accesa. Nello scompartimento sinistro S. Giovanni Evangelista, avvolto da un manto giallastro e avente nella mano sinistra un libro rosso aperto davanti agli occhi e nella destra la penna. Tale figura, da alcuni è stata erroneamente descritta come rappresentante S. Caterina. Nello scompartimento destro S. Giovanni Battista, in manto rosso cupo e con il nastro recante il solito scritto: Ecce Agnus Dei. Sotto la figura di S. Giovanni Battista, in un cartellino che si figura attaccato con ceralacca, si legge: Mactheus de Gualdo pinsit e sotto l’altro Santo, in un identico cartello: MCCCCLXXI VII Aprilis.

Nella predella, è dipinta nel centro la Cena degli Apostoli, a destra il Battesimo di Cristo ed a sinistra un’altra scena che avviene alla presenza di alcuni frati, in una campagna cosparsa di pini e che il Rossi stimò rappresentare la Resurrezione di Lazzaro ed altri un miracolo di S. Caterina. Sempre nella predella, sulle basi sottostanti ai pilastrini divisori del trittico, eranvi effigiate le mezze figure di quattro Santi, dei quali pervennero sino a noi solo i due interni e cioè S. Francesco e S. Bonaventura, che il Guarda bassi reputò S, Pasquale. (171)

In questo quadro è notevole, oltre la già accennata conformazione dei crani protundenti in alto, anche la bizzarra disposizione delle ciocche di capelli in S. Giovanni Battista. Nel complesso, specie per il colorito e la scarsezza dei rilievi, questo quadro non può collocarsi tra le migliori opere del Maestro, sebbene la predella, sia per le tinte come per il disegno, apparisca per certo di molto superiore al resto del trittico.

In questo stesso anno 1471, si recava di nuovo Matteo da Gualdo in Assisi, per adornare alcuni edifici pubblici di quest’ultima città, con quegli stemmi di cui si parlò trattando della sua vita.

Quattro anni dopo, lo troviamo a dipingere nella Chiesa di S. Facondino presso Gualdo, dove eseguì vari affreschi votivi, che di sgraziatamente sono andati oggi quasi completamente perduti. Di essi due soli ne restano e vedonsi contigui, presso la finestra che s’apre sulla parete della Chiesa, a sinistra di chi vi entra. Rappresentano due Santi, uno dei quali è difficilmente identificabile per lo stato in cui è ridotto, mentre l’altro pare raffiguri S. Antonio da Padova e sul suo sfondo vi si ritrova dipinto il solito muretto di mattoni rossi. Adiacenti a questi due, fino a poco tempo fa, si scorgevano i resti di un terzo e contemporaneo affresco, oggi del tutto scomparso, che rappresentava la Madonna col Bambino, ed al quale Matteo aveva apposta la data 7 Aprile 1475.

Prima della fine di quest’anno, ritornava egli in Assisi per di pingervi un affresco sulla parete in fondo alla Chiesa di S. Paolo.

672 – PARTE TERZA – Miscellanea

Rappresenta la Madonna seduta, che ha sulle ginocchia, in piedi, il Bambino, ai lati S. Lucia e S. Ansano ed alla sinistra di quest’ultimo è effigiato il Commitente del dipinto, vestito di nero, inginocchiato e con il berretto fra le mani giunte. Il tutto figura chiuso in una nicchia costruita con pietre bianche e brune, sormontata da una cornice su cui poggia un vaso contenente un mazzo di fiori e lateralmente a questo, due putti ignudi ed alati, seduti ed in atto di far musica. A sinistra sta scritto in un cartellino: Hoc. Op. Facfù. Fuit 1475 10 Noveb.

Tornato d’Assisi in Gualdo, Matteo di Pietro dipinse per la Chiesa Parrocchiale di S. Maria di Pastina, presso Gualdo, un grazioso trittico che reca la data 1477 die XV Maij, ed è conservato oggi nella Pinacoteca Comunale di Gualdo Tadino. Raffigura nel centro la Madonna con il Bambino in grembo e due Angeli oranti collocati, come spesso soleva fare il Pittore, sulla spalliera del trono su cui siede la Vergine. Al disopra, in un piccolo tondo, vedesi il Crocifisso; nello scompartimento destro S. Antonio Abbate con il porco ed un Santo munito di arco e freccia, certamente S. Secondo; nello scompartimento sinistro, S. Sebastiano che mostra il corpo nudo trafitto da dardi ed un santo Vescovo che può essere tanto S. Facondino Vescovo di Tadino, quanto S. Rinaldo Vescovo di Nocera, come S. Ubaldo Vescovo di Gubbio. La presenza in questo quadro di S. Secondo e di S. Ubaldo non dovrebbe fare meraviglia, ricordando che la Chiesa di S. Maria di Pastina era appunto una dipendenza del Monastero Eugubino di S. Secondo. Non fanno difetto anche qui i soliti dettagli pittorici speciali a Matteo e cioè la collanina e il cornetto di corallo al collo dell’Infante, tre cartellini che recano le indicazioni del dipinto e che si figurano attaccati con ceralacca rossa, i serti di mirto e alloro sulla testa degli Angeli e sullo sfondo degli scompartimenti laterali, alcuni ornamenti geometrici del genere di quelli che si vedono nell’affresco della Cappella dell’ex Ospedale dei Pellegrini in Assisi e nella tavola della Pinacoteca Comunale di Gualdo, che porta la data 1471.

Dipinse poi il nostro Artista, circa tre anni dopo, per la Chiesa rurale di S. Maria di Nasciano nel territorio Gualdese, una tavola a tempera che non è tra le sue migliori e che non par vero sia stata eseguita dopo i pregevoli affreschi dell’Oratorio dei Pellegrini in Assisi. Il trittico di Nasciano ha lo scompartimento centrale occupato, in basso, dalla figura di Maria in trono con in grembo il Divin Figliolo e quattro mezze figure d’Angeli attorno alla testa di lei e, superiormente, dalla Presentazione di Cristo al Tempio. Nello scompartimento destro, in basso, S. Secondo con una freccia in mano, in alto, l’Arcangelo Gabriele. Nello scompartimento sinistro, inferiormente, S. Rocco e, superiormente, Maria Annunziata. I tre scompartimenti superiori che, come ho detto, contengono le figure della Presentazione e dell’Annunciazione, hanno lo sfondo occupato da rappresentazioni architettoniche, come porticati e palazzi ed una campagna con il solito pino. Sotto il trono della Madonna, in un cartellino che anche qui si finge attaccato con

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ceralacca, vi era una lunga iscrizione, oggi quasi del tutto cancellata, la di cui prima riga, solo con grande stento, si può ricostruire così: Hoc opus factum fuit sub anno MCCCCLXXX, mentre nella seconda riga, appena si intuiscono i resti di alcune lettere che componevano il nome Macteus de Gualdo. Anche la faccia della Vergine, nello scompartimento principale, è al presente quasi del tutto distrutta, dalla fiamma di una candela.

Poco dopo il trittico di Nasciano, Matteo di Pietro coperse di affreschi tutte le pareti e l’abside della Chiesuola di S. Rocco presso Gualdo, costruita dai Gualdesi poco dopo l’anno 1476 in tempo di peste, per propiziarsi la protezione di quel Santo. A quest’epoca appunto dobbiamo perciò riferire gli affreschi in discorso, che rappresentano senza dubbio gli ex voto degli scampati dal morbo o l’offerta degli eredi dei defunti, in suffragio delle anime dei cari estinti. Questa fu forse una delle opere più grandi e più perfette del nostro Artista, ma di cui oggi purtroppo non restano che pochi frammenti, per l’umidità, per lo scrostamento dell’intonaco e più che altro per l’incuria degli uomini, destinati a scomparire ben presto del tutto. Gli affreschi consistono in tante immagini divise le une dalle altre; ma per certo furono eseguiti in uno stesso tempo come risulta dalle cornici e fregi che in alto e in basso, nella quasi totalità, li racchiudono e inquadrano in un tutto ordinato e simmetrico. Ecco quanto resta di questi affreschi. Nella parete d’ingresso S. Bernardino, un Crocifisso e tracce di altri dipinti sotto l’intonaco. Nella parete laterale, a sinistra di chi entra, una Madonna in trono con l’Infante che porta un grappolo d’uva in mano, mentre è adorata da due Angeli inginocchiati sui braccioli del seggio, come spesso . abbiamo visto nei dipinti di Matteo; poi S. Rocco e S. Giacomo; poi un’altra Vergine in trono con il Bambino in grembo, tra S. Facondino e un Santo irriconoscibile e infine una Madonna con a fianco S. Sebastiano, che ha il nudo corpo cosparso di frecce e reca per sfondo il solito muricciolo di mattoni rossastri. Nella parete laterale destra, gli affreschi in parte sono distrutti, in parte sono forse ancora nascosti sotto la calce. Nella parete circolare dell’abside, la stessa calce ricopre la massima parte dei dipinti, ma però, a sinistra di chi riguarda detta abside, restano scoperti un’Annunciazione e vari Angeli, alcuni dei quali, inginocchiati, suonano istrumenti musicali. Il fregio o cornice di cui sopra parlammo, solo in alto è conservato in gran parte.

Proseguendo per ordine cronologico, dobbiamo qui ricordare i tre affreschi esistenti sulla parete a destra dell’ingresso nella Chiesa di S. Maria della Scirca presso Sigillo, che vanno annoverati tra i migliori di Matteo. Nel primo è rappresentata la Madonna in trono, con Gesù diritto che tiene tra le braccia un cagnolino. Anche il secondo rappresenta una Madonna di grandi dimensioni, che sta in piedi e copre con il suo manto una folla di piccole figure di devoti inginocchiati divisi in due gruppi, a destra gli uomini insieme ad un Pontefice che forse è Sisto IV, a sinistra le donne, ed ha intorno al capo sei Angeli in adorazione, a figure intere. Nel terzo affresco è

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effigiata S. Anna, su di un seggio intagliato, con il velo a soggolo monacale e manto violaceo, portante sopra le ginocchia Maria fanciulla bianco vestita e questa, alla sua volta, il Bambino in fasce, le quali due ultime figure amorosamente si riguardano fra di loro. Le indicazioni storiche del dipinto, trovansi in uno dei consueti cartellini, che Matteo fingeva attaccati con ceralacca, disegnato sulla cornice dell’affresco mediano, dove potei leggere con molta difficoltà, le parole a metà cancellate: Macteus de…. pinxit sub anno domini MCCCCLXXXIIII. La data di questi affreschi, come molto ingegnosamente notò il Rossi, trovasi anche graffita sulla tonaca dell’ultimo devoto vestito da frate, per opera forse di qualche ignoto antico amatore che, vedendo prossima a cancellarsi la data appostavi da Matteo dopo la propria firma, avrà pensato di tramandarla ai posteri così incisa sul muro. Ma il Rossi, equivocando, lesse in tale data 1481 anziché 1484.

Dopo gli affreschi di S. Maria della Scirca, a giudicare dalle opere che l’Artista ci tramandò datate, appare una non breve lacuna, cioè sino al 1487, nel quale anno egli ricompare nuovamente a Sigillo per dipingervi l’interno dell’Oratorio di S. Anna, oggi annesso al Cimitero di tale paese. Degli affreschi da lui eseguiti in S. Anna, attualmente non restano che quelli delle due pareti laterali. Certamente anche la più importante parete, cioè quella di fondo, sarà stata da lui dipinta, ma oggi in essa vendonsi invece solo dei brutti sgorbi Seicenteschi. Nelle due pareti laterali, Matteo suddivise le immagini votive, con uno scompartimento architettonico che ricorda assai quello da lui adoperato per separare gli affreschi già descritti nell’interno della Cappella dell’Antico Ospedale dei Pellegrini in Assisi. Nella parete a sinistra di chi entra, trovasi anzi tutto una Vergine in trono con il Bambino in grembo, appresso un S. Michele Arcangelo, poi un S. Sebastiano ed in ultimo S. Antonio Abate, assise in seggio ed avente ai piedi la piccola figura di un bifolco con bue. Lateralmente a questo Santo, in uno dei cartellini che Matteo amava apporre nelle sue opere e che, come al solito, finge attaccato con cera rossa, trovasi scritto: Bifulci castri Sigilli fecerunt fieri hoc opus. MCCCCLXXXVII….IUL …. Sotto il primo dei suddetti quadri, cioè sotto la Vergine con il Bambino, leggesi: Nicolaus lohannis procurava ex voto. MCCCCCV. P. Septetn… Quest’ultima data ha fatto a qualcuno sospettare che un tale quadro, a differenza dei tre seguenti, non sia di Matteo, ma di qualche suo imitatore od allievo. Una tal cosa è possibile, ma giova però ricordare che Matteo nel 1505 era ancor vivo e che nulla vi è di straordinario se in quell’anno egli si trovava di nuovo a dipingere nella Cappella di S. Anna, che forse era rimasta incompiuta. Sopra i quattro personaggi suddetti, che sono a grandezza quasi naturale, il resto della parete, a forma di lunetta per la presenza della volta, è tutta occupata da una Annunciazione a cui si aggiungono le effigi del Padre Eterno e di un devoto inginocchiato. Alle due estremità delle figure della lunetta, ritrovasi sullo sfondo, l’immancabile distintivo del Pittore Gualdese e cioè il muricciolo dipinto in modo da sembrare costruito

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con mattoni rossastri. Nella parete destra osservasi dapprima la nota figurazione Agostiniana, detta la Madonna del Soccorso, nella quale però più non vedesi l’immagine del Diavolo che tenta rapire una fanciulla, immagine oggi andata perduta; segue poi S. Antonio da Padova con in mano un libro ed un giglio, ed infine, all’estremità della parete, trovasi S. Giovanni Evangelista con ai piedi l’aquila ed in mano una pergamena. Sotto la Madonna del Soccorso, sono i resti di una iscrizione : «… res (forse Mulieres) castri Sigilli ex voto fieri fecerunt ann. Dni M …… Come nella parete di fronte, anche in questa la lunetta superiore è occupata da un’unica rappresentazione, consistente in un paesaggio con due figure, cioè S. Francesco che riceve le stimmate, e due frati, con libro in mano, seduti innanzi ad un grande edifizio che sembra voglia rappresentare il massimo Tempio Assisano. Anche qui la lunetta, al suo estremo verso la parete di fondo, è occupata dal muro di mattoni rossi, dietro cui si vedono spuntare le piante care a Matteo cioè i sempre verdi cipressi. Tutti questi affreschi, specie quelli della parete di destra, appaiono tracciati in fretta senza alcuna cura e quindi artisticamente lasciano molto a desiderare. Si direbbe quasi, che il Pittore ritenesse cosa superflua di produrre un’opera, più raffinata, in considerazione dei Commitenti, cioè dei bifulci castri Sigilli.

In questo stesso anno 1487 e nel seguente, ritroviamo poi la traccia delle laboriose peregrinazioni di Matteo nelle vallate e nelle gole, anche oggi semideserte, aspre e disagevoli del Monte Pennino, nel territorio di Nocera Umbra. Sulla facciata di due umili abitazioni esistenti in quell’alpestre regione e propriamente ad Acciano e Colle Aprico, lasciò infatti Matteo degli affreschi, che nonostante la secolare esposizione all’intemperie della montagna, presentano anche oggi una vivacità ed una freschezza di colorito, che in opere consimili, non è facile trovarne l’eguale. Il dipinto di Acciano ammiravasi in tale località sulla facciata di un rustico casolare, presso la porta d’ingresso, a circa due metri dal suolo. Fu distaccato nel 1912, perché la muraglia su cui poggiava era pericolante e venne venduto nel Nord America, andando così disperso. Rappresenta la Vergine seduta in trono con il Bambino eretto sulle ginocchia, il tutto a grandezza poco meno del naturale. La Madonna, circondata da un’aureola formata come da più giri di perle incavate nell’intonaco, sorregge il Bambino passandogli la mano destra sotto l’ascella e con la mano sinistra tiene aperto un libro che mostra di leggere. L’Infante, anche esso con il capo circondato da aureola, tende in alto la destra in atto di benedire e poggia l’altra mano sul libro che porta la Madre. Riccamente decorato è il trono su cui siede la Vergine e ancor più ricchi, per pizzi, bordi e merletti, sono le vesti delle due figure. Come nell’affresco di Colle Aprico, che appresso descriveremo, un ampio manto azzurro contorna le linee del viso della Vergine, inclinato a destra e atteggiato a mestizia, scendendo poi con il suo lembo sinistro sino ai piedi, in una esuberanza di volute e di pieghe. Il Bambino indossa una ben guarnita tunica, che si arresta alle

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ginocchia ed è stretta ai fianchi da un lungo e sottile nastro svolazzante. Sotto la Vergine, per tutta la lunghezza dell’affresco, osservansi i resti di tre righe di scrittura gotica, quasi cancellata, dove a malapena si leggono in principio le seguenti parole: Questa è la matre de li peccatori …. In fondo allo scritto, sono ancora parzialmente visibili le cifre arabiche della data 1487. Non vi è traccia di firma, forse un dì contenuta nella parte della inscrizione andata perduta, ma tale firma è senz’altro superflua, tanto chiaramente, dai caratteri del dipinto, balza fuori senza possibilità di discussione, l’opera di Matteo da Gualdo, anche senza tener conto dei soliti di stintivi di tal Pittore cioè i corallini intorno al collo del Bambino, il muro di mattoni rossi sullo sfondo del quadro ed altri simili dettagli, che non mancano nell’affresco in discorso. Ha questo poi una straordinaria somiglianza nella movenza delle figure, nel loro abbigliamento, nel colorito, nelle linee generali, con il vicino affresco di Colle Aprico, firmato da Matteo, ma nel dipinto di Acciano, assai più che in quello di Colle Aprico, è ricca, diciam così, la messa in iscena delle figure e ancor più vividi ne erano, prima del distacco, i colori, la quale vivezza è andata in gran parte perduta, per effetto delle operazioni inerenti al distacco stesso.

L’affresco di Colle Aprico, come il precedente, esisteva in una nicchia sulla facciata di una vetusta casa rurale. Ho scritto esisteva, perché anche questo affresco, ottimamente distaccato nel 1911, pericolando quell’abitazione, si conserva oggi nella Pinacoteca Comunale di Perugia, disposto in altra nicchia, costruita per forma e dimensioni, simile all’originale. Nella sommità dell’arco, entro una cornice circolare contornata di fregi, si trova dipinto il Padre Eterno, in mezza figura, rivestito di rosso manto, in atto di benedire. Nella parete destra dell’arco, S. Sebastiano tutto nudo, con una sola fascia che gli circonda le anche; sul suo corpo sanguinante sono confitti vari dardi ed è legato al tronco di un albero, addossato ad un muro costruito con rossi mattoni, come nell’affresco di S. Sebastiano nella Chiesa di S. Rocco. Nella parete sinistra, S. Antonio da Padova, vestito dell’abito Francescano, in piedi ed in atto di leggere attentamente un libro che con la mano tiene aperto davanti agli occhi. Questi due Santi sono dipinti a figura intera, ciascuno sotto un arco trilobato, che appare sostenuto da due colonne. Nel fondo della nicchia è effigiata la Madonna seduta in trono e vestita con un manto azzurro cosparso di stelle d’oro, che dopo averle ricoperto il capo, cala giù maestosamente in ampie pieghe sino a terra. Ha in piedi sulle ginocchia il Bambino nudo, solo velato da un drappo che gli discende dalla spalla destra. La Vergine, mentre con la mano destra lo sorregge nel fianco, con la sinistra tiene sospesa l’altra estremità del drappo, in modo che vada a coprire i genitali dell’Infante. Tale atteggiamento ricorre sovente nei dipinti di Matteo, tra gli altri nel trittico di Coldellanoce presso Sassoferrato, in quello di S. Pietro d’Assisi, e nell’altro della Pinacoteca Gualdese datato con l’anno 1471. Il Bambino porta al collo la solita coroncina da cui pende l’immancabile ramo di

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corallo. Madre e figlio hanno il viso atteggiato ad una stessa espressione di soave mansuetudine e di umiltà e il tipico profilo dei volti dipinti dal nostro Artista; è qui notevolmente accentuato. Sulla spalliera del trono, fregiato con piccoli garofani, da ciascun lato stanno due Angeli oranti ed anche questi hanno il collo ornato da una collanina di coralli. Tutte le figure portano capelli biondi, meno S. Antonio che appare canuto. Sull’ala destra del trono, si vede affisso un nastrino pendente, con le parole: Macteus de Gualdo pinxit, e sotto i piedi della Vergine sta scritto: Depicta fuit sub anno Dni MCCCCLXXXVIII.XX iulii. Della decima cifra del millesimo, non restano visibili che le estremità superiori, le quali potrebbero anche aver fatto parte di un X anziché di un V, usandosi scrivere alcune volte in quei tempi XXXX invece di XL. Io però ho creduto doversi leggere 1488 e non 1493, anzi tutto perché nel dubbio è doveroso attenersi alla regolare scrittura del numero ed in secondo luogo perché la data 1493 parmi distanzi di troppo la data dell’affresco di Acciano, esistente poco lontano in quella località. Ad ogni modo l’affresco di Colle Aprico, tra le opere da Matteo autenticate con la sua firma e sino a noi pervenute, se non per perfezione di disegno, certo per età è la più matura di tutte. Il quadro principale, cioè quello della Madonna nel fondo della nicchia, è abbastanza ben conservato, pure in buono stato di conservazione trovasi il Padre Eterno nel sommo dell’arco, deperiti invece per abrasioni e scrostature, sono le due figure laterali, il S. Antonio in ispecie.

Quasi certamente a questa epoca (1487-1488) in cui Matteo esegui le sue due opere di Acciano e Colle Aprico, vanno riferiti anche alcuni altri suoi affreschi, oggi in parte assai deperiti, in parte barbaramente restaurati, esistenti in quelle vicinanze.

Ad esempio, nella Chiesa di Aggi, sulla parete dietro l’altare, ancora restano di lui cinque affreschi votivi, dei quali uno rappresenta S. Sebastiano, avente come sfondo, il solito muricciolo che si finge costruito con mattoni rossi, un altro raffigura S. Lucia, un’altro la Madonna con il Bambino in braccio, segue poi un S. Antonio da Padova ed infine una seconda Madonna.

Similmente due suoi affreschi ritroviamo non lontano da Aggi, nei villaggi di Ceresole e Mosciano, nel territorio di Sorifa, sulle muraglie esterne di due case private, rispettivamente appartenenti alle famiglie Berardi e Bravi. L’affresco di Ceresole, rappresentava una santa Lucia, collocata a fianco della porta d’ingresso del casolare e ho detto rappresentava, poiché di esso non resta oggi che la testa, graziosissimo e tipico esemplare dell’arte di Matteo. Nell’affresco di Mosciano, collocato in una nicchia, e anch’esso assai malandato, si ammira la Madonna di Loreto ed il Bambino, con i due Angeli che sorreggono la Santa Casa, ridotta però, notisi bene, ad un semplice baldacchino. Il dipinto è interessante appunto per questa non comune raffigurazione della Vergine Lauretana, che solo usarono talvolta alcuni artisti Quattrocenteschi delle Marche e dell’Umbria. Anche qui, si intravvede sullo sfondo, uno dei soliti distintivi di Matteo e cioè il muretto di mattoni rossi. (172)

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Oltre alle opere di Matteo sin qui descritte per ordine cronologico, altre ne esistono sfornite di data che, o mancava sin dalle origini o si è cancellata.

Tra queste noteremo anzi tutto la tavola a forma di trittico che dipinse per la vecchia Chiesa parrocchiale di Palazzo, villaggio tra Assisi e Petrignano, trittico che il Guardabassi attribuì alla scuola di Nicolo Alunno. Rappresenta nel mezzo la Madonna vestita di un manto verdastro e di una tunica rossa, con maniche ricamate in oro, seduta sopra un trono e recante sulla ginocchia il Bambino ritto in piedi e in atto di benedire. Posteriormente al trono, stanno due Angeli che fanno musica. Nello scompartimento a sinistra di chi guarda, sta S. Francesco di Assisi, nel destro S. Sebastiano, ambedue in atteggiamento di devota adorazione. Dietro di loro trovasi una balaustrata, che è assai frequente nei dipinti del nostro Artista. Il trittico, che misura m. 1.50 x m. 1.18, è in cattive condizioni ed il Perkins vi notò l’originalità della cornice, che chiama assai interessante, presentandosi essa come un tipo proprio a Matteo. La ritroviamo infatti anche nel Trittico della Chiesa di S. Pietro in Assisi e nell’altro Trittico che egli dipinse per la nostra ex Chiesa di S. Nicolò, oggi conservato nella Pinacoteca Comunale di Gualdo.

Il Rossi, stimò essere stata questa pittura uno dei primi lavori del Gualdese, non riscontrandovisi ancora tutti quei pregi dei quali, nonostante il contrario parere di alcuni, non gli fu avara Natura; invece lo stesso Perkins la giudica opera compiuta «nell’epoca avanzata della carriera di quell’affascinante Pittore che fu Matteo da Gualdo ». Ma a tal proposito giova notare, come nella di lui produzione pittorica, sia ben difficile lo stabilire un regolare progresso nel perfezionamento della propria arte, poiché anzi, come già abbiamo notato, bene spesso si è visto susseguire, ad un suo buon dipinto, un’opera men che mediocre. Si potrebbbe quasi pensare, che il Gualdese, lavorando non tanto per la gloria, quanto per le umili necessità della vita, più o meno tempo e diligenza ponesse nell’esecuzione dei suoi lavori, a seconda della maggiore o minore importanza del luogo dove doveva eseguirli, del Committente e della pattuita mercede. (173)

Nella su nominata vecchia Chiesa Parrocchiale di Palazzo, esiste poi anche, in affresco, una Madonna che pare opera del nostro Pittore.

Similmente è suo il trittico della Chiesa Plebana di S. Maria Assunta a Casa Castalda, in Comune di Valfabbrica, dipinto su fondo d’oro e rappresentante, negli scompartimenti inferiori, a figura intera, la Madonna seduta in trono, con il capo circondato da cinque Angeli oranti, con il Bambino in piedi sulle ginocchia, ed a fianco gli Apostoli S. Pietro e S. Paolo. Negli scompartimenti superiori, in mezze figure, vedesi nel centro Cristo fuori dell’avello e sorretto dalla Madonna e da S. Giovanni; lateralmente S. Michele Arcangelo ed il Battista.

Nella stessa Casa Castalda, ma in un altra Chiesa, in quella cioè S. Maria dell’Olmo, ricchissima di antichi dipinti, e propriamente nella

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parete di fondo della Sagrestia, in alto e a destra del riguardante, trovasi un affresco votivo assai rovinato, rappresentante la Madonna col Bambino. Tra tutte le molteplici pitture della Chiesa, questa almeno, è opera del nostro artista. Si può dire sia stata da lui firmata con il solito muretto di mattoni rossi riprodotto sullo sfondo del quadro, muretto di cui vedonsi ancora bene le tracce. Pure senza data è la tavola a tre punte, firmata da Matteo, che oggi conservasi nella Chiesa Parrocchiale di Coldellanoce, presso Sassoferrato e che il Rossi ritiene un’opera tarda del Maestro, perché vi si riscontra una maniera più ingrandita del solito, una mano franca a lungo esercitata. Consiste in una tavola a forma di trittico, con cornice Gotica intagliata. E’ dipinta su fondo d’oro ed i tre scompartimenti sono separati da snelle colonnine a spirale, su cui posano tre archetti rotondi, sormontati da altrettanti archi a sesto acuto e terminanti con festoni di foglie intagliate e dorate, di modo che tra gli archi inferiori ed i superiori, restano comprese le cuspidi. Nello scompartimento maggiore mediano, il Pittore effigiò la Madonna assisa sul trono con il Bambino in piedi sulle ginocchia, nell’atto di benedire con la mano destra e avente nella sinistra un cartellino bianco recante il motto: Ad me flectentes benedico. Il capo della Vergine è circondato da cinque Cherubini ed ai suoi piedi, nel gradino del trono, si legge: Macteus de Gualdo pinxit. Con ambedue le mani, la Madonna, tende un velo trasparente per coprire, ma senza effetto, i genitali del Bambino. Vari fiori sono poi sparsi in basso, qua e là, nell’atto di cadere a terra. Sul lato sinistro della Vergine, sta la figura di chi diede la commissione del quadro, genuflesso ed orante, vestito con una specie di toga oscura ed avente il berretto nella mani giunte. In esso, il Ramelli ed il Cavalcaselle, credettero vedere un Monaco Cassinese e l’Anselmi un gentiluomo vestito con il costume dell’epoca, forse appartenente alla celebre famiglia dei Collenuccio, feudatari Sassoferratesi e vivente tra il 1470 e il 1480, durante il qual tempo alcuni ritennero dipinta la tavola. Nello scompartimento destro è poi effigiato S. Lorenzo, titolare della Chiesa di Coldellanoce, vestito di tonaca rossa guarnita d’oro, avente la graticola, con la palma nella mano destra ed il libro del Vangelo nella sinistra. Nell’altro scompartimento è dipinto S. Sebastiano, legato ad un tronco d’albero e ferito da frecce, tre delle quali sporgono ancora sul corpo nudo. Le aureole ed i paramenti di questi Santi, sono decorati con rilievi ed impressioni. Nel mezzo di ciascuna delle tre cuspidi, tutte lavorate ad oro, sta un medaglione circolare dipinto: In quello mediano, più grande, osservasi il Padre Eterno a braccia aperte, e nei due laterali, a destra l’Angelo Annunziatore in atto di dire Ave ed a sinistra la Vergine Annunziata genuflessa. La predella che sorreggeva le colonnine divisorie, è scomparsa da tempo immemorabile; pittura e cornice, che erano ridotte in pessimo stato di conservazione, vennero di recente, convenientemente restaurate. (174)

Completamente perduto andò invece un assai bell’affresco, che esisteva nella Chiesa Parrocchiale dell’Assunzione di Maria Vergine

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nel villaggio di Pieve di Compresseto. Detto affresco trovavasi sulla parete di fondo della Chiesa stessa, dietro l’Altare Maggiore, parete che fu demolita quando, nel 1877, quel sacro edificio subì una quasi completa trasformazione. L’affresco, di grandi dimensioni, rappresentava una Madonna della Misericordia che, sotto l’ampio manto, tenuto aperto da due Angeli, accoglieva due numerosi gruppi di Devoti inginocchiati ed oranti, da un lato gli uomini, dall’altro le donne. Altri due Angeli si libravano a volo in alto, lateralmente al capo della Vergine. Fortunatamente di questo affresco, un ignoto amatore, prima che avvenisse la barbarica demolizione, pensò di farne una fotografia, ed è così che il dipinto è sino a noi pervenuto. Notevole è la grandissima rassomiglianza che, specie nei due gruppi dei Devoti, corre tra quest’opera di Matteo e l’altra che egli ci tramandò nella Chiesa di S. Maria di Scirca e che già descrivemmo. Parimenti andarono perduti gli affreschi che il nostro Artista dipinse, in epoca imprecisata, nella ex Chiesa di S. Antonio, presso Gualdo, fuori la Porta Civica di S. Facondino. Rappresentavano essi vari episodi della vita di S. Antonio, più un S. Benedetto ed un S. Francesco, ma essendo nel 1841 caduto il tetto della Chiesa e poi questa ridotta all’umile uso di stalla, tali bellissime pitture andarono completamente perdute. Che fossero assai pregevoli ce ne fa fede l’illustre Benfatti, che il 27 Maggio del 1872, così scriveva al Rossi a proposito del « Prospetto » da questi pubblicato su Matteo da Gualdo: « Se voi aveste vedute, come furono da me, le pitture della rovinata Chiesa di S. Antonio fuori di Gualdo Tadino, avreste ampliato di molto il vostro Prospetto. Io ho ancora presenti le figure di quei Santi, caldissime di colorito, e specialmente del Santo titolare, il quale sembrava non dipinto ma vero ».

Una tavola a forma di trittico con fondo d’oro, dipinse Matteo per la Chiesa di S. Pietro in Assisi in epoca incerta. Il Rossi, non sappiamo perché, la riferisce a circa l’anno 1460, ma tale lavoro potrebbe anche essere stato eseguito durante il lungo tempo in cui il Pittore Gualdese, come vedemmo, soggiornò in Assisi per compiervi altre sue opere e cioè nel 1468, nel 1471 e nel 1475. Nello scompartimento mediano di detta tavola, vedesi la Vergine seduta in trono con, tutto ignudo sulle ginocchia, il Bambino benedicente, e attorno al capo, dietro la spalliera del seggio, sei Angeli dei quali, due pregano a mani giunte, due sono in atto di cantare e due di far musica. Gli angeli, come usava Matteo, hanno in capo coroncine di mirto e di alloro ed il Bambino, attorti ai polsi ed al collo, porta i soliti fili di perline colorate con il cornetto di corallo pendente. Nello scompartimento di destra è S. Pietro in abito pontificale, con un gran libro aperto nella mano sinistra e la chiave nell’altra. Nello scompartimento opposto, un Vescovo, o S. Rufino o S. Vittorino, portante il pastorale ed un libro. Nel fianco sinistro del trono, in un cartello che si vuole addimostrare attaccato con ceralacca, si leggono le seguenti incomplete parole: Opus Macht: de Gualdo sub mil. .. CCCC … V die Aplis. Nello scompartimento mediano, sotto la predella del trono, trovasi inoltre questa iscrizione : Hoc opus…

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feci reverendus… s Bartolomeus … Sci Petri de Assisce ad…, che il Rossi, nel 1872, potè leggere completamente così: Hoc opus fieri fecit Reverendus Pater Dominus Bartolomeus Abbas Monasteri Scti Petri de Assisce ad lauderà Dei. Amen. Il trittico di S. Pietro, fu da ignoti trafugato poco dopo l’anno 1900 e al suo posto si collocò una abilissima imitazione. Nel 1907, durante l’Esposizione di Arte Antica Umbra in Perugia, essendovisi inviato quest’ultimo quadro, si potè scoprire la frode, ma solo nel 1912, si riusciva a ritrovare l’originale, che venne subito riposto nella sua antica sede. Esso è uno dei buoni dipinti di Matteo, opera vaga e condotta con assai diligenza, come scrisse il Rossi. Gli Angeli specialmente, vi appaiono quali creature delicate e celestiali e ci ricordano quelli di Giovanni Beccati da Camerino.

Un affresco di Matteo, anch’esso privo di data, trovasi nella Chiesa di S. Francesco in Gualdo, nello spessore dell’arco della Cappella contenente il terzo altare di sinistra. Rappresenta la Vergine, vista alquanto di profilo e seduta, con il Bambino in piedi sulle ginocchia, quasi ignudo perché appena coperto da un velo sottile e in atto di sporgersi per prendere un libro dalle mani di S. Francesco, che gli sta eretto davanti. In fondo il caratteristico muro di mattoni rossastri, su cui emerge un lontano lembo di paesaggio montuoso. Benché mancante, come si è detto, di data, questo affresco potrebbe forse riferirsi al 1466, perché tale anno vediamo indicato nell’altro affresco di Matteo già descritto (S. Nicolò da To lentino) che sta di fronte al precedente, nello spessore dell’arco della stessa Cappella. Similmente è del nostro Artista il S. Bernardino a grandezza naturale, con le tre mitre in testa, in atto di predicare, additante il cielo con una mano ed avente un libro aperto nell’altra, che si vede a destra della porta d’ingresso della stessa Chiesa di S. Francesco: La sola conformazione dei piedi nudi del Santo, scrisse lo Gnoli, valgono per una firma. Né soltanto a quelle sin qui ricordate si riducono le pitture eseguite da Matteo nel bel Tempio Francescano di Gualdo, poiché molte altre ancora vi si potrebbero ritrovare, tra gli affreschi che ivi esistono in gran numero, ma coperti sotto un uniforme strato di bianco di calce.

Quattro suoi affreschi trovansi nella Chiesa Parrocchiale di Grello, nel Comune di Gualdo Tadino. Ivi, nella parete di fondo, vedesi nel centro la Madonna seduta in trono con il Bambino ed avente due Angeli ai lati del capo, alla sua destra S. Pietro, alla sua sinistra S. Paolo, ai piedi il Committente inginocchiato ed orante. Sopra tutto questo, trovasi Cristo in croce, adorato dalla Vergine e da S. Giovanni. La figura centrale e principale, cioè la Madonna con il Bambino, è stata però tanto e così malamente ridipinta, che ha perduto ogni impronta originaria ed a stento vi si può riscontrare la maniera di Matteo. Sulla volta poi nella stessa Chiesa, a sinistra di chi entra, trovansi in un primo gruppo, le due immagini di S. Giovanni Evangelista e di S. Michele Arcangelo; poco distante i resti d’una Madonna sul seggio, con il Divino Infante fra le braccia e due Angeli ai lati del capo, e finalmente, in un terzo gruppo,

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l’effigi di S. Facondino Vescovo e del suo Vicario S. Gioventino.

Un altro affresco del nostro Pittore esisteva nella Cappellina, o come volgarmente dicesi Maestà, di S. Anna presso la suddetta Chiesa parrocchiale di Grello. Ho scritto esisteva, perché oggi di esso non restano più neppure le poche tracce da me viste alcuni anni or sono, ancora sufficienti a far conoscere che il dipinto rappresentava la Vergine in trono con il Bambino in grembo circondata da Angeli e con a fianco, in piedi, due Santi non più identificabili. Sul fondo del quadro stava l’immancabile muro di mattoni rossastri. Per caso ho potuto rintracciare in un antico testamento, il Committente di questo dipinto. Costui è tal Marcazio di Mencuccio alias Morelli, olim de castro Case Castalde et nunc de Gualdo, il quale ai 14 di Aprile del 1479, lasciava un fiorino «pro depingendo figuras Sanctorum in quadam Maestate que vocatur La Maestà de Sancta Anna, posita extra castrum Grilli». (175)

Altri suoi affreschi, disgraziatamente assai malandati, esistono ancora nella Cappella del Beato Angelo, annessa al Convento dei Frati Minori Cappuccini, non lungi da Gualdo. Trattasi di quadri votivi così distribuiti: Nella parete a destra di chi entra un’Annunciazione, un Beato Angelo, un S. Facondino ed un S. Rocco in quella di sinistra un Crocifisso con la solita raffigurazione della Pietà, un altro Beato Angelo ed un’altra Annunciazione.

Così pure son di Matteo alcuni degli affreschi esistenti nella Chiesa Parrocchiale di Caprara, nel Comune di Gualdo Tadino e precisamente il S. Cristoforo, il S. Sebastiano ed il S. Rocco, nella parete a sinistra dell’ingresso.

Sono sue, non poche delle pitture affrescate nella Chiesa Parrocchiale di S. Pellegrino, pure in Comune di Gualdo, le quali trovansi su quella parete della Sagrestia che divide quest’ultima dalla Chiesa.

In questo stesso villaggio di S. Pellegrino e propriamente nella Chiesetta di S. Maria delle Grazie, ammirasi un trittico a tempera su tavola, mancante di firma e di data, ma senza dubbio opera del nostro Artista, rappresentante la Madonna delle Grazie circondata da devoti, avente alla sua destra S. Giacomo Apostolo, alla sinistra S. Pellegrino, in alto il Padre Eterno e due Angeli. Questo trittico appare essere stato un tempo mutilato e poi malamente ricomposto in una nuova cornice.

Similmente fu la mano di Matteo, che eseguì l’affresco, oggi mutilo (Madonna con Bambino circondata da quattro Angeli e con ai lati S. Antonio Abbate e S. Sebastiano) esistente nella Cattedrale Gualdese di S. Benedetto, in quella parte del matroneo che trovasi sopra la seconda Cappella di destra. Dicesi suo un Crocifisso a Rocca S. Angelo, presso Assisi. Ricorderemo infine, che egli dipinse anche nella Chiesa Parrocchiale di Giomici, nei Comune di Valfabbrica. Infatti, in questa Chiesa, esistono i resti di alcuni affreschi di vari autori, tra i quali uno del Gualdese, è subito riconoscibile alla sinistra della porta d’ingresso. Rappresenta S. Michele Arcangelo titolare della Chiesa e, sullo sfondo del quadro,

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si intravvede ancora il muretto di mattoni rossastri, quasi immancabile distintivo pittorico di Matteo. Disgraziatamente questa bella figura è oggi assai malconcia e trovasi tagliata a metà dal pavimento di una cantoria, di maniera che la testa rimane sopra, le gambe sotto il pavimento suddetto.

Per completare questo studio su Matteo di Pietro, non sarà inutile che io ricordi, come anche molti altri dipinti esistenti in Gualdo ed in diversi luoghi dell’Umbria e che non portano firma, furono attribuiti in diverse epoche, da scrittori e critici d’arte, al Pittore Gualdese. Il discutere ora sulla maggiore o minore esattezza di tali attribuzioni, sarebbe cosa troppa complicata e prolissa e mi limiterò quindi a dare di queste opere assegnate a Matteo, un semplice elenco, astenendomi da ogni giudizio critico.

Così il Berenson, gli attribuisce una Crocifissione esistente nella Collezione Gardner di Boston, un’Adorazione dei Re Magi del Museo di Dresda, un Trittico della Raccolta Sutton Brani Broughton (Lines), un altro Trittico del Museo di Perigueux ed infine una Madonna della propria Collezione in Firenze. Schmarsow, gli assegna una Vergine del Museo Lindenau di Altemburg; il Rossi gli aggiudica la Tavola a tempera, a forma di pentastico, esistente nella Chiesa Parrocchiale di S. Pellegrino presso Gualdo, che rappresenta nel mezzo, Maria in trono accarezzata da Gesù e adorata da quattro Angeli, a destra S. Michele Arcangelo e S. Filippo, a sinistra S. Giacomo e S. Pellegrino, nelle cuspidi, in mezzo il Padre Eterno, da un lato il Battista e un Santo Papa, dall’altro S. Paolo e S. Barto lomeo. A piè del quadro è scritto il nome del Committente e la data: Tempore Domini Agneli Francisci de Gualdo. MCCCCLXV. Die X Decembris. Recentemente questo pentastico, è stato invece attribuito a Gerolamo di Giovanni. (176)

Così pure ricorderò che il Ramelli (e non a torto) gli assegnò, nella Pinacoteca Comunale di Gualdo, una piccola tavola a tempera rappresentante l’Annunciazione, nella quale è interessantissimo il paesaggio animato che serve di sfondo alla scena. Dirò che si crede opera di Matteo, una grande pala d’altare in legno, già esistente nella Chiesa di S. Maria dei Raccomandati in Gualdo, oggi trasportata nella Pinacoteca Comunale, rappresentante Adamo che giace nudo su di un prato fiorito e dal cui ventre nasce l’Albero genealogico della stirpe di David sino alla Vergine. I vari rami dell’albero attorcigliandosi, formano ventitré medaglioni contenenti, in mezzo busto, gli antenati della Madonna, ciascun medaglione con due figure, meno i due ultimi che ne hanno una sola, cioè S. Gioacchino e S. Anna. Al vertice del tronco, si erge la Madonna che forma il dettaglio principale del quadro, sulla cui sommità sta l’effigie del Padre Eterno benedicente. Molti, hanno riscontrato nella figura della Vergine, tutti caratteri di Matteo da Gualdo, ed il resto del dipinto sembra essere stato da lui eseguito sulla guida di qualche altro lavoro straniero, probabilmente Tedesco. La fattura delle ciocche di capelli, nelle figure dei medaglioni, ricorda esattamente quella

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dei capelli di S. Giovanni Battista, nel trittico firmato con la data 1471, che dall’ex Convento di S. Nicolò è passato oggi nella Pinacoteca di Gualdo. Notevole il fatto, che nella Cattedrale di Nocera Umbra, esisteva una tavola, dipinta durante il pontificato di Alessandro VI, cioè dal 1492 al 1503, dove, sopra otto figure rappresentanti l’incontro di S. Gioacchino con S. Anna, vi è una Madonna che, in ogni minimo dettaglio, è perfettamente simile alla precedente e che ne è anzi una riproduzione fedele. Del quadro di Nocera vi è un duplicato, eseguito dalla stessa mano con qualche variante, nella Pinacoteca Comunale di Gualdo, ed anche questi due dipinti dell’incontro di S. Gioacchino con S. Anna, ben a ragione, sono stati giudicati da molti, opera di Matteo.

Similmente a quest’ultimo sono attribuiti un Polittico ed una Tavola esistenti nella Pinacoteca Comunale di Spoleto ed un Trittico conservato nell’Arcivescovato della stessa città. Di queste tre opere la prima, proveniente dall’Abbazia di S. Eutizio, nel Comune di Preci presso Norcia, rappresenta in basso, in quattro scompartimenti, altrettanti Santi, tra i quali S. Benedetto, S. Placido, S. Fiorenzo; la parte centrale è vuota; i piccoli scomparti superiori contengono i quattro Evangelisti e manca il Padre Eterno che era collocato sopra il tutto. La seconda opera reca le figure di S. Giovanni Battista e di S. Pietro. La terza, o dell’Arcivescovato, consiste in una Madonna orante, fiancheggiata da un Santo e da una Santa.

Sin qui le tavole, ma anche molti affreschi furono attribuiti al Pittore Gualdese, ad esempio, ma erratamente, gli si assegnarono quelli esistenti in Assisi entro una nicchia, sul frontale dell’Oratorio della Confraternita delle Stimmate, nonché quelli del Monastero di S. Quirico (tabernacolo sopra la porta e interno dell’edificio). Cosi gli uni come gli altri, certo non sono suoi.

Non dimenticherò infine di dire che a lui si danno anche una parte delle pitture della Cappella di Pietro di Cola delle Casse, nell’antica Chiesa di S. Maria in Campis, non lungi da Foligno, dove avrebbe dipinto insieme al Folignate Pier Antonio Mezzastris; ed una parte di quelli che ancora restano nella ex Chiesa di S. Francesco in Nocera Umbra, ai quali è apposta la data 1498. (177)

Non pochi altri dipinti, che sarebbe qui troppo lungo nominare, vengono attribuiti al nostro Artista, e certamente, senza contare le molte opere di lui che saranno andate perdute, ne esisteranno altre fuori di quelle già ricordate, sfuggite alla paziente ricerca di quanti si occuparono delle opere di Matteo da Gualdo, o perché trasportate in lontani paesi, o perché relegate in luoghi umili e poco conosciuti, o perché attribuiti a qualche altro pittore di affine maniera.

Ad onore e gloria di questo fecondo Artista Gualdese, la Società Operaia di Gualdo Tadino, il 30 Settembre 1877, inaugurava una lapide sulla facciata della Residenza Municipale.

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FONTI D’ ARCHIVIO E BIBLIOQRAFICHE

Abbreviazioni alle Note:

A. N. G. – Archivio Notarile di Gualdo Tadino.

A. C. G. – Archivio Comunale di Gualdo Tadino.

A. C. A. – Archivio Comunale di Assisi.

N. – Notaro

R. – Rogiti

P. – Paginatura del Codice

Q. – Quaderno del Codice

c. – Carta

p. – Pagina

O. c. – Opera già citata

(1) A. N. Q. – R. di Gaspare di Raniero di Corradino dei Ranieri dal 1455 al 1485, c. 228t. e 234 – R. di Luca di Ser Gentile dal 1464 al 1499, Q. VIII, c. 44t.

(2) A. N. G. – R. di Èrcole di Gabriele dal 1505 al 1506, P. I, c. 147; dal 1501 al 1504, P. III , c. 295 – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1484 al 1486, c. 72.

(3) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli, Testamenti dal 1473 al 1527, e. 188 – R. di Gaspare di Raniero di Corradino dei Ranieri dal 1455 al 1485, e. 228t.

(4) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1484 al 1486, c. 31.

(5) A. N. G. – R. di Bernardino di Pietro de Benadattis, 1490, e. 15t.

(6) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1473 al 1527, c. 7 e 218; dal 1489 al 1490, c. 52t; dal 1491 al 1494, c. 237 e 323; dal 1498 al 1499, P. I, c. 67 – R. di Èrcole di Gabriele dal 1492 al 1498, Q. VI, c. 117.

(7) L. BONFATTI: Memorie Storiette di Ottaviano Nelli. Gubbio 1843. p. 13 e p. 25, alla Nota 26.

(8) G. Rosini: Storia della Pittura Italiana. Pisa 1850. Tomo III, p. 124, 125.

(9) G. B. cavalcaselli e J. A. crowe : Storia della Pittura in Italia. Firenze 1902. Vol. IX, Cap. III , p. 96, 98 e seg., 104, 106.

(10) A. Rossi: Prospetto Cronologico della Vita e delle Opere di Matteo da Gualdo. In « Giornale di Erudiziene Artistica ». Perugia 1872. Vol. I, p. 107 e seg.

(11) G. bernardini: Matteo di Pietro da Gualdo nella Mostra di Antica Arte Umbra in Perugia. In « Augusta Perusia ». Perugia 1907. Anno II, N° 4 – Stesso Autore: Le Gallerie Comunali dell’Umbria. In i Supplemento al N° 29 del Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Istruzione Pubblica». Anno XXXIII. Vol. II, pag. 1986, 2007, 2032, 2038, 2046.

(12) G. ugo nazzari: L’Antica Arte Umbra alla Mostra di Perugia. Perugia 1907. p. 39 e seg.

(13) A. LUPATTELLI: Matteo da Gualdo Pittore del XV Secolo. In « Almanacco Illustrato delle Famiglie Cattoliche». Roma 1906. Desclée e Lefebvre. p. 33 – Stesso Autore: Mostra di Antica Arte Umbra a Perugia. In Almanacco suddetto 1908. p. 33.

687 – PARTE TERZA – Miscellanea

(14) U. GNOLI: L’Arte Umbra alla Mostra di Perugia. Bergamo 1908. p. 38 – Stesso Autore: Matteo da Gualdo. Opere sconosciute e opere non sue In « Vita d’Arte». Siena 1909. N» 15.

(15) U. GNOLI: Pittori e Miniatori nell’Umbria. Spoleto, Argentieri, 1923. p. 196 e seg., 354. ‘

(16) M. Labò: La Mostra di Antica Arte Umbra a Perugia. Torino 1907. p. 11 e seg.

(17) U. BIANCHI: L’Esposizione d’Arte Antica a Perugia. In «Italia Moderna». Roma 1907. Fasc. II.

(18) G. CRISTOFANI: La Mostra d’Antica Arte Umbra a Perugia. In «L’Arte». Roma, Anno X, Fase. IV – Stesso Autore: Matteo di Pietro da Gualdo. Dipinti inediti o sconosciuti. Similmente in «.L’Arte». Anno XVI Fasc. I.

(19) A. venturi: Storia dell’Arte Italiana. Vol. VII. Milano 1911. p. 526 , 529, 530 a 532.

(20) A. N. G. – R. di Gaspare di Raniero di Corradino dei Ranieri dal 1455 al 1485, c. 143t.

(21) A. N. G. – R. di Luca di Ser Gentile dal 1466 al 1499, e. 14

(22) A. N. G. – R. di Luca di Ser Gentile dal 1464 al 1499. Q. III, c. 9.

(23) N. e R. della Nota (22), Q. IV, c. 59t.

(24) N. e R. della Nota (20), c. 194.

(25) N. e R. della Nota (20), c. 228t.

(26) N. e R. della Nota (20, c. 234.

(27) N. e R. della Nota (22), Q. VI, c. 5.

(28) A. N. G. – R. di Andrea di Angelo de Benadattis dal 1469 al 1477, c . 35t.

(29) N. e R. della Nota (20), e. 322.

(30) A. C. A. – Liber intr. et exit. Camerarii. A. 1471 et 1472 c. 93 – A. BRIZI: La Rocca d’Assisi. Assisi 1898. p. 327 e Nota

(31) N. e R. della Nota (22), Q. VIII, c. 44t.

(32) N. e R. della Nota (20), e. 350t.

(33) N. e R. della Nota (22), Q. XXXIII, c. 15.

(34) N. e R. della Nota (21), e. 276t.

(35) N. e R. della Nota (22), Q. XIII, c. 52.

(36) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1481 al 1484 e dal 1472 al 1478, P. II, c. 118t.

(37) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1481 al 1484 e dal 1472 al 1478, P. II, c. 136t; dal 1472 al 1497, c. 69.

(38) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1472 al 1497, c. 70t.

(39) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli testa­menti dal 1473 al 1527, c. 6t.

(40) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1473 al 1527, c. 6t e seg.; dal 1481 al 1484 e dal 1472 al 1478, P. II, e. 155t.

(41) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1472 al 1497, c. 82; dal 1481 al 1484 e dal 1472 al 1478, P. II, c. 156 e seg.

(42) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1472 al 1497, c. 84 e seg.; dal 1481 al 1484 e dal 1472 al 1478, P. II, e. 158.

(43) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1472 al 1497, c. 85; dal 1481 ai 1484 e dal 1472 al 1478, P. II, c. 158t.

(44) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1472 al 1497, c. 85t.; dal 1481 al 1484 e dal 1472 al 1478, P. II, c. 159.

(45) N. e R. della Nota (36), P. II, e. 179.

(46) N. e R. della Nota (36), P. II, c. 223t.

(47) N. e R. della Nota (39), c. 12.

(48) N. e R. della Nota (22), Q. XVII, c. 3.

(49) N. e R. della Nota (38), da c. 151 a 152t.

(50) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli del 1479 e 1510, c. 369.

(51) N. e R. della Nota (50), c. 385.

688 – PARTE TERZA – Miscellanea

(52) A. N. Q. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1479 al 1480, c. 393t.

(53) N. e R. della Nota (52), c. 423.

(54) N. e R. della Nota (52), c. 522.

(55) N. e R. della Nota (52), c. 525.

(56) A. N. Q. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli del 1496 e 1480. c. 557t.

(57) N. e R. della Nota (39), e. 28t.

(58) A. N. Q. – R. di Bernardino di Gaspare Umeoli dal 1472 al 1490, c. 120.

(59) N. e R. della Nota (36), P. I, c. 11.

(60) N. e R. della Nota (36), P. I, c. 14t.

(61) N. e R. della Nota (36), P. I, e. 19t.

(62) N. e R. e c. della Nota (58).

(63) N. e R. della Nota (39), c. 28t.

(64) N. e R. della Nota (36), P. I, c. 39.

(65) A. N. G. – R. di Pierantonio di Ser Giovanni Durante dal 1472 al 1487, c. 48t. e 49.

(66) N. e R. della Nota (36), P. 1, c. 84t.

(67) N. e R. della Nota (65), c. 63t.

(68) N. e R. della Nota (36), P. 1, e. 153t.

(69) N. e R. della Nota (65), c. 49 e 63t.

(70) N. e R. della Nota (36), P. 1, c. 21H.

(71) N. e R. della Nota (36), P. 1, c. 258t.

(72) N. e R. della Nota (4), c. 10.

(73) A. N. G. – R. di Bernardino di Gaspare Umeoli dal 1472 al 1535 c. 161t.

(74) N. e R. della Nota (4), c. 30.

(75) N. e R. della Nota (4), c. 42t.

(76) N. e R. della Nota (4), c. 131.

(77) N. e R. della Nota (4), c. 132t.

(78) N. e R. della Nota (4), c. 134.

(79) N. e R. della Nota (4), c. 164.

(80) N. e R. della Nota (4), c. 164t.

(81) N. e R. della Nota (4), c. 180.

(82) N. e R. della Nota (4), c. 181t.

(83) N. e R. della Nota (4), c. 243t.

(84) N. e R. della Nota (4), c. 246.

(85) N. e R. della Nota (4), c. 248.

(86) N. e R. della Nota (4), c. 252t.

(87) N. e R. della Nota (4), c. 264t.

(88) A. N. G. – R. di Vincenzo di Piero dal 1482 al 1488, Q. V. c. 36.

(89) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1487 al 1489, e. 97.

(90) N. e R. della Nota (89), e. 130 e 130t.

(91) A. N. Q. – R. di Pierantonio di Ser Giovanni Durante dal 1472 al 1494 e del 1507, P. 11, e. 37.

(92) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1489 al 1490, c. 47t.

(93) N. e R. della Nota (92), c. 52t.

(94) N. e R. della Nota (92), c. 53.

(95) N. e R. della Nota (92), c. 65t.

(96) N. e R. della Nota (92), c. 124.

(97) N. e R. della Nota (92), c. 178.

(98) N. e R. della Nota (5), c. 70.

(99) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1491 al 1494, c. 94t; dal 1472 al 1497, c. 200.

(100) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1491 al 1494, c. 119.

(101) N. e R. della Nota (100). c. 123.

(102) A. N. G. – R. di Èrcole di Gabriele dal 1470 al 1496, c. 41.

689 – PARTE TERZA – Miscellanea

(103) N. e R. della Nota (100), c. 237.

(104) N. e R. della Nota (100), c. 238.

(105) N. e R. della Nota (100), c. 263.

(106) N. e R. della Nota (100), c. 281.

(107) N. e R. della Nota (100), c. 293.

(108) N. e R. della Nota (100), c. 321.

(109) N. e R. della Nota (100), c. 323.

(110) A. N. G. – R. di Ercole di Gabriele dal 1492 al 1498, Q. V e 4t

(111) N. e R. della Nota (110), Q. VI, e. 111t. .

(112) N. e R. della Nota (110), Q. VI, c. 117.

1494(113) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal al 1495, c. 33t.

(114) N. e R. della Nota (39), c. 117.

(115) A. N. G. – R. di Èrcole di Gabriele dal 1493 al 1496, Q. IX e 1.

(116) N. e R. della Nota (113), c. 148 e seg., 153t. 154, 176.

(117) N. e R. della Nota (39), c. 122.

(118) N. e R. della Nota (113), c. 157t, 158.

(119) N. e R. della Nota (113), c. 190.

(120) N. e R. della Nota (113), c. 202.

(121) A. N. G. – R. di Èrcole di Gabriele dal 1494 al 1503, e. 183 e 184-dal 1493 al 1496, Q. VIII, c. 100.

(122) N. e R. della Nota (56), c. 12.

(123) N. e R. della Nota (115), Q. X, c. 116t.

(124) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli del 1496 e 1480, c. 34.

(125) N. e R. della Nota (124), c. 35.

( 126) A. N. G. – R. di Èrcole di Gabriele dal 1493 al 1496, Q. XI, c. 165t. dal 1494 al 1503, c. 149t.

(127) N. e R. della Nota (115), Q. XII, c. 224t.

(128) N. e R. della Nota (56), c. 73.

(129) N. e R. della Nota (56), c. 82t.

(130) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli del 1497, c. 65.

(131) N. e R. della Nota (130), c. 137t.

(132) N. e R. della Nota (110), Q. VIII, c. 11t.

(133) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1498 al 1499, P. I, c. 49.

(134) N. e R. della Nota (133), P. I, c. 67.

(135) N. e R. della Nota (133), P. II, e. 4t.

(136) A. N. G. – R. di E rcole di Gabriele dal 1497 al 1501, Q. V, c. 45.

(137) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli del 1497 e 1500, Q. II, c . 20.

(138) N. e R. della Nota (136), Q. Vili, c. 188t.

(139) N. e R. della Nota (136), Q. IX, c . 7t.

(140) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1501 al 1503, c. 47.

(141) A. N. G. – R. di Èrcole di Gabriele dal 1501 a! 1504, P. II, c. 23 e 23t.

(142) N. e R. della Nota (141), P. II, c. 87t.

(143) N. e R. delia Nota (141), P. II, c. 151.

(144) A. N. G. – R. di E rcole di Gabriele dal 1494 al 1503, e. 298.

(145) N. e R. della Nota (141), P. III, c. 9t.

(146) N. e R. della Nota (141), P. III, c. 57.

(147) N. e R. della Nota (39), c. 188.

(148) A. N. G. – R. di E rcole di Gabriele dal 1504 al 1506, Q. IV, c. 13t.

(149) N. e R. della Nota (148), Q. IV, c. 23t.

(150) N. e R. della Nota (148), Q. IV, c. 24.

(151) N. e R. della Nota (148), Q. I, c. 187.

(152) N. e R. della Nota (148), Q. I, c. 2031.

(153) N. e R. della Nota (148), Q. I, c. 209t.

(154) N. e R. della Nota (148), Q. I, c. 207, 211, 215, 218, 232t.

690 – PARTE TERZA – Miscellanea

(155) A. N. G. – R. di Ercole di Gabriele dal 1505 al 1506, P. I, da c. 299 a c. 301 e da c. 304t a c. 307t. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1491 al 1494, c. 9t e R.del 1507, c. 16 – A. C. G. – Raccolta delle Pergamene, Secolo XVI, Perg. N° 2.

(156) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1504 al 1505, c. 82t.

(157) A. N. G. – R. di E rcole di Gabriele dal 1505 al 1506, P. I, c. 112.

(158) N. e R. della Nota (156), c. 120.

(159) A. N. G. – R. di Pierantonio di Giovanni Durante dal 1503 al 1507, c. 90.

(160) N. e R. della Nota (157), P. I, c. 233.

(161) N. e R. della Nota (39), e. 218.

(162) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli del 1507, c. 7.

(163) N. e R. della Nota (39), c. 218t.

(164) A. N. G. – R. di Piersante di Andrea de Benadattis dal 1502 al 1511, c. 88.

(165) N. e R. della Nota (91), P. I, c. 19.

(166) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli del 1508, c. 109.

(167) N. e R. della Nota (164), c. 146.

(168) A. N. G. – R. di Piersante di Andrea de Benadattis, Atti sparsi appartenenti al primo trentennio del secolo XVI, c. 62.

(169) N. e R. della Nota (39), c. 314t.

(170i A. N. G. – R. di Gregorio di Pietro Bartucci, testamenti dal 1507 al 1536, da c. 163t a c. 167.

(171) M. guardabassi -. Indice-Guida dei Monumenti pagani e cristiani dell’ Umbria. Perugia 1872. p. 74 e seg.

(172) R. Massei: Alcuni affreschi di Matteo da Gualdo scoperti recentemente nelle valli del Monte Pennino. In « Rassegna d’Arte ». Milano. Anno VIII, 1908, n° 12 – R. Guerrieri: Un Affresco ignorato di Matteo da Gualdo a Colle Aprico. In «Augusta Perusia». Perugia, Anno II, 1907, N° V-VI.

(173) F. MASON PERKINS: In «Rassegna d’Arte». Milano. Anno VII, 1907, p. 191.

(174) C. RAMELLI: Lettera per le Nozze Nisi-Ottoni. Fabriano. 9 Febbraio 1849 – A. ANSELMl: Un Trittico di Matteo da Gualdo a Coldellanoce. In « Numero Unico pel IV Centenario della morte di P. Collenuccio in Coldellanoce». Firenze 1904 – Crowe e CAVALCASELLE : O. c.

(175) N. e R. della Nota (39), c. 21.

(176) A. ROSSI: O. c.

(177) Berenson: Central Italian. Painters. 1909. 198 – schmarsow: Fe stschrift zu Ehren des Kjinsthistorischen Instituts in Florenz. 1897. 189 – A. ROSSI: O. c. – Catalogo della Mostra d’Antica Arte Umbra in Perugia. Pe­ rugia, Tip. Bartelli, 1907. p. 60, 61, 63 – A. LUPATTELLI : Matteo da Gualdo Pittore del XV Secolo. In « Almanacco Illustrato delle Famiglie Cattoliche ». Roma 1906. Desclée e Lefebvre. p. 38 – Frenfanelli CIBO: Niccolò Alunno e la Scuola Umbra. Roma 1872. Cap. II – Catalogo dei quadri esistenti nella Pinacoteca Vannucci in Perugia. Perugia 1907.

(178) A. N. G. – R. di Piero di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli dal 1481 al 1484 e dal 1472 al 1478, P. I, c. 211t. c. 258t.; dal 1472 al 1497, c. 82; del 1497, c. 26 e 67t.

691 – PARTE TERZA – Miscellanea

Bernardo di Girolamo di Maestro Matteo.

Completamente ignota, sino ad oggi, fu la vita di questo Artista Gualdese, del quale, solo dopo lunghe e pazienti ricerche nei nostri Archivi, ho potuto ricostruire la personalità. Bernardo fu figlio di Girolamo, a sua volta figlio di Matteo di Pietro, ambedue Pittori e Notari Gualdesi, dei quali abbiamo già a lungo narrato la vita e descritte le opere. Anche Bernardo, come il padre e come il nonno, fu Pittore e Notaio e fu anche Giudice del Comune di Gualdo. Di lui esistono ancora, nel nostro Archivio Notarile Antico, tre volumi di Rogiti che vanno dall’anno 1515 al 1531. Nel primo di questi tre volumi, contenente Atti dal 1515 al 1529, nel foglio iniziale, il Notaio rogante, da sé stesso si nomina infatti come Bernardus olim Ser Hyeronimi magistri Matthei pictoris de Gualdo. Con le stesse parole, è anche indicato in vari Istrumenti che erano stati stipulati, dietro sua commissione, da altri Notari Gualdesi per affari che lo riguardavano. Ad esempio, in un volume contenente Rogiti di Gregorio Bartucci dal 1519 al 1526, a carta 38t, il nostro Bernardo è come sopra chiamato Ser Bernardus Ser Hieronimi magistri Mathei pictoris de Gualdo. Consimili Rogiti, riguardanti cioè gli affari privati di Bernardo di Girolamo, sono assai frequenti nell’Archivio suddetto e consistono in ricevute di pagamento, mutui di denaro, testimonianze, liti, arbitrati, riconoscimenti di debiti e crediti, vendite e acquisti di terreni, specie nella Parrocchia di Crocicchio, dove possedeva la maggior parte dei suoi beni, etc. Solo alcuni di questi Atti noi citeremo, perché assai utili alla ricostruzione della vita del nostro Pittore :

Anzi tutto, un suo testamento stipulato il 4 Agosto 1528, nella Rocca di Gualdo dove trovavasi imprigionato ed infermo. In tale Atto, figurano la madre Fina di Nicolo di Angelo di Nicolo di Mattiolo alias Thiani, la moglie Silvia di Mariotto di Matteo Lori, la sorella Meschina e la cugina Francesca di Francesco, alle quali fa dei legati e che abbiamo già tutte nominate nella Biografia del di lui nonno Matteo di Pietro Pittore. Ma vi sono ricordati anche due nuovi personaggi e cioè Girolamo e Nicolò, figli minorenni di Bernardo, da costui istituiti suoi eredi universali.

Per quali motivi egli si trovasse in quel tempo detenuto nella Rocca Gualdese ci è ignoto, ma è da supporre che lo fosse per offese arrecate all’ Uditore del Card. Antonio Del Monte, Governatore e Legato a latere di Gualdo. Infatti, in un successivo Atto stipulato nella Cappella della Rocca stessa il 2 Settembre e cioè poco dopo il Testamento, si legge che de commissione del Cardinale suddetto, ed in conseguenza di Breve Apostolico, Bernardo compariva allora davanti a Messer Egidio Falcetta da Cingoli, Uditore in Gualdo del Card. Del Monte, al quale prometteva, per essere liberato dalla prigionìa, di presentarsi ai piedi del Pontefice, entro i prossimi

692 – PARTE TERZA – Miscellanea

futuri cinquanta giorni, e prima dì tale epoca, davanti al Cardinale stesso o dovunque costui ordinasse. Inoltre giurava di non più offendere o fare offendere dai suoi parenti ed affini, il su nominato Uditore, i suoi famigliari, i suoi servi e la sua curia, sotto pena di mille ducati d’oro, nominando infine nove suoi fidejussori a garanzia del mantenimento di queste promesse, le quali però non potè Bernardo portare ad effetto entro il tempo stabilito, ed infatti in data 15 Ottobre, lo vediamo rinnovare Pubblicazione or ora descritta.

Il 7 Decembre 1532, prossimo a morte, dettava il suo secondo testamento, nel quale più non vengono nominati i suoi due figli Girolamo e Nicolò, che erano nel frattempo indubbiamente defunti. In loro vece, designava come sua erede universale, la Confraternita del Crocefisso, avente sede in Gualdo nella Chiesa di S. Agostino. Tra gli obblighi che ad essa faceva, eravi anche questo: Che in tale Chiesa i Confratelli del Crocefisso, avrebbero dovuto far costruire una tomba per il Testatore ed a sue spese, ponendo poi su questa una lapide con iscrizione che ricordasse la sua donazione alla Confraternita. Al testamento fanno seguito quattro codicilli, l’ultimo dei quali è in data 13 Decembre. Abbiamo poi un altro Atto Notarile del 16 Decembre, riferentesi a discrepanze e discordie sorte in seno alla Confraternita del Crocefisso, subito dopo la morte di Bernardo, a proposito del suo seppellimento nella Chiesa di S. Agostino. è quindi chiaro che egli decedette tra il 13 e il 15 Decembre del 1532, lasciando la vedova Silvia e nessun discendente. La Confraternita eseguì l’ultima volontà del defunto, e l’anno seguente, sulla sua tomba fece infatti apporre una lapide con la se­ guente iscrizione: BERNARDO PRO FISCALI ROMAE CAUSIDICO XPI CRUCIFIXl CONFRATERNITAT. CUM DOTE FUNDATORI CONFRATERNI TALES BERNARDI ORDINE ET IMPENDIO EX TESTAMENTO B. M. P. vixit ANN. XXXIII. MENS. X. DIEB. VII. MDXXXIII. Questa lapide rimase colà dove fu collocata, nella Chiesa di S. Agostino, sino ai nostri tempi, e trovavasi murata sulla parete della seconda Cappella che si incontrava a sinistra, entrando dall’ingresso principale del Tempio. Era anzi collocata a destra di chi riguardava l’Altare di detta Cappella, che era appunto quella ove aveva sede la Confraternita del Crocefisso, ed in quel luogo per certo fu sepolto Bernardo. Nel 1922, essendo stata chiusa al culto la Chiesa di S. Agostino, ed adibita ad usi profani, detta lapide fu trasportata nella Cattedrale di S. Benedetto e murata, con altri ricordi lapidei, sulla parete di un corridoio di servizio che immette nella Sagrestia e quivi ancora si trova.

Ma ben considerando tutto quanto sopra abbiamo detto, questa iscrizione da origine ad un assai strano enigma nella vita del pittore Bernardo. Già dicemmo, sulla base di indiscutibili documenti, che di lui, che esercitò anche il notariato, esistono nel nostro Archivio Notarile, tre volumi di Rogiti i quali cominciano con l’anno 1515. Sappiamo che morì nel Decembre del 1532. La lapide suddetta ci attesta che si spense a trentatrè anni e dieci mesi di età. Da questi

693 – PARTE TERZA – Miscellanea

dati precisi e inconfutabili, dobbiamo dedurre che egli nacque nei 1498 ed avrebbe perciò rogato, come Notaio, i suoi primi Atti a diciasette anni di età. Ciò sembra, a prima vista, se non impossibile assai difficile, ma noi dobbiamo considerare che, in quell’epoca, sia il Pontefice, sia gli Imperatori, sia i Principi, usavano di concedere, tra l’altro, ai loro protetti, anche il privilegio di potere creare i Notari. Una tale concessione, per solito, era fatta ai Cardinali Legati, ai Vescovi, ai Conti Palatini, ai Feudatari, ai Cavalieri di alcuni Ordini. Più che una concessione onorifica, trattavasi di un vero e proprio beneficio, poiché a costoro, ogni investituri, di notariato, era infatti apportatrice di lucro, ed è quindi facile immaginare che non si fosse molto scrupolosi nel creare i Notari, ai quali non si richiedevano, come oggi, speciali titoli e diplomi accademici. Per di più i Notari si tramandavano spesso questo officio quasi in via ereditaria, e ne abbiamo un esempio nella famiglia di cui ci stiamo occupando: Matteo di Pietro, il celebre Pittore, fu Notaio, lo furono similmente il suo figlio Girolamo e il suo nepote Bernardo. Nel nostro Archivio Notarile, è assai comune il fatto di trovare Notai, per due o tre generazioni, in una stessa discendenza. Anzi, a tale proposito noteremo, che in quell’epoca, negli Statuti delle Corporazioni delle Arti, e così anche in quelli dei Notari, era generalmente prescritto, che quando il figlio seguiva la stessa professione del genitore, per l’esercizio di quest’ultima, poteva essere inscritto nella corrispondente matricola, in età molto minore di quella statuita per chi non trovavasi in tali condizioni. Per i suddetti motivi, non dobbiamo quindi meravigliarci, se Bernardo, seguendo come per la pittura anche per il notariato le orme del genitore e dell’avo, a diciasette anni funzionasse come Notaro. Volendo questo negare, bisogna allora ammettere, (cosa invero poco probabile), che o chi dettò l’epigrafe o chi l’incise sulla lapide sepolcrale, abbia, senza accorgersene, commesso un errore, scrivendo cioè come età di Bernardo alla sua morte, la cifra Romana XXXIII, invece di un’altra maggiore.

Certo è però che Bernardo decedette assai giovane, prima ancora di sua madre, e così si spiega anche l’estrema rarità delle sue opere pittoriche. Due sole io ne conosco da lui firmate e credo che non ne esistano altre, ma bastano questi due suoi dipinti assai interessanti, per dedurne che egli fu uri seguace dell’arte di Luca Signorelli da Cortona, il quale di dieci anni appena lo precedette nella morte, e che nella maniera di dipingere di questo artista Gualdese, non fu nemmeno estraneo qualche influsso del pittore Assi sano Dono di Lorenzo Doni.

La prima di queste due opere consiste in una tavola dipinta ad olio, delle dimensioni di Cm. 115×151, che in basso e quasi nel mezzo, ha un cartellino con la firma « Bernard. Hyeronim. Gual den. pingebat ». La stessa tavola appare in qualche parte restaurata e ritoccata e rappresenta la nota leggenda della Madonna del Soccorso: Vi si vede cioè una madre che, infastidita dal pianto e dall’irrequietezza del bambino lattante che tiene in grembo, si lascia

694 – PARTE TERZA – Miscellanea

forse sfuggire l’imprecazione: Va al Diavolo ! e questo infatti si vede apparire immediatamente a lei davanti per rapirgli il figliuolo. Atterrita la donna invoca allora in suo soccorso la Vergine, che attorniata da uno stuolo di quattordici Angeli e Serafini, circonfusa di nuvole, ratta scende dal cielo e sopravviene in suo soccorso, sostenendo con il braccio sinistro il Divino Infante, e con il destro un bastone, con il quale discaccia il Demonio. Sullo sfondo del quadro si ammira un assai grazioso paesaggio, attraversato da un fiume con barche e cosparso di colline, di ville, d’alberi e di viandanti; più, da un lato, a sinistra di chi riguarda, una montaguola dirupata, presso la di cui vetta, in un antro, vedesi la solita raffigurazione di S. Girolamo inginocchiato davanti alla croce. La presenza di questo Padre della Chiesa, patrono dei Sacerdoti, potrebbe far sorgere il dubbio che fosse stato appunto un prete il committente del quadro.

Qui giova notare, che la su descritta raffigurazione della Madonna del Soccorso, trovasi esclusivamente in quadri appartenenti a Chiese dell’Ordine Agostiniano e nelle sole provincie delle Marche e dell’Umbria o poco oltre i loro confini, mai altrove, e di questi quadri, che sono in piccolo numero, ben si conoscono oggi le sedi. Il quadro di Bernardo di Girolamo, dovette perciò essere stato dipinto, molto probabilmente, per la nostra ex Chiesa di S. Agostino, la quale, come si è visto, era da lui prediletta, e da dove sarebbe poi emigrato in epoca imprecisata. Certo è che la sua esistenza, fu per la prima volta resa nota dal Mundler, il quale nel 1861 lo vide in Roma nel magazzino di un Antiquario. Nella fine di quello stesso secolo, lo si ritrova invece a Vienna nella Collezione del Dott. Buberl, dalla quale passò poi all’altro collezionista Viennese Zatzka. Nella primavera del 1923, era all’asta in una vendita effettuata nel Dorotheum di Vienna ed ivi fu acquistato dal Dott. Franz Gruener di Innsbruck, dove probabilmente ancora si trova.

L’altra e seconda opera firmata da Bernardo, consta di un grande quadro in tela, (m. 2xm. 1.40) un di esistente su di un Altare della Chiesa della Morte, in Nocera Umbra. Rappresenta, in basso, una campagna nel centro della quale trovasi la città di Nocera, con i suoi principali edifici, le sue mura e le sue torri. Al di sopra, sospesa in aria, tutta circondata da nubi, tra le quali volteggiano quindici Angeli e Cherubini, vedesi una maestosa figura di S. Barbara, con il capo cinto di aureola, con nella mano destra una palma e nella sinistra un libro chiuso. Degli Angeli che contornano questa figura, i due superiori sono in atto di incoronarla, uno che trovasi sul suo lato sinistro abbraccia un fascio di giavellotti, un altro che sta alla sua destra, sorregge un’alta torre. In basso, a sinistra di chi riguarda il quadro, in un cartellino, leggesi: Pingebat Bernardus …. 1523. La parola oggi scomparsa era, senza alcun dubbio, o Hyeronimi o Gualdensis. La palma che la santa martire reca in mano, è il simbolo del suo martirio, il libro la Didachè (dottrina della Chiesa) o il volume dei S.S. Evangeli, la torre e i giavellotti portati dai due Angeli, alludono alle rocche, alle fortificazioni ed alle artiglierie

695 – PARTE TERZA – Miscellanea

che, come è noto, hanno appunto in S. Barbara la loro venerata patrona. A Bernardo di Girolamo, vanno poi, senza alcun dubbio, attribuite altre tre tele esistenti nella nostra Città: La prima di esse, appartenente alla Confraternita della Trinità, misura m. 1.89 x 0.94 e rappresenta, come figura principale, la Madonna eretta, con le mani congiunte in atto di preghiera ed incoronata da due Angeli. Ai suoi piedi vedonsi due folti gruppi di devoti, inginocchiati ed oranti, e cioè alla sua destra gli uomini, tutti vestiti con il sacco rosso che usavano indossare i Confratelli della Trinità ed alla sua sinistra le donne. Sopra la Madonna, altri due Angeli tengono teso tra loro un nastro su cui è scritto « Ave Maria Gratia Plena Dominus Tecum». Superiormente a tutto ciò, trovasi il Padre Eterno sorreggente con la mano destra il Globo e con la sinistra benedicente. Il quadro ha per sfondo il solito vasto paesaggio, con vivaci scene di vita campestre, con ville e castelli, boschi, pastori, animali, etc. su di una rupe scoscesa, come nel quadro di Innsbruck, osservasi S. Girolamo orante inginocchiato davanti al Crocifisso. Questa tela è assai deperita ed appare trascuratamente ed affrettatamente dipinta dall’Artista.

Le due tele restanti, sono di piccole dimensioni (cm. 62 x cm. 86) e rappresentano l’una S. Caterina incoronata da due Angeli ed avente ai suoi piedi una folla di donne inginocchiate ed oranti; l’altra S. Agostino che ha similmente ai piedi un gruppo di devoti, ma di sesso maschile, anch’essi in ginocchio e in atto di preghiera. Queste due tele, oggi conservate nella Pinacoteca Comunale di Gualdo Tadino, vi sono pervenute dalla piccola Chiesa di S. Andrea, attualmente soppressa ed adibita ad usi profani, la quale trovavasi non lungi dalla Porta Civica di S. Benedetto. Tale Chiesuola, apparteneva un tempo alla Confraternita del Crocifisso, alla quale, come si è detto, Bernardo lasciò morendo tutti i suoi beni, e che aveva la sua sede principale e l’altare nella Chiesa di S. Agostino. . In quest’ultima esisteva anche una Confraternita con Altare sotto il titolo di S. Caterina, e così si spiega appunto la raffigurazione di S. Agostino e di S. Caterina, nelle due tele dipinte da Bernardo per la Confraternita da lui prediletta.

Dalla descrizione dei quadri suddetti, appare chiaro che i di stintivi pittorici di Bernardo di Girolamo consistono nella presenza di gruppi di devoti oranti ai piedi della figura principale, nell’incoronazione di questa figura per opera di Angeli e nell’esistenza costante, come sfondo del quadro, di un vasto paesaggio, tra i dettagli del quale sta la tipica raffigurazione di S. Girolamo.

Diremo infine che lo Gnoli, nella sua vasta Opera « Pittori e miniatori nell’Umbria», scritta quando ancorasi ignoravano gli estremi della vita del pittore Bernardo, suppose potersi attribuire a costui, anche un affresco esistente entro una nicchia, sulla facciata della Chiesa di S. Maria dei Raccomandati, affresco che già descrivemmo nel Capitolo riferentesi alla Chiesa stessa. Ma questo dipinto che appare datato con il motto « Sedente Iulio II», non può essere di Bernardo, perché Papa Giulio II, essendo morto nel 1513,

696 – PARTE TERZA – Miscellanea

in quell’anno Bernardo aveva circa quattordici anni di età. Certo è però che questo affresco, per i suoi caratteri, appare come intermedio tra l’arte di Bernardo e quella del suo nonno, il celebre pittore Matteo. Non sarebbe quindi da escludere che possa essere invece opera di Girolamo, figlio appunto di Matteo e padre di Bernardo che, come si disse, fu anch’esso pittore. Ma è questa una semplice ipotesi, non controllabile, poiché di Girolamo, già lo notammo, non conosciamo alcun’opera firmata. (1)

Pittori Gualdesi minori.

Dobbiamo ricordare anzitutto, in questo Capitolo, VALERIANO VITTORI, vissuto tra il XVI e il XVII secolo. Fu allievo del Pittore Eugubino Felice Damiani e seguì la maniera del suo Maestro. (2)

E nomineremo anche un altro Gualdese e cioè un INDACO MASSICCI, che ci è noto sol perché, nel 1526, dipinse in affresco alcuni Stemmi ed un Crocefisso, nella sala del Consiglio nel Palazzo Comunale di Gualdo e per aver eseguito un rilievo dei confini del territorio Gualdese dalla parte della montagna. Egli, per certo, fu parente di un Ruggero di Cosenzio Massicci, Notare, i di cui rogiti, dal 1557 al 1580, esistono ancora nel nostro Archivio Notarile. (3)

Accennerò infine, a proposito dell’arte pittorica in Gualdo, come quasi tutti coloro che scrissero sulle memorie artistiche della nostra città, tra i quali il Moroni nel suo Dizionario di Erudizione, stabiliscono Gualdo come patria di un altro egregio Pittore, chiamato AVANZINO NUCCI, che visse tra il cadere del secolo XVI e il nascere del XVII e che trascorse in Roma la massima parte della sua vita di Artista. Come prova dell’origine Gualdese del Nucci, alcuni di essi, ad esempio Mariano Guardabassi nel suo Indice-Guida dei Monumenti Pagani e Cristiani dell’Umbria (Perugia 1872), citano un grande quadro in tela, rappresentante la Madonna del Rosario in compagnia di alcuni Santi e circondata dalle solite scene dei quindici Misteri, il quale trovavasi nella Chiesa di S. Benedetto in Gualdo e portava la firma: Avansinus Nuccius Gualdensis pingebat Romae. A. D. 1620. Detto quadro esiste ancora nella Chiesa suddetta, ma ridotto quasi a brandelli. Vi

(1) Arch. Notarile G ualdese: Rogiti di Prospero di Pietro Muscelli dal 1527 al 1528, c. 127; dal 1528 al 1529, c . 60; del 1535, c. 135t e Rogiti di Gregorio Bartucci del 1524, e. 85, 106t; del 7527, c. 217t; del 1528. c . 14, 16t, 103t, 152, 438 a 442, 493, 585t, 588; dal 1529 al 1531, c. 75, 161; dal 1519 al 1526, c . 38t, 93, 96t, 129t; dal 1507 al 1536, c: 163t a 167; dal 1532 al 1536, c. 24t, 27, 29t, 69 – R. VISCHER: Luca Signorelli. Leipziz 1879. pag. 326 – O. MUNDLER : In Zeitschrift fùr bildenden Kilnst. Vol. II, pag. 299 (anno 1867) – U. Gnoli: Pittori e Miniatori nell’Umbria. Spoleto 1923-1925. pag. 349 – A. BRIGANTI: Le Corporazioni delle Arti nel Comune di Perugia. Perugia 1910. pag. 47 e seg.

(2) O. LUCARELLI: Memorie e Guida Storica di Gnbbio. Città di Castello 1888. pag. 449.

(3) Arch. Comunale di Gualdo; Bollettario del 1559,

697 – PARTE TERZA – Miscellanea

si leggono però tuttavia, con lamassima chiarezza, le parole: «… us Nuccius Gualdens.pingebat.. .».

D’altra parte, un gran numero di scrittori di Storia dell’Arte in Italia, ad esempio Giovanni Baglione nelle sue Vite dei Pittori, Scultori e Architetti dal 1572 al 1642 (Roma 1642); Giacomo Mancini nelle Memorie di alcuni Artefici del Disegno (Perugia 1832); Stefano Ticozzi nel Dizionario degli Architetti, Scultori e Pittori (Milano 1832j; Luigi Pascoli nelle Vite dei Pittori, Scultori e Architetti Moderni (Roma 1736), Luigi Lanzi nella Storia pittorica d’Italia (Firenze 1834) ed altri, indicano invece Città di Castello, come luogo nativo del Nucci. Non vi è alcuna ragione per non dover prestar fede a questi ultimi, alcuni dei quali, come il Baglione, può dirsi scrivessero quando ancora il Nucci era in vita. Ma come allora si spiega la firma apposta dal Nucci sulla tela della nostra Chiesa di S. Benedetto? Non è il caso di pensare ad un omonimo e coetaneo Pittore Gualdese, poiché ce ne sarebbero indubbiamente restate altre tracce nel luogo nativo; molto meno si può credere ad una firma apocrifa, poiché l’Autore del falso avrebbe anzi avuto interesse a non apporvela errata. La più probabile spiegazione potrebbe essere la seguente: Che il Nucci, avendo ricevuto per qualche sua speciale benemerenza la cittadinanza Gualdese, volle, in una sua opera destinata a Gualdo, firmarsi con tale qualifica. Oppure potrebbe anche essere che il Nucci, di famiglia Gualdese, fosse nato solo occasionalmente a Città di Castello, durante qualche peregrinazione dei genitori, e perciò dipingendo poi in Gualdo quella sua tela, fossegli piaciuto di ricordarvi la sua origine gentilizia. Infatti, negli archivi di Città di Castello, sin verso il Cinquecento, non vi è traccia dell’esistenza di una famiglia Nucci in quella città. Ma non sono queste che mie semplici supposizioni, non comprovate da alcun documento, tradizione o notizia. Giova ad ogni modo aver ricordato qui il Nucci, se non altro, per il fatto che dipinse qualche pregevole quadro, anche per le Chiese della nostra Città. Infatti, una sua tela rappresentante un Miracolo di S. Diego, esiste nella Pinacoteca Comunale di Gualdo Tadino, con la firma: Avanzinus Nuccius pingebat Romae 1627.

Similmente il Guardabassi nel suo Indice-Guida dei monumenti pagani e cristiani dell’Umbria. Perugia 1872. Pag. 349, scrisse che nella Chiesa di S. Maria di Pietra Rossa presso Trevi, internamente, su di un’estremità della parete sinistra, esiste un grande affresco, rappresentante l’Annunciazione, firmato: Valerius de Mutis de Valido pinxit, con la data 1477. Attualmente, nell’affresco in discorso, se è ben visibile il nome del Pittore, al contrario non è più possibile leggere la parola Valido, per lo scoloramento di quei caratteri. È però completamente sconosciuto, un Artista Gualdese di questo nome, ed io ho ragione di credere, che il Guardabassi, abbia nel dipinto erroneamente letto Valido in luogo di Fulgineo e che Valerio de Mutis, sia invece un concittadino e un parente dei due noti pittori Folignati, Feliciano e Alessio de Mutis che, vissuti tra la fine del XV e il principio del XVI secolo, lasciarono qualche loro affresco, il primo nei dintorni della nativa Foligno e l’altro a Spello.

698 – PARTE TERZA – Miscellanea

La Famiglia Durante.

Non è invero frequente il caso di una famiglia, che per tre successive generazioni, abbia prodotto individui che emersero nelle lettere, nella giurisprudenza e nelle scienze, come vedremo essere avvenuto per la Famiglia Durante, che nel secolo XVI abitava in Gualdo e dei cui membri più illustri, dopo laboriose ricerche, ho potuto raccogliere abbondanti notizie.

I.

PIERO DURANTE. – Nell’archivio Notarile Antico di Gualdo Tadino, esistono quattro volumi di Rogiti, dall’anno 1472 al 1507, appartenenti ad un Notajo chiamato Piero Antonio Durante e, senza dubbio, costui è il Piero Durante, conosciuto nella Bibliografia dei Poemi Eroici e di cui mi accingo a parlare.

Della sua vita sappiamo solo, che il padre, ancora vivente nel 1473, si chiamava Giovanni ed il nonno Antonio e che ebbe due figli, Magio e Massimino che, come il padre, furono Notari in Gualdo, esistendo in questo Archivio Notarile, del primo, alcuni Rogiti che vanno dal 1527 al 1551, e del secondo pochi altri dal 1524 al 1525. Ma la notorietà di Pier Durante, non è dovuta certo alla sua qualità di Notajo, bensì al fatto che egli fu autore di un interessante poema cavalieresco chiamato Leandra.

Detto poema, appartenente al Ciclo Carolingio, ha grande importanza bibliografica, essendo oggi divenuto rarissimo, nonostante le molteplici edizioni, che nei secoli XVI e XVII ne furono fatte, ma è anche degno di nota perché, quasi coevo del Morgante Maggiore di Luigi Pulci e dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, precede l’Orlando Furioso dell’Ariosto che, con gli altri due poemi, forma la sintesi della nostra fiorita Epopea Cavalieresca del Cinquecento. E’ inoltre da notarsi il fatto, che la Leandro fu scritta in sesta rima, nel qual metro pochissimi poeti si esercitarono. Do qui appresso il titolo del libro di Pier Durante, come risulta dalla prima edizione che di essa si conosce, edizione rarissima, un esemplare della quale esiste nella Biblioteca Trivulziana di Milano:

Libro chiamato LEANDRA nel qual tracta delle battaglie et gran facti de li baroni di Francia, composto in sexta rima, opera bellissima et dilecteule quanto alchuna altra opera di battaglia sia mai stata stampata. Opera nova. Con gratia et privilegio.

Segue una xilografia, con la quale termina la prima facciata, mentre la seconda è in bianco. La prima facciata del secondo foglio porta poi scritto :

Incomenza el libro dicto LEANDRA. Qual tracta de le battaglie e gran facti de li Baroni di Francia. Et principalmente de Rinaldo et de Orlando. Retracto de la verace Cronica di

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Turpino Arcivescovo parisiense. Et per me maestro Pier Durante da Gualdo composto in sexta rima.

In fine al libro si legge: Impresso in Venetia per Jacopo da Lecho stampatore nel 1508 a dì 23 del mese di Marzo con gratia et privilegio. (In 4°, con xilografie, carattere rotondo in due colonne, con 146 fogli e 24 canti numerati e con lettere xilografiche al principio dei canti).

A questa prima edizione ne seguirono, con varie modificazioni al titolo primitivo, molte altre tra le quali sono note ai Bibliografi le seguenti :

Impresso in Venetia per Alessandro di Bindoni nel 1517 a dì 5 del mese di Luio. (In 4°, carattere rotondo a due colonne, con xilografie. Esisteva nella Biblioteca Reale di Parigi). – Impresso in Vinegia nelle case di Guillielmo da Fontaneto 1521 a di 16 Decem brio. (In 4°, carattere rotondo a due colonne. Una copia fu posseduta dal Melzi). – Stampato in Vinegia nelle case di Guilielmo da Fontaneto de Monte ferrato. Nelli anni del Signore 1534. A dì Vintiquatro Aprile. (In 8°, di fogli 144, carattere gotico, a due colonne, con xilografie. Già nel Catalogo della Libreria Floncel, stampato a Parigi nel 1784 in due volumi e nel « Catalogue des livres de la Bibliotheque de feu M. Le Due de la Valliere ». Paris, De Bure, 1783). – Stampato in Vinetia per Francesco Bindoni et Mapheo Pasini compagni nel anno del Signore 1536. Del mese di Settembrio. (In 8° con xilografie. Una copia è nella Biblioteca Marciana di Venezia). – In Venetia 1549. (In 4°, con xilografie. Citato da Missiaglia). – In Venetia. Bartholomeo detto l’Imperatore. 1550. (In 8°, con xilografie. Già posseduto dal Melzi). – In Venetia per Giov. Andrea Valvassore detto Guadagnino 1551. (In 8°, con xilografie. Già nella Libreria di Tommaso Grenville). – In Venetia. Alessandro de Vian 1553. (In 8°, caratteri gotici a due colonne, con xilografie). – In Venetia. Bartholomeo detto l’Imperatore 1556. (In 8° con xilografie. Già nel «Catalogue of thè library of thè Rev. Thomas Crofts». London 1783. N°. 2965. Una copia esiste nella Biblioteca Universitaria di Bologna). – In Venetia per Alessandro de Vian. 1562. (In 8°, con xilografie. Nella Biblioteca Corsiniana di Roma). – In Venetia per Alessandro de Vian nell’anno del N. S. 1563. (In 8°, citata dal Quadro e dall’Haym). – Stampato in Venetia per Alessandro de Vian. Nell’anno del Nostro Signore 1565. (In 8°. Caratteri gotici. Fogli non numerati, con xilografie. Trovasi nella Biblioteca Alessandrina del l’Università di Roma). – In Venetia. Giovanni Padovano. 1568. (In 4°, con xilografie). – In Venetia. Alessandro de Vian 1569. (In 8°, con xilografie. Già posseduto dal Ferrano).- In Venetia. Fabio et Ago­ stino Zoppini. 1587. (In 8°). – In Venetia. Lucio Spineda. 1612 (In 8°, con xilografie. Trovasi nella Biblioteca Nazionale di Parigi). — In Venetia. Appresso Lorenzo Griffa 1629. (In 8°, con xilografie. Trovasi nella Biblioteca Ambrosiana di Milano). – In Venetia. Appres­ so Zaccaria Conzati. 1669. (In 8°, con xilografie. Trovasi nella Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma). – In Venetia. 1678. Appresso Zaccaria Conzatti. (In 8°, con xilografie. Trovasi nella Biblioteca

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di Mons. R. Casimiri (Roma). – In Venetia 1638. (In 8°, citata dai Melzi e dal Ferrario). – In Lucca. Marescandoli. (Senza data. In 8°. Nella Libreria Grenville già cit. e nel Catologo Molini del 1807).

– In Verona appresso Bartolomeo Merlo. (Senz’anno. In 4°, con xilografie. Ne esiste una copia nella Biblioteca Ambrosiana di Milano). – Ve ne è infine una edizione con il solo titolo, senz’anno, senza luogo di stampa e senza nome dell’Editore, in 8°, citata dall’Haym). A proposito del poema di Pier Durante, si tenga infine presente, che l’antico romanzo Francese : Les aventures guerrieres et amoureus de Leandre (Nerveze. Paris 1608 e Ancelin. Lyon 1612. Due vol. in 12°), non è altro che un’imitazione in prosa dell’opera del Durante (1).

II.

GIOVANNI DILETTO DURANTE – Diremo subito che fu un illustre Giureconsulto, ma ignoriamo quali rapporti di parentela corressero tra lui e il PIER DURANTE dianzi ricordato. In considerazione dell’epoca in cui rispettivamente vissero, si potrebbe pensare che quest’ultimo fosse un suo zio, ma per certo non gli fu padre, poiché il genitore di Giovan Diletto si chiamò invece Giulio e lo troviamo tuttavia in vita nel 1489. Il nonno, maestro Durante dei Duranti, era ancora vivente nel 1473 e suo bisnonno fu Ser Iacopo dei Duranti. Il suddetto maestro Durante di Ser Iacopo, in un Atto Notarile del 31 Dicembre 1469, è qualificato come «eximius artium et medicine doctor », e figura anch’esso abitante, come tutti gli altri membri di questa famiglia, nel quartiere di Porta S. Donato. La casa dei Durante, era infatti quella oggi segnata, nella via omonima, con il N°. 158.

Di Giovan Diletto Durante, ho potuto rintracciare nel nostro Archivio Notarile Antico, quattro testamenti che ci fanno conoscere anche altri membri della sua famiglia. Nel primo, avente la data 22 Novembre 1529, sono nominati, come ancora viventi, la madre Felicita, la moglie Gerolima, le figlie Zenobia ed Imperia ed i figli Ludovico e Polluce. Nel secondo, del 9 Giugno 1539, Felicita, Gerolima, Imperia e Ludovico sono scomparsi, perché forse defunti, e appariscono invece due suoi nuovi figli, e cioè Castore e Caterina. Questi due ultimi, insieme ai suddetti Polluce e Zenobia, figurano infine, come unici superstiti, nel terzo e nel quarto testamento, dettati l’11 Giugno 1545 ed il 12 Aprile 1561.

(1) I. C. Brunet: Manuel du Libraire. Paris 1860-1865 – I. G. T. GRAESSE: Trèsor de livres rnres et précieux. Dresda 1859-1867 – G. FERRARIO: Storia ed analisi degli antichi romanzi di cavalleria. Vol. IV. Milano 1829. Pag. 173 e seg. – F. S. Quadrio: Della Storia e della Ragione d’ogni poesia. Voi. li, Parte 11 (Milano 1742), pag. 227 e 231; Vol. IV, Parte 11 (Bologna 1739), pag. 572 – MELZI-TOSI: Bibliografia dei Romanzi e Poemi Cavaliereschi Italiani. Milano 1838. Pag. 248 e seg., pag. 358 – F. Haym: Biblioteca Italiana. Milano 1803. Vol. II , pag. 46 – G. B. Missiaglia: Bibliografia Universale antica e moderna. Venezia 1840. Vol. VII, pag. 218.

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Non conosciamo l’anno in cui Giovan Diletto vide la luce, ma è lecito supporre che la sua nascita avvenisse tra la fine del XV e il principio del XVI secolo, considerando che nel 1529 egli si era già costituita una famiglia sua propria con quattro figli. Insieme a questa anzi, nel 1527, per sfuggire ad una grande pestilenza che decimava la popolazione Gualdese, lo vediamo rifugiarsi in una villa da lui posseduta in Morano, nella località in quel tempo chiamata Colcilli, oggi Colciglie, a quasi quattordici chilometri dalla città.

Dopo avere studiato Giurisprudenza nell’Ateneo Perugino, per circa un trentennio, ricoprì importanti offici pubblici nel Comune di Gualdo, come risulta da moltissimi Atti Consigliari dei tempi suoi. Nel 1529 infatti, già lo troviamo insignito della carica di Gonfaloniere, carica che, alternativamente con quella di membro del General Consiglio, e con altre, ricoprì più volte sino al 1560, nella quale epoca, già vecchio, si ritirò dalla vita pubblica dove lo sostituì il figlio Polluce. Ma Giovan Diletto, ciò nonostante, rimase in tanta estimazione presso i suoi concittadini, che nel Marzo del 1564, essendosi allontanato dalla città il figlio Polluce e male funzionando il Governo del Comune, la popolazione volle ed ottenne che il vecchio giureconsulto, benché non più facente parte del Consiglio Generale, pur tuttavia intervenisse alle adunanze di questo, in sostituzione del figlio assente, per illuminare con il suo senno e con i suoi suggerimenti gli altri membri di quel consesso. Occupò anche importanti offici fuori della città natale, fra l’altro appartenne alla Curia Pontificia e fu Uditore del Legato Ecclesiastico in Perugia nel 1548. Ma il suo nome, è sino a noi pervenuto ed è rimasto famoso tra i Legisti, più che altro per un suo scritto che ebbe grande celebrità, e che, per lunghissimo tempo, fu testo indiscusso nelle scuole di giurisprudenza e nella pratica giuridica. Intendo parlare dell’opera « De arte testandi et cautelis ultimarum voluntatum », più comunemente e più semplicemente indicata dai vecchi Giuristi, con il nome di « Cautela Gualdense ».

Di questo suo lavoro, il Durante scrisse dapprima una specie di Saggio, comprendente cento proposizioni o sentenze (Enunciata), Saggio che, cosa assai rara specie in quei tempi, pubblicò in pochissimi esemplari privati e direi quasi personali, non vendibili né riproducibili, con dedica al « Reverendo in Christo Patri domino Nicolao Aragonio », che avrebbe dovuto specialmente dare il suo parere sull’Opera del Durante, il quale alla sua volta prometteva di ripubblicare poi l’Opera stessa, ma in modo più diffuso e complesso, se quel primo Saggio fosse piaciuto e se fosse stato riconosciuto utile alle scienze giuridiche. Questo piccolo ma interessante libro, è oggi, per la sua estrema rarità, quasi sconosciuto ai Bibliografi, ed io per caso ne ho preso conoscenza, per averne trovato una copia tra gli incunaboli della Biblioteca Comunale di Bologna, copia che chiamerei quasi unica, piuttosto che rara.

Consta di ventiquattro fogli non numerati, in 4°, stampati con caratteri Gotici. Sulla fronte del primo foglio leggesi questo titolo: «Novarum cautelarum centum: cum locis legalium Argumentorum alphabeti ordine collectis: opus Aureum

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Acutiss. J. U. consulti Domini Joannis dilecti Durantis Gualdensis. Pontificali Privilegio». Al titolo segue una speciale avvertenza: « Cautum ne quis imprimere sine auctoris consensu: aut impressa vendere audeat ». A tergo del primo foglio, così sta scritta la dedica e lo scopo di questa: «Reverendo in Christo Patri domino Nicolao Aragonio J. U. Doctori Celeberrimo Causanim Palatij Apo. Auditori integerrimo: ac utriusque Signature Referendario Digniss. Jo. Dilectus Durantes Gualden. Salutem. Habeo librum novarum Cautelarum inter negocia patrie familiaresque curas compositum: quem ut iuris scientie lumen augeretur propediem edere destinabam. Sed mutavi sententiam ne an tequam periculum facerem et cognoscerem an is placiturus esset: totius libri impressione peculium exaurìrem: quare cautelas has pau culas ex volumine universo collectas Ubi Reverende pater ac disser tissime Domine communicare constitui ut operis pregustamentum capias. Et si eas acris iudicii maturitate probaveris: et quasi sapidas utilesque receperis: publicis consulens commodis illas in lucem dabo et ad alias edendas excitatus accingar vale ». Viene poi una breve strofa che un concittadino del Durante rivolge al lettore : « Bartutius Gualden. lectori. Salutem. Inter mortales regnant fraudesque dolique / Et nulla est pietas: pectoribusque fides. / Caute age: et insidiis sumens hec arma resistas. / Firmaque sub stabili stet metanea manu ». In fine al libro sono le indicazioni tipografiche e cioè: «Bonon. in Edibus Joannis Baptiste Phaelli. 1530. mense Januarij».

Alla pubblicazione del Saggio ora descritto, Giovan Diletto Durante, come aveva promesso, fece seguire quella dell’Opera vera e propria, avente il su ricordato titolo « De arte testandi et cautelis ultimarum voluntatum ». Di questo libro si fecero molte edizioni, delle quali sono riuscito a rintracciare quelle che qui appresso descriverò :

– Romae. Antonius Bladus Asulanus Excudebat. anno Domini 1540 Mense Augusto. (In 4°, di fogli CXLIII, più molti altri in fine non numerati, contenenti indici e tavole. Con dedica a « Domino D. Hieronimo Ghimitio [Ghinucci] S. R. E. Cardinali Optimo » e un saluto in versi, al lettore, di Mutius Gualdensis). E’ edizione rara, di cui esistono esemplari nelle Biblioteche Comunali di Ancona, Assisi e Città di Castello. – Venetiis in aedibus Francisci Bindonei et Maphei Pasinei. Mense Septembri. Anno a Virginis partu 1541. (In 8°). – Venetiis apud Bernardinum de Bindonis Mediolanensis anno salutis 1545. (In 8°).

– Lugduni apud Gulielmum Rovillium 1546. (In 8°). – Venetiis apud Hieronymum Cavalcalupum 1564. (In 8°). – Venetiis apud Georgium de Caballis 1568. (In 8°). – Lugduni apud Guliel. Rovillium 1572. (In 8°). – Bononiae 1574. Apud Societatem Ty pographiae Bononien. (In 8°. Questa edizione porta una dedica al Card. Filippo Boncompagni, firmata da Polluce, figlio dell’autore Giovan Diletto. Porta anche pochi versi dell’altro suo figlio Castore). L’opera di Giovan Diletto Durante fu inoltre stampata, integralmen­ te, nelle seguenti raccolte di Trattati di Giurisprudenza:

Selecti Tractatus Juris Varii vere Aurei de successione tam a testato quam ab intestato. Coloniae 1569. (Da pag. 160 a pag.

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255), nonché In Venetia 1580. (Da pag. 138 a pag. 217). – Tractatus Cautelarum. Francofurti 1575. (Da pag. 219 a pag. 344). – Trac­ tatus Cautelarum omnium sive cautionum. Lugduni 1577. (Da pag. 172 a pag. 273). – Tractatus illustrium in utraque tum Pontificii tum caesarei iuris facultate iurisconsultorum de ultimis voluntatibus. Venezia 1584, Tomo VIII, Parte I. (Da pag. 109 a pag. 146).

Esiste poi un breve scritto di giurisprudenza di Giovan Diletto Durante nell’Opera: Responsorum quae vulgo consilia vocantur ad causas ultimarum voluntatum successionum dotium et legitimationum. Venetiis 1568. Tale opera fu composta riunendo insieme gli scritti di moltissimi Legisti di quel secolo, ad ognuno dei quali appartiene un capitolo o Consilium. Il Consilium 174, al foglio 235t., è appunto dovuto a Giovan Diletto Durante.

La sua morte avvenne l’anno 1565 e sembra certo che fosse sepolto nella Chiesa del Convento di S. Maria Annunziata dei Minori Osservanti, presso Gualdo, dove in precedenza erasi fatto costruire la propria tomba.

A perpetuare la memoria di Giovan Diletto Durante, il Municipio Gualdese, inaugurava in suo onore un ricordo marmoreo, sulla facciata del Palazzo Comunale, il 30 Settembre 1877. (1)

III.

POLLUCE DURANTE. – Era già nato l’anno 1529. Come il padre suo, fu Giureconsulto e fu immatricolato nel Collegio dei Notari Gualdesi l’8 Decembre del 1544. Occupò in Gualdo i più elevati offici pubblici, tra i quali quello di Giudice Ordinario e di Gonfaloniere e, come risulta dai documenti dei nostri Archivi, non v’è avvenimento importante nella vita pubblica cittadina, che non sia associato al suo nome. Con il fratello Castore, nel 1571, ottenne la cittadinanza di Viterbo e di Perugia. Dalla sua moglie, Lucrezia, ebbe sei figli: Crispo, che fu eletto medico del Comune di Gualdo nel Luglio del 1583, Durante, Jacopo, Alessandro, Crisolita e Felicita. Polluce ancora viveva nel 1588, nel quale anno, il 4 di Aprile, dettò il suo testamento. (2)

(1) G. MORONl: Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica. Vol. XXXIII, pag. 79 e seg. – L. JACOBÌLLl: Vite dei Santi e Beati di Gualdo e della Re­gione di Taino. Pag. 24 – CASTORE DURANTE: II Tesoro della Sanità. Al Capitolo: Pimpinella – Arch. Comunale di Gualdo: Libri dei Consigli dal 1562 al 1565, fogl. 131; dal 1566 al 1571, fogl. 26t e 27t – L. JACOBILLI: Bibliotheca Umbriae. Foligno 1658. pag. 148 – Arcli. Notarile di Gualdo: Rogiti di Prospero di Piero Muscelli del 1531, fogl. 142; di Evangelista Confidati dal 1560 al 1563, fogl. 19t; di Maurizio Vittori dal 1565 al 1574, fogl. 58t, 60, 63, 242; di Polluce Durante dal 1548 al 1558, fogl. 19; di Gregario Bartucci dal 1507 al 1536, fogl. 125 e dal 1538 al 1539, fogl. IQlt; di Gaspare di Raniero dei Ranierì dal 1455 al 1485, fogl. 282; di Simone Scampa del 1544, e. 158.

(2) Arch. Notarile di Gualdo: Rogiti di Clarissi Gianmatteo dal 1573 al 1574, c . 31 ; di Confidati Evangelista dal 1587 al 1589, c . 248; di Argenti Leone del 1580, c . 121 e 125.

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CASTORE DURANTE – È il più noto membro di questa illustre famiglia. Nacque, come si disse, da Giovan Diletto e dovette venire alla luce dopo il 1529, poiché, come già notammo, non è neppure nominato nel testamento che suo padre fece il 22 Novembre di quell’anno. Abbiamo invece un dato sicuro per porre la sua nascita nell’anno seguente e cioè nell’anno 1530. Infatti in un Opera da lui pubblicata avente il titolo: Del Parto della Vergine, vi è il suo ritratto con l’indicazione che lo stesso rappresenta Castore nel quarantatreesimo anno di età. Ora, siccome ben si comprende che il ritratto fu allora disegnato appositamente per apporlo sul frontespizio dell’Opera, ed essendo stata questa stampata nel 1573, Castore, venuto al mondo quarantatre anni prima, risulterebbe nato appunto nel 1530. Del resto lo stesso fatto si verifica per un’altro libro del Durante, cioè per l’Herbario Nuovo, stampato la prima volta nel 1585 e che porta un ritratto di Castore al suo cinquantaseiesimo anno di età. Basta sottrarre questo numero alla data di pubblicazione del libro stesso e si avrà l’anno di nascita ricercato, che similmente corrisponde, con qualche mese di anticipazione, a quello ottenuto a proposito dell’Opera precedente.

Studiò, come il padre, nell’Ateneo Perugino ed ivi ebbe la Laurea. Fu illustre medico, naturalista, filosofo, letterato e poeta, tra i più noti e più dotti del secolo XVI. Già innanzi all’anno 1566, fondò in Gualdo un’Accademia dei Romiti, di cui facevano parte gli intellettuali Gualdesi del tempo. Quasi nessuna memoria ci è pervenuta di questo consesso letterario; solo sappiamo che quegli Accademici prepararono la compilazione di un trattato di Teologia con il titolo Tesoro di Santa Chiesa e che in materia poetica lavorarono intorno ad una produzione denominata Il Nuovo Tempio di Apollo, le quali opere però, certamente non furono mai pubblicate.

Di Castore Durante ci resta poi la notizia, che nel Marzo del 1567, venne eletto medico del Comune di Gualdo, con ottanta scudi di stipendio ogni anno. L’elezione si effettuò con trentasette voti favorevoli e dodici contrari e con la condizione che, se non avesse compiuto in Gualdo almeno un anno di servizio, dovesse perdere tutto il salario che gli spettava. È proprio il caso di esclamare: Nemo propheta in patria sua! Risulta che egli accettò ed assunse questo modesto officio, che tenne per circa un anno e che fu il primo passo nella sua brillante carriera. Da Gualdo passò ad esercitare la professione di medico nella città di Viterbo e nel 1571, insieme al fratello Polluce, chiese ed ottenne la cittadinanza Viterbese. In questo stesso anno, il 26 Marzo, sempre unitamente al fratello, ricevette anche la cittadinanza di Perugia con tutti i diritti spettanti a tale qualifica. Ebbe Castore per prima moglie, Bartolomea Filareti da Valentano, della quale si conserva un testamento in data 3 Agosto 1574, mediante cui la stessa lasciava eredi i propri figli Giulio ed Ottavio, anche essi famosi medici e letterati, come fra poco vedremo, e fra i quali sorse poi infatti una vertenza per la divisione del patrimonio ereditato, vertenza che si

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chiuse con un lodo nel 1581. Sua seconda moglie fu la Nobil Donna Ortensia Rusconi di Roma, che egli nomina nell’Herbario, al Capitolo sul Mecciocan e dalla quale, il 21 Marzo 1577, ebbe un terzo figlio chiamato Giovanni. Ci risulta che nel 1598 la Rusconi era ancora vivente. Nello stesso Herbario, nel Capitolo dedicato all’erba Thlaspi, Castore cosi si esprime: «Io l’ho più volte ricolta nel territorio della magnifica città di Nepi nell’ameno giardino del gentilissimo mio figliastro M. Flaminio Catalano, Cavaliere et Cittadin Romano ». Quest’ultime parole, ci fanno supporre che una delle due mogli di Castore, probabilmente la seconda, fosse vedova di un Catalani.

Sin dal 1581 ritroviamo poi Castore, Lettore nell’Ateneo Romano, nella cattedra di Botanica, che tenne sempre con speciale decoro. Divenne poi anche Medico Ordinario del Pontefice Sisto V e per tanti suoi meriti fu insignito perfino della cittadinanza di Roma. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in Viterbo, dove aveva acquistato dei beni e dove morì nel 1590. Fu sepolto in Viterbo stesso, nella Chiesa del Convento di S. Francesco e infatti il Teulo, descrivendo nel 1648 quel Chiostro, così si esprime in proposito: «Nell’uscire dalla Sacrestia, vi sta la sepoltura di Castore Durante, che fu medico molto stimato di Sisto V, S. P. e celeberrimo, ma senza epitaffio, che pur degnamente li conveniva».

Castore Durante lasciò varie Opere di Medicina e di Scienze naturali, Opere che sono importantissime avuto riguardo all’epoca in cui furono scritte e che, sino al secolo XVIII, servirono come libri d’insegnamento negli Atenei Italiani. Pubblicò anche alcuni lavori poetici, che riscossero l’unanime plauso dei letterati dell’epoca. Le Opere di Castore Durante, ebbero numerosissime edizioni che io ho pazientemente qua e là ricercate in pubbliche e private Biblioteche Italiane. Di queste Opere e delle relative edizioni, espongo qui sotto un elenco, quanto più ho potuto completo :

De bonitate et vitio alimentorum centuria. Castore Durante Gualdensi Medico autore. In qua continentur fere omnia quae ad rectarn victus rationem instituendam et tuendam valetudinem pertinent. Pisauri apud haeredes Bartholomei Caesani 1565.

(In 4°, fogli non numerati. Con dedica al Card. Tiberio Crispi, che fu Legato Pontificio in Gualdo).

Idem : Romae 1585. (In fol. Edizione citata dal Graesse e dall’Haller). Idem: Pisa 1594. (In 4°. Edizione citata dal Graesse e dall’Haller). G. A. Vander Linden, errando, cita un’edizione di Pisa: Apud haeredes B. Caesani, in 4°, con la data 1595, scambiata forse con una delle due edizioni Pisane su ricordate.

Herbario Nuovo di Castore Durante Medico et Cittadin Romano. Con figure, che rappresentano le vive Piante, che nascono in tutta Europa, et nell’Indie Orientali et Occidentali. Con Versi Latini, che comprenjono le facoltà de i semplici medicamenti, da i quali s’insegna il modo di cavar l’acque et farne vini medicinali et molti antidoti salutiferi. Con discorsi

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che dimostrano i Nomi, le Spetie, la Forma, il Loco, il Tempo, le Qualità, et le Virtù mirabili dell’Herbe, insieme col peso, et ordine da usarle, scoprendosi rari Secreti et singolari Rimedij da sanar le più difficili Infirmità del corpo humano. Con due Tavole copiosissime, l’una dell’Herbe, et l’altra dell’Infirmità, et di tutto quello che nell’opera si contiene. Con privilegio del Sommo Pontefice et d’altri Principi, et con Licentia delli Su­periori. In Roma appresso Bartholomeo Bonfadino et Tito Diani 1585. (In fol., pagine XXII – 536, con moltissime xilografie, con dedica in prosa ed altra in versi al Cardinal Girolamo Rusticucci e un bel ritratto di Castore Durante al cinquantaseiesimo anno di età). Alcuni esemplari, hanno un frontespizio diverso e pur trattandosi di una medesima edizione, portano sul frontespizio stesso il nome dell’editore in sostituzione di quello su indicato del tipografo, vi si legge cioè: In Roma per Iacomo Berichia et Iacomo Tornierij 1585. Il testo dell’opera, è preceduto da molte poesie laudatorie dedicate all’autore, tra le quali ve ne sono alcune del fratello Polluce, dei figli Giulio ed Ottavio, del nepote Crispo e infine del letterato Gualdese Monsignor Porfirio Feliciani, Vescovo di Foligno. Alcune di queste poesie, sono accompagnate dalla risposta, pure in versi, di Castore Durante. Le numerosissime xilografie dell’opera, quasi un migliaio, rappresentanti tutte le piante in essa descritte, sono lavoro di Leonardo Paraseli da Norcia, celebre intagliatore in legno, che Castore ricorda nell’Herbario, nel capitolo in cui tratta del Bosso, albero il di cui legno era allora infatti preferito dagli intagliatori e dai tornitori. Ogni xilografia è seguita da una breve poesia Latina, riferentesi alla pianta rappresentata, e poi da una dettagliata descrizione di quest’ultima, con le sue molteplici applicazioni alla Medicina. Medoro Patriarca, da Grottammare, altro medico di Sisto V, coadiuvò il Durante nel lungo lavoro dell’Herbario. Una copia di questa edizione dell’Herbario, appositamente stampata in carta azzurra ed accuratamente rilegata, donò Castore nel 1585 al Comune di Viterbo, perché fosse conservata in quella Cancelleria e di essa oggi ne resta un brano nella Biblioteca Comunale. Di quest’Opera si ebbero poi le seguenti edizioni:

In Venetia appresso li Sessa 1602. (In fol. con xilografie e ritratto dell’Autore come sopra). – In Venetia appresso li Sessa 1607. (Con xilografie e ritratto dell’Autore). – In Venetia 1612. (In fol. Edizione così citata dal Graesse). – In Venetia appresso li Sessa 1617. (In fol., con xilografie). – In Venetia appresso i Giunti 1636. (In 4°, con xilografie). – In Venetia presso Gio: Giacomo Hertz 1667. (Con xilografie. Questa edizione è notevole per il fatto che, mentre le precedenti portano tutte in appendice alcune Tavole con figure di piante, senza però alcuna nota descrittiva oltre il nome, qui invece anche di queste piante è stata aggiunta la descrizione per opera di Gio : Maria Ferro Spetiale alla Sanità). – In Venetia presso Gian Giacomo Hertz 1684. (In fol. con xilografie e aggiunte come nell’edizione del 1667).- In Venetia presso Michele Hertz 1717. (In fol. con xilografie e aggiunte come nell’edizione del 1667). – In Venetia presso Michele Hertz 1718.

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(In fol.con xilografie e aggiunte come nell’edizione del 1667).

L’Haller ricorda inoltre, ma senza altri dati bibliografici, le seguenti edizioni: Francofurti 1609 in 4°; 1625 in fol.; 1642 in fol.; Tatvisii (sic) 1657 in fol.; Romae 1684 in fol.; una traduzione in lingua Tedesca del 1623 in 8°, «cura Petri Uffenbach»; un’altra in lingua Spagnola, in fol. edita a Venezia nel 1667.

Tutte le edizioni sopra indicate, appaiono interessantissime anche sotto l’aspetto bibliografico, essendo fornite, come si è detto, da novecento a mille figure di piante in xilografia per ciascuna. Ricorderò infine, che l’Olivi cita anche un’edizione di Roma del 1583, in fol. e l’ Haller, ricopiato poi dall’Haym e dal Graesse, ne cita un’altra di Venezia del 1584, però di ambedue non mi è stato possibile rintracciarne alcun esemplare, e ciò si spiega, essendo queste due date certamente errate, poiché, come sopra vedemmo, se la lettera con cui il Durante dedica l’Herbario al Card. Girolamo Rusticucci, lettera che figura nel libro, porta la data del 27 Marzo 1585, l’Opera stessa non poteva essere stata stampata nel 1583 e nel 1584, cioè prima che fosse stata finita di scrivere.

Noteremo infine, come assai facilmente si possono trovare esemplari dell’Herbario, nelle più importanti Biblioteche, tanta è stata la diffusione che ha avuto quest’Opera. Più che in un semplice Erbario, consiste in un Trattato di Botanica applicato alla Medicina, che è quanto di più completo e di più vasto si poteva avere in quell’epoca e che anche attualmente si legge con sommo interesse, perché in modo perfetto ci dimostra quali fossero le cognizioni ed i mezzi terapeutici di quel secolo, condizioni e mezzi che oggi fanno, è vero, spesso sorridere di compatimento persino i profani, ma che, ciò nonostante, nulla tolgono alla gloria di Castore, se ci riportiamo ai tempi in cui visse.

Lo stesso Plumier, per onorare la memoria del nostro sommo Naturalista, ad un genere di arbusti Americani, assegnò il nome di Castoreo, nome che venne poi, dal grande Linneo, cambiato in Duranta. Nell’Herbario, Castore frequentemente trova modo di ricordare la propria patria, Gualdo, citandola a proposito di piante che abbondano nel suo territorio: ad una di esse assegna persino il nome di Thora Gualdese. Similmente vi nomina vari Spetiali e Botanici della sua epoca, Dignitari Ecclesiastici che gli erano stati prodighi di benevolenza o favori, e persino qualche suo congiunto e qualche suo podere nel contado di Gualdo.

Come curiosità storica, ricorderemo infine che, introdotta in Italia la pianta del Tabacco ai tempi di Castore Durante, fu da costui, nel suo Herbario, chiamata Erba di Santa Croce, il quale nome rimase poi, per qualche secolo, alla popolarissima pianta. Il Durante creò questo nome in onore del Card. Prospero Santacroce, che dal Portogallo, ove era stato Nunzio Apostolico, aveva riportato, verso il 1565, per la prima volta a Roma, il seme del Tabacco sino allora sconosciuto in Italia. Anzi il Mandosio nella « Biblioteca Romana», il Bayle nel « Dictionnaire », il Piazza nello « Eusevologio », il

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Marini negli « Archiatri », il Cancellieri nel « Mercato », ed altri ancora, per provare che al Santacroce si doveva l’importazione del Tabacco, ripubblicarono nelle loro Opere i versi che il Durante dedicò a questa pianta nel proprio Erbario, versi nei quali il Santacroce è appunto indicato come importatore del Tabacco in Italia.

Il Tesoro della Sanità. Nel quale si da il modo di conservar la Sanità et prolungar la vita, et si tratta della Natura de’Cibi, et de’ i Rimedi, de i Nocumenti loro. Opera nuova di Castor Durante da Gualdo, Medico et Cittadino Romano. In Roma ad instantia di lacomo Tornieri et Iacomo Biricchia. Appresso Francesco Zannetti 1586. Con Privilegio et Licentia de’ Superiori. (In 4°, pag. VIII – 304, con ritratto dell’Autore simile a quello che vedesi nelle più antiche edizioni all’Herbario. È questa per certo la prima edizione di tale opera, poiché contiene una lettera dedicata a Donna Camilla Peretta, sorella di Papa Sisto V (Felice Peretti) che portala stessa data dell’anno di stampa del Libro, cioè 1586, 20 Luglio. Il Medico Antonio Porto (Porti) di Fermo, nominato in questa dedica, fu Archiatra di Sisto V prima di Castore. Di quest’Opera, dopo la precedente, ho potuto rintracciare le seguenti trentadue edizioni:

In Venetia appresso Andrea Muschio 1586. (In 8°). – In Roma appresso Guglielmo Facciotti 1586. (In 4°). – In Venetia appresso Domenico Farri 1588. (In 8°). — In Bergamo per Comino Ventura 1588. (In 4°). – In Venetia appresso Andrea Muschio 1588. (In 8°).

– In Roma 1589. (In 4°. Citata da Eloy). – In Venetia appresso Andrea Muschio 1589. (In 8°). – In Montava appresso Francesco Osanna stampator ducale 1590. Un 8°). – In Venetia appresso Mi-chiel Bonibello 1596. (In 8°). – In Venetia appresso Domenico Farri 1597. (In 8°). – In Venetia presso Lucio Spineda 1601. (In 8°).

– In Venetia appresso Giacomo Sarzina 1611. (In 8°). – In Venetia appresso Domenico Imberti 1611. (In 8°). – In Torino per Domenico Tarino 1612. (In 16°). – In Venetia appresso Lucio Spineda 1614. (In 8°). – In Venetia appresso Marc’Antonio Zaltieri 1616. (In 8°).

– In Venetia presso Lucio Spineda 1620. (In 16°). – In Venetia appresso Alessandro de’ Vecchi 1623. (In 8°). – In Venetia appresso Ghirardo et Iseppo Imberti 1625. (In 8°). – In Venetia appresso Iseppo Imberti 1629. – In Roma appresso Guglielmo Facciotti 1632. (In 8°). – In Venetia appresso Ghirardo Imberti 1640. (In 8°). – In Venetia appresso Domenico Imberti 1643. (In 8°). – In Venetia appresso Gio. Battista Cestaro 1646. (In 8°). – In Trevigi appresso Simon da Ponte 1653. (In 12°). – In Padova per Gio: Battista Cezza 1659. (In 8°). – In Venetia appresso Gio: Battista Brigna 1663. (In 12°). – In Venetia appresso Gio: Battista Cestari 1668. (In 8°). – In Padova per Gio: Battista Cezza 1669. Impressione seconda accresciuta. (In 8°). – In Venetia appresso Michiel Angelo Barboni 1675. (In 12°). – In Venetia appresso Benedetto Miloco 1679. (In 8). – Roma. Tipografia Salviucci 1830. (In 8° grande).

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Di tutte le Opere di Castore Durante, il Tesoro Della Sanità ha avuto il maggior numero di edizioni e la più grande diffusione. Sembra impossibile che sia stato ristampato (e non certo a scopo di studi critici) persino nel 1830. Esso consiste in un vero e completo Trattato di Bromatologia e Igiene Alimentare, quale poteva concepirsi nel secolo XVI. Comprende oltre duecento rubriche, scritte in lingua Italiana corretta e semplice, ognuna delle quali, come nell’Herbario, è preceduta da un breve sommario in versi Latini abbastanza eleganti.

Il Graesse, ed altri che lo seguirono, scrivendo di quest’Opera, affermano che essa consiste in una traduzione Italiana dell’altra e già citata Opera Latina di Castore Durante, « De bonitate et vitio alimentorum centuria». Però il Graesse è caduto in un grossolano errore e certo non confrontò le due Opere, le quali, trattano è vero lo stesso argomento, ma nulla hanno a che fare tra loro; ciò forse si deve al fatto che lo stesso Graesse male interpretò una frase che trovasi nella Lettera di dedica del Tesoro Della Sanità, con la quale frase si rende noto che questo libro fu dapprima scritto da Castore in lingua Latina e che in tale forma fu presentato, come ossequio, al Pontefice, prima ancora di essere stato stampato, ma che venne poi subito ridotto dallo stesso Autore in lingua Italiana, affinchè dopo la sua pubblicazione, potesse, senza difficoltà, essere letto da tutti. In altre parole, il testo Latino del Tesoro Della Sanità, fu da Castore presentato manoscritto al Pontefice e giammai venne stampato.

Teatro delle Piante, de gl’Animali Quadrupedi, de gl’Uccelli, de Pesci, e delle Pietre Pretiose.

Nella dedica del Tesoro Della Sanità a Donna Camilla Peretta, Castore Durante promette dedicarle in breve un’altra sua Opera avente il titolo sopra indicato. Di tale libro l’Olivi cita un’edizione di Roma del 1587, che sarebbe per certo la prima. Lo Jacobilli, l’Eloy, e il Graesse, ne ricordano poi un’altra di Venezia del 1636, in fol. con il titolo: Theatrum plantarum, animalium, piscium et petrarum. Con questo stesso titolo, l’Haller ne indica una terza, pure uscita in Venezia, ma nel 1656. Tra i libri del Durante, è questo quello che è divenuto più raro, ed a me stesso non è riuscito rintracciarne un solo esemplare. Per tale ragione, non mi è possibile darne più diffuse notizie.

Del Parto della Vergine. Libri tre di M. Castore Durante da Gualdo, Ad imitatione del Sanazaro con gli argomenti di M. Jeronimo Pallantieri. In Roma appresso Gio: Battista de’ Cavalieri 1573. E in fine al libro: Stampato in Viterbo per Agostino Colaldi 1573. (In 4°, di pag. 88).

Questo lavoro poetico, scritto in ottava rima, è un’imitazione della nota Opera di Jacopo Sannazaro, « De Partu Virginis » e fu dedicato a Papa Gregorio XIII, con il tramite di Iacomo Buoncompagno, e in detta dedica Castore ricorda il proprio fratello Polluce. È Opera assai rara e pregevolissima per le numerose e finissime incisioni in rame di cui è fornita, incisioni che si devono

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allo stesso editore Giovan Battista dei Cavalieri, il quale pose infatti la sua firma « Ioa. baptista de cavalieri incidebat » nell’ incisione che trovasi a pag. 24, rappresentante la Crocifissione di Cristo. Il libro, porta un ritratto dell’Autore al suo quarantatreesimo annodi età, con questa indicazione « Castor Durantes Guald. Anno aetat. s. XLII – 1573». Un esemplare di questa interessante Opera del Durante, trovasi nella Biblioteca V. Emanuele di Roma. Il Possevini, errando, ne cita un’edizione Romana con la data 1553.

Il Sesto libro della Eneida dì Vergilio ridotto da M. Castore Durante in ottava rima. Roma appresso Giulio Belano de gli Accolti in Banchi 1566. (In 12°, con dedica al Cardinal Tiberio Crispi, Legato Pontificio in Gualdo).

Idem: Roma appresso Giulio Bolano de Accolti in Banchi in corte de Ghigi 1566. (In 4°, con dedica come sopra).

Notevole il fatto, che dallo stesso editore e nello stesso anno, siano state fatte due distinte edizioni di tale libro, che è piuttosto raro. Ne esiste una copia nella Biblioteca Comunale di Perugia, un’altra nella Biblioteca Corsiniana, ed una terza nella Vaticana. Scrive il Quadrio, che quest’Opera di Castore, essendo stata pubblicata ad iniziativa di Niccolò dei Confidati d’Assisi, ciò diede occasione d’errore ad un altro bibliografo, al Crescimbeni, che ne fece appunto autore il Confidati suddetto, del quale invece esiste solo una lettera apologetica al termine del libro. Lo stesso Quadrio aggiunge, che l’unanime applauso che ebbe la traduzione poetica del sesto libro dell’Eneide, stimolò il Durante a proseguire nel suo lavoro, e ciò è dimostrato infatti dall’esistenza dell’Opera che segue.

Il Quarto libro della Eneida di Vergilio ridotto in ottava rima da M. Castore Durante Accademico Viterbese. Viterbo per Agostino Colaldi da Civita Ducale 1569. (In 4°, dedicato: All’Ill. S. Hieronimo Rusticucci Secretarlo di N. S.).

Il Medico Gelso Vittorio, che fece pubblicare quest’Opera, avverte che la traduzione del Quarto Libro dell’Eneide, in ottave Italiane, fu dal Durante compiuta con una rapidità veramente incredibile, per dimostrare la propria valentia e ciò in seguito ad una specie di sfida letteraria corsa tra lo stesso e certi suoi amici. Da alcuni fu erroneamente scritto, che questa edizione Viterbese del IV canto dell’Eneide, altro non era che la ristampa del VI canto su ricordato. Come il precedente è libro assai raro. Ne esisteva una copia nella Biblioteca dell’Avv. Vittorio Corbucci in Città di Castello, ed altra copia trovasi nella Biblioteca Trivulziana in Milano.

Noi noteremo inoltre, a proposito di Castore Durante, che egli appose varie annotazioni in un volume di poesie ricordato dal Quadrio con questo titolo : Il Sasso dell’eccellente M. Iacomo Sacco da Viterbo nel quale si mostrano i modi di temprare gli affetti umani e la via di elevarsi al Cielo. In Viterbo per Agostino Colaldi 1572. (In 4°).

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Ricorderemo anche che ornò, con eleganti carmi Latini, varie Opere di scrittori suoi contemporanei, ad esempio una Miscellanea Medica di Egidio Everard (Antuerpiae apud I. Bellerum 1587, in 12°), nel Capitolo « Compendiosa narratio seu tractatus de usu radicis Mechoacan »; nonché una Vita di Papa Gregorio XIII, scritta da Principio Fabrici di Teramo (Delle allusioni, imprese et emblemi …… sopra la Vita, opere et attioni di Gregorio XIII P. M. Roma appresso Bartolomeo Grassi 1588).

Diremo che un suo distico si legge in una raccolta di scritti poetici di vari autori, commemoranti l’erezione dell’Obelisco Vaticano (Carmina a variis auctoribus in obeliscum conscripta. Romae. Ex officina Bartholomaei Grassij 1586. Pag. 69) ; che una sua Poesia latina di ventidue versi, sul modo di conservarsi sani, è ricopiata a carte 155 del Codice. B. III. 14, della Biblioteca del Seminario di Foligno (Fondo Dorio e Jacobilli), e che un suo Sonetto in lingua Italiana, si trova nel foglio 16t. del Codice A. IV, 12, Codice anch’esso appartenente alla Biblioteca suddetta e consistente in una raccolta di versi fatta da Jacobilli.

Finalmente non va taciuto, che Castore Durante, dovette anche produrre varie altre opere, le quali però disgraziatamente non sono sino a noi pervenute; di esse, almeno, non se ne conoscono esemplari. Ad esempio, scrisse per certo un libro sulla Peste ed un Trattato di Pratica Medica. L’esistenza del primo si deduce da una frase che leggesi nel suo Herbario Nuovo, al Capitolo Aglio, frase che contiene appunto le seguenti parole …… preserva dalla Peste et fattone empiastro rompe la postema pestifera: si come a pieno ho detto nel mio trattato della peste ». Che poi abbia scritto anche un Trattato di Pratica Medica, risulta evidente dal Proemio alla sua Opera il Tesoro della Sanità, dove Castore, quasi divinando la moderna grande importanza dell’Igiene, così chiaramente descrive la differenza che corre tra Profilassi e Terapia: « …. la medicina in due parti dividesi: La prima conserva la Sanità presente. E l’altra la perduta ricupera. Qui (nel Tesoro della Sanità) si farà solamente mentione di quella parte della Medicina che ci conserva sani, e ci fa vivere lungo tempo. Dell’altra parte habbiamo trattato a pieno nella nostra Prattica Medicinale, nella quale si fa mentione di tutte l’infirmità del corpo humano, dalla Cima della testa fin’alle piante de piedi ……

Compilò anche un « Tractatus de Institutione optimi medici» il quale però, quasi certamente, non venne poi dato alle stampe. (1)

(1) Brunet: Op. cit. – Graesse : Op. cit. – quadrio: Op. cit. Vol. IV. Bologna 1739. Parte I, pag. 272. Parte II, pag. 699; Vol. V. Milano 1752, pag. 79 – JACOBILLI: Blbliotheca Umbriae. Foligno 1658. Pag. 82 – JACOBILLI: Vite dei Santi e Beati di Gualdo. Già cit. pag. 24 – G. TlRABOSCHI: Storia della Letteratura Italiana. Vol. III , Cap. III – Nuovo Dizionario Istorico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri. Bassano 1796. Tomo V. – D. olivi: Il Tesoro della Sanità di Castore Durante. (Nel perio dico « Il Bibliofilo » Bologna. Anno V. 1884. N°. 4) – Arch. Comunale di Gualdo: Consigli dal 1566 al 1571. c. 26 e 27t; dal 1581 al 1583. c. . 139 –

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OTTAVIO DURANTE – Nacque poco dopo la metà del secolo XVI, non sappiamo se in Gualdo, oppure in Viterbo od in Roma, nelle quali città il padre Castore abitò a lungo. Egli, nei suoi scritti, si qualifica come Ottavio Durante Romano, ma tale attributo non sta qui a significare il luogo di nascita, ma vuoi ricordare l’onorificenza ottenuta dal padre, quando, per i suoi meriti, ebbe la cittadinanza Romana, alla quale onorificenza naturalmente partecipò tutta la sua famiglia. Anche Giulio Durante, fratello d’Ottavio, benché nato in Viterbo, si qualificò sempre, nelle sue Opere, come Cittadino Romano. Ottavio ebbe ingegno multiforme e vivace, fu medico, naturalista e filosofo e gli scritti che dedicò a tali discipline, non gli impedirono di comporre persino un libro sulla pratica della Religione ed un Trattato di Poesia Musicale. Ci risulta infatti, che nel principio del Seicento, era anche Maestro di Cappella a Viterbo. Morì in questa città, in una sua villa, il 1 Ottobre 1620. Do qui appresso un elenco delle sue Opere, tanto stampate quanto manoscritte:

Del Prencipe Virtuoso. Dialogo di Ottavio Durante Romano. Parte Prima nella quale si tratta di cose naturali e sopranaturali incominciando dal Creatore e seguendo di tutte le creature. In Viterbo presso Girolamo Discepolo 1614. (In 4°, di p. 474). Non esistono per certo edizioni precedenti di quest’Opera, anche per il fatto che la lettera con cui Ottavio la dedica a Papa Paolo V, è datata da Viterbo nello stesso anno 1614,25 Marzo. E’ però notevole il fatto, che alcuni esemplari di questa edizione, hanno un frontespizio diverso, sia per la sua disposizione, sia per il contenuto del titolo, che qui appresso piacemi riportare per esteso, perché descrive abbastanza bene i molteplici soggetti di cui tratta questo curiosissimo libro: « Il Prencipe Virtuoso. Dialogo di Ottavio Durante Romano nel quale si tratta di Dio, de gli Angeli, de’ cieli, de gli elementi, de’ minerali, de’ metalli, delle pietre pretiose, del l’herbe, de gli alberi, de gli animali terrestri, acquatici et aerei; e si scoprono

MORONI: Op. Vol. e pag. cit. – haym: Op. cit. Vol. II, pag. 207; Vol. IV, pag. 181 – P. mandosio: Gli Archiatri Pontifìci. Roma 1696. Pag. 53 e seg. – B. teulo: Apparato Minorico della Provincia di Roma. Velletri 1648. Pag. 57 – A. POSSEVINI: Apparatus Sacer. Venezia 1606. Tomo I, pag. 304 – I. MARRACCI: Biblioteca Mariana. Roma 1648. Parte I, pag. 270 – G. BAGLIONE: Le Vite de’ Pittori Scultori et Architetti. Roma 16-59. Pag. 394 – G. A. vander LINDEN: De scriptis Medicis. Amstelredami 1662. Pag. 110 – G. MARINI: Degli Archiatri Pontifici. Roma 1784. Pag. 465 – Biblioteca Comunale di Perugia : Annali Decemvirati. Anno 1571-1573, c. 24t. – C. BANDINI: Roma e la Nobiltà Romana nel tramonto del Secolo XVIII. Città di Castello 1914. Pag. 163 – Arch. Comunale di Viterbo: Riformarze. Vol. 59, c. 24-25; Bollettari, Cod. 418, c. 35t; Ricordi dei Priori, c. 40 – Arch. Notarile di Viterbo: Rogiti di Pietro Malagriccia. Prot. 3, e. 140 e Prot. 5, c. 76t. – eloy : Dizionario Storico della Medicina. Traduzione Italiana. Napoli 1762. Tomo II. pag. 303 – A. haller: Bibliotheca Botanica. Tiguri 1771. Tomo I, pag. 337 – Viterbo; Liber Baptizatorum S. Laurentii. 1 , c. 107.

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bellissimi secreti. Finalmente si tratta dell’huomo e delle cose pertinenti a quello, cioè della sua creatione, e generatione, della compositione e temperamento del suo corpo, della fisonomia, dell’anima, dello stato dell’innocenza, della sua caduta, della vita presente, del peccato, della morte, della resurrettione, di Antichristo, del Giuditio, della fine del mondo, del Purgatorio, dell’Inferno, della beatitudine e gloria de’ Beati; e si termina l’opera co’l debito del Prencipe. Opera curiosa et utilissima per ogni sorte di persona ». Nella prefazione l’Autore scrive che, sofferente per aver ricevuto « in scambio » un’archibugiata, e ritiratesi nella sua villa di Viterbo « a goder la vita contemplativa, e per fuggir l’hore otiose » in quel luogo di pace scrisse il libro del Prencipe Virtuoso. In altra parte della Prefazione, descrivendo la tela su cui è intessuta l’Opera, annunzia che questa sarebbe stata pubblicata in tre parti, ma della seconda e terza parte non se ne ha oggi memoria e ciò perché probabilmente esse non videro mai la luce. Tutto il testo del primo libro, consta di settantatre discorsi o dialoghi che si fingono avvenuti tra un giovane Principe desideroso di istruirsi ed un Teologo ed un Filosofo, che il Principe stesso aveva chiamati al suo servizio. In vari luoghi del libro, specie a pag. 106, 141 e 154, Ottavio fa in modo che gli attori del dialogo ricordino i meriti del nonno suo Giandiletto, del padre Castore e del fratello Giulio ed enumerino le Opere di questi suoi congiunti. Il Prencipe Virtuoso, è libro piuttosto raro, ne esistono copie nella Biblioteca Universitaria di Perugia, nella Comunale di Viterbo ed in Roma nella Valli celliana, nella Vaticana e nell’Angelica.

Combattimento dell’Homo con gli Inimici dell’humana Natura. Di Ottavio Durante Romano detto l’Incognito Ardente. Rappresentato nel campo aperto di questo Mondo con piacevolissimi Dialoghi. Dove si discuoprono le argutissime sottigliezze de’ Vitij nel suggerire et le sagacissime repulse della Ragione nel difendere. Concludendosi finalmente che l’Avaritia sia la radice di tutt’i mali. Opera non meno utile che dilettevole per ogni sorta di persona. In Viterbo. Appresso Pietro et Agostino Discepoli 1619. (In 12°, di pag. 209).

L’Opera è dedicata al Sig. Andrea Maildachini, con la data « Viterbo 1 Aprile 1619. Consta di ventidue dialoghi originalissimi, in ognuno dei quali intervengono sempre tre soli interlocutori ; di questi, due sono immutabili e presenti in tutti i dialoghi e cioè l’Uomo e la Ragione personificata, mentre invece il terzo interlocutore cambia in ogni capitolo e consiste nella personificazione di un Vizio. Cosi nel primo dialogo si presenta il Senso, nel secondo il Piacere, nel terzo il Mondo e, proseguendo, la Tentazione della Carne, la Superbia, l’Ambizione l’Avarizia, la Prodigalità, l’Invidia, la Gola, l’Ira, l’Accidia, l’Ipocrisia, l’Adulazione, l’Amor lascivo, la Discordia, l’Ingratitudine, l’Ostinazione, la Tentazione in forma di Ruffiana, la Riprensione, la Disperazione. Quest’opera è estremamente rara, ne ho potuto

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rintracciare un solo esemplare, nella Biblioteca Comunale di Assisi.

Arie Devote. Le quali contengono in sé la maniera di cantar con gratia, l’imitation delle parole et il modo di scriver passaggi et altri affetti. Novamente composto da Ottavio Durante Romano. In Roma appresso Simone Verovio 1608. (Bella edizione in fol.).

Il libro è dedicato al Card. Montalto, (Peretti Damasceni Alessandro di Montalto) con la data 1 Gennaio 1608. Contiene venti canti sì in latino che in volgare, con relativa musica e preceduti da una raccolta di avvertimenti e consigli per bene accoppiare la musica al canto, le note alle parole. Ne esistono esemplari nella Biblioteca dell’Accademia Musicale di S. Cecilia in Roma. Il Fètis, ne cita un’altra edizione Romana del 1624, ma ciò forse è un errore.

Rimedii per le infermità del Corpo Humano, incominciando dal Capo sino a i Piedi. Di Ottavio Durante Romano. Parte cavati da gli scritti de’ gravi Autori e parte imparati dall’esperienza, vera Maestra di tutte le cose. Con privilegio. (Ma­ noscritto).

L’autografo di quest’Opera, certo inedita, di Ottavio Durante, fu un tempo posseduto dal celebre Antonio Magliabechi, dal quale passò poi alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dove tuttora esiste, con la segnatura Classe XV, N°. 21. Trattasi di un volume in fol., legato in cartone e cuoio. Ha nella prima pagina il titolo suddetto, al quale segue la dedica « A Benigni Lettori». Viene poi un elenco di Autori a cui Ottavio Durante aveva attinto per compilare la sua Opera, tra i quali vanno notati il di lui padre Castore ed il fratello Giulio, dopo di che trovasi una lunga « Tavola delle cose più notabili che in quest’opera si contengono ». Finalmente comincia il testo dell’Opera stessa, divisa in capitoli come appresso, e ogni capitolo consta di una raccolta di ricette con le relative indicazioni terapeutiche:

Capitolo I. Per conservarsi sano – II. Rimedij per la Testa ne i mali interni – III. Rimedij per la Testa ne i mali esterni – VI. Rimedij per la gola – V. Rimedij per il Petto – VI. Rimedij per la Milza – VII. Rimedij per il Cuore – VIII. Rimedij per il Fegato – IX. Rimedij per le Mammelle – X. Rimedij per le Mani – XI. Rimedij per la sanità delle Braccio – XII. Rimedij per lo Stoma cho – XIII. Rimedij per la Sete – XIV. Rimedij per i veleni – XV. Rimedij per il Ventre – XVI. Rimedij per le Reni e Vessica – XVII. Rimedij per le Parti Vergognose – XVIII. Rimedij per le Coscie e Gambe – XIX. Rimedij per i Piedi. Segue in ultimo un Addenda contenente un supplemento di sessantuno nuove ricette. Ho qui voluto riportare questo sommario, perché ci da una chiara idea dei criteri grossolani ed empirici, con i quali, in quell’epoca, veniva considerata la scienza medica.

715 – PARTE TERZA – Miscellanea

Nella stessa Biblioteca Nazionale di Firenze, con la segnatura Classe II, N°. 51, esiste un’altra copia manoscritta di quest’Opera di Ottavio Durante, ivi pervenuta dalla Biblioteca Nelli. Il Testo è perfettamente simile a quello or ora descritto, solo che le ricette della Addenda non sono sessantuno ma sessantasei e , invece di essere stato vergato come il precedente di pugno dell’Autore, appare scritto da altra mano, con un bel carattere del XVII secolo. Tutte le pagini sono rilegate e formano un grosso volume in fol. coperto di tavole.

Breve instruttione per le preghiere sante che potrebbe fare ogni anima christiana, di Ottavio Durante Romano. Con uno specchio nell’ultimo, nel quale ciascuno potrà rimirarsi per fare l’esame della conscienza e prepararsi alla Santa Confessione. Con Privilegio. In Perugia o Roma. (Manoscritto, in fol.).

Segue a questo frontespizio una dedica al Marchese Sforza Pallavicino, con la data: Di Santa Fiore 3 Agosto 1616. Viene poi un Proemio e infine comincia il testo diviso in dieci Capitoli o Instrutioni, occupanti ventitre fogli di fitta e minuta scrittura, tutta vergata di pugno del Durante. Quest’Opera, certamente inedita e mai citata prima d’oggi, si conserva nella Biblioteca Vallicelliana di Roma con l’indicazione: P. 89. 13.

Finalmente ricorderemo che nell’Epistolario di Porfirio Feliciani, di cui tratteremo a proposito della biografia di questo illustre Prelato Gualdese, esiste una lettera che il Feliciani stesso, quale segretario di Papa Paolo V ed a nome di questi, scriveva da Roma il 23 Gennaio 1615 a Ottavio Durante. In tale lettera si contengono i ringraziamenti ed i rallegramenti del Pontefice verso il Durante, il quale aveva mandato in dono a Paolo V una sua Opera, che il Feliciani nella lettera suddetta, chiama: Breve et facil modo d’incaminarsi al Cielo. Probabilmente trattasi di un altro lavoro letterario del Durante, a noi sconosciuto, di cui non possiamo dire se fu stampato o se fu offerto in dono al Pontefice, semplicemente manoscritto. (1)

VI.

GIULIO DURANTE. – Fratello di Ottavio or ora ricordato, nacque in Viterbo non molto dopo la metà del XVI secolo, durante il tempo in cui il padre Castore, si trovò ad abitare in quella città. Ciò nonostante a lui piacque sempre qualificarsi, come suo fratello,

(1) Nuovo Dizionario [storico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri. Già cit. Tomo V – P. mandosio: Degli Archiatri Pontifici. Pag. già cit. – P. Mandosio: Biblioteca Romana. Roma 16y2. Pag. 134 – R. EITNER: Bio. Bili. Quellen Lexikon. Leipzig 1900. Vol. III , pap. 287 – FÉTIS: Biografia Universale dei Musicisti. Paris 1866. Pag. 88 – Biblioteca Angelica in Roma: Epistolario di P. Feliciani. Mss. Voi. 1232, fogl. 17t. – Viterbo: Liber Mortuorum S. Sixti, c . 19t.

716 – PARTE TERZA – Miscellanea

quale Cittadino Romano in ricordo della Cittadinanza che Roma, a titolo onorifico, aveva concesso a suo padre. Si addottorò in Medicina a Siena nel 1579, ed in tale anno ottenne perciò un sussidio dal Comune di Viterbo, in considerazione dei grandi meriti che in que st’ultima città aveva saputo acquistarsi il suo padre, al quale Giulio non sopravvisse di molto, dovendo già essere morto nel 1603, poiché di quest’anno si ha un Atto, stipulato dalla sua figlia Vittoria, quale erede, nonché dalla sua vedova Emilia Russolini. Fu in seguito Protomedico Generale dello Stato Ecclesiastico e di lui ci sono pervenute le due Opere che qui seguono :

Trattato della Peste et Febre Pestilentiale di Giulio Durante Medico del Collegio et Cittadin Romano. In Venetia presso Gian Battista Ciotti 1600. (In 8°).

L’Opera è dedicata al Card. Giustiniani, è piuttosto rara e ne esistono esemplari nelle Biblioteche Comunali di Perugia, Ancona, Assisi e Padova; nell’Universitaria e nell’Angelica di Roma.

Trattato di dodici bagni singolari della illustre città di Viterbo. In Perugia appresso Pietro Paolo Orlando Stampator Camerale 1595. (In 4°).

Anche quest’Opera è dedicata al Card. Giustiniani, con la data: Perugia 17 Decembre 1595. Iacobilli nella sua Bibliotheca Umbriae ne ricorda un’edizione di Viterbo del 1590. Probabilmente tale nota è errata; io non ne conosco nessun esemplare, mentre invece del l’edizione Perugina, ne esistono in Roma nelle Biblioteche Vaticana, Universitaria e Casanatense, nell’Universitaria di Bologna ed in Viterbo nella Comunale. Alla stampa di quest’Opera, contribuì anche il Comune di Viterbo. Nel Proemio del libro, Giulio Durante ricorda diffusamente il padre Castore e le sue opere, per le quali egli dice «meritò d’essere laureato dall’Imperatore ». (1)

VII.

GIROLAMO DURANTE. – A proposito della Famiglia Durante, noteremo anche, che nel già ricordato libro « Rime Sacre e Morali de diversi autori. In Foligno per Agostino Alterij 1629, leggonsi, tra l’altro, due Sonetti di un Girolamo Durante da Gualdo, Accademico Fulgente detto l’Accinto, l’uno a pag. 85 dedicato a Monsignor Severino Elmi da Foligno, protettore dell’istessa Accademia, l’altro a pag. 86, sopra la morte del letterato Curzio degli Onofri da Foligno. Anche nel Codice A. IV. 12, esistente nella Biblioteca del Seminario di Foligno, il quale Codice consiste in una raccolta di versi fatta da Iacobilli, a carte 81 e seg. trovansi sei

(1) JACOBILLI: Bibliotheca Umbriae. Già cit. Pag. 173 – Nuovo Dizionario Istorico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri. Già cit. Tomo V – MORONI: Op., Vol., Pag. cit. – P. MANDOSIO: Degli Archiatri Pontifici. Pag. già cit. – Arch. Comunale di Viterbo: Riformarze. Vol. 71. fogl. 68t. – Arch. Notarile di Viterbo: Rogiti di Gregorio Paolini. Prot. 6, fogl. 146.

717 – PARTE TERZA – Miscellanea

Sonetti laudativi ed un Madrigale del Girolamo Durante suddetto. Null’altro conosciamo di costui che fu dottore in medicina e fiorì intorno al 1610 e ignoriamo persino quali rapporti di parentela lo legavano a Giulio ed Ottavio Durante già nominati, che pure vissero ai tempi suoi. (1)

Francesco e Girolamo Tromba.

Francesco e Girolamo Tromba, con il loro concittadino Piero Durante, del quale già diffusamente trattammo, costituirono in Gualdo un importante nucleo di Poeti, che all’epopea romanzesca del XV e XVI secolo, diedero un ricchissimo contributo, con molteplici o pere che, come vedremo, ebbero una straordinaria diffusione e rinomanza, dal XV al XVII secolo. Ed è veramente notevole, il fatto di questa precoce e viva fioritura di poeti epici in una remota cittadina dell’ Umbria, dove, tardivi e affievoliti, nel tardo Quattrocento dovevano giungere gli echi dei racconti cavallereschi e le medioevali tradizioni del Ciclo Carolingio. Invece, i poemi dei due Tromba e del Durante, non solo sono contemporanei, ma in alcuni casi anche precedono i tre principali capolavori della poesia epica italiana e cioè il Morgante Maggiore di Luigi Pulci, l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo e 1’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, senza parlare di molti altri consimili minori Poemi. Anzi, a tal proposito, il Ferrano fa notare che, ad esempio, Francesco Tromba deve avere composto i suoi Poemi, prima di conoscere l’Ariosto, poiché non nomina affatto questo principe della Poesia Epica, mentre invece ne ricorda altri minori ma più antichi, cioè il Boiardo, il Pulci e il Cieco da Ferrara, in un’ottava del XIII Canto, nel secondo libro della sua opera « La Draga d’Orlando ». (2)

(1) Quadrio: Op. cit. Vol. II. Parte I. Milano 1741. Pag. 372-373 – Bibl. del Seminario di Foligno: Mss. di Dorio eIacobilli. Cod. B. 1. 4, e. 85, 170t, 181.

(2) 1. C. Brunet: Manuel du Libraire. Paris 1860-1865. Nuovo Dizionario [storico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri. Bassano 1796 – G.Ttiraboschi : Storia della Letteratura Italiana. Vol. IV Cap. III – I. G. T. Graesse: Trésor de livres rares et precieux. Dresda 185Q-1867 – G. Ferrario: Storia ed analisi degli antichi romanzi di cavalleria. Voi. III. Milano 182S. pag. 167 e Vol. IV. Milano 1829. pagg. 12, 129, 163, 279 – F. S. Quadrio: Della Storia e della Ragione d’ogni poesia. Voi. IV. Bologna 1739. Parte II, pagg. 545, 569, 570 – melzi TOSI: Bibliografia dei Romanzi e Poemi cavaliereschi Italiani. Milano 1838. Pagg. 24, 192, 235, 236, 248, 358 – G. B. vermigligli: Biografie degli Scrittori Perugini. Perugia 1828. Tomo I. Parte I, pagg. 298 e 300. – G. Vanzolini : La Draga d’Orlando di Francesco Tromba. In “Propugnatore” Vol. IV. Parte II, pag. 66. Bologna 1891 – G. M CRONI : Dizionario di erudizione etc. Vol. XXXIII, pag. 79 e seg. – F. Haym: Biblioteca Italiana. Milano 1803. Vol. II, pag. 46 – M. Catalano: Il Romanzo di Perugia e Cordano. (In Bollettino della R a . Deputazione di Storia Patria per l’Umbria. Vol. XXVII. Perugia 1924. pag. 58).

718 – PARTE TERZA – Miscellanea

FRANCESCO TROMBA, come scrittore, non potè evitare tutti i difetti dell’epoca in cui visse e infatti il suo stile è piuttosto rozzo e ricco di forme dialettali, il ritmo delle ottave e la struttura dei versi, sono spesso difettosi, come pure i richiami storici non sempre vanno esenti da errori e ciò forse perché errati saranno stati anche molti degli antichi Codici a cui egli attinse. Però non si può negare al Tromba un ingegno pronto e spigliato, ed una straordinaria immaginazione, tanto che egli alcune volte raggiunge l’iperbole e rasenta il grottesco nella concezione degli episodi, che s’intrecciano nel modo più complicato, spesso rendendo difficile il tener dietro al racconto. Questo difetto del resto, notasi in quasi tutti i poemi di tal maniera, tra i quali quelli del Tromba, meriterebbero oggi di essere conosciuti e studiati, non dai soli filologi e dai bibliografi, ricercatori di rare edizioni, ma anche dai critici letterari, per la fulgida storia dell’epopea romanzesca in Italia.

Di Francesco Tromba, ci son pervenuti vari Poemi Cavallereschi tra i quali: La Draga de Orlando Innamorato – La Trabisonda ed il Rinaldo Furioso.

La Draga de Orlando Innamorato, se non il più antico, è certo il più raro tra i molti poemi epici conosciuti. Di esso la più remota notizia bibliografica ci è data dallo storico Veneziano Marino Sanuto il Giovane (1466-1535) nel Cod. Marc. CI. IX, Num. 369 a pag. 231; poi cadde per lungo tempo in dimenticanza, affatto sconosciuto ai bibliografi del Settecento quali l’Haym, il Tiraboschi ed il Quadrio, che pur conobbero altre opere del Tromba, sino a che, nella prima metà del secolo XIX, ricomparve descritto nei ben noti Cataloghi Inglesi di vendita di Riccardo Heber (Parte IX, Num. 2951) e nelle ricche Bibliografie allora pubblicate dal Melzi-Tosi, dal Graesse, dal Brunet, dal Ferrano e dal Vermiglioli.

L’intera opera della Dragha, doveva essere divìsa in tre libri, dei quali sono pervenuti sino a noi i due primi soltanto, ma potrebbe anche darsi che il terzo non fosse stato mai pubblicato. Del primo libro, che si sappia, esiste oggi in Italia un solo esemplare, conservato tra le opere rare nella Biblioteca V. Emanuele di Roma, che l’acquistò dal defunto letterato Giacomo Vanzolini. Del secondo libro, se ne conoscono due sole copie, delle quali l’ una fa parte della Biblioteca Trivulziana in Milano e l’altra trovasi nella Biblioteca Classense di Ravenna. Data la rarità di quest’opera del Tromba, non sia discaro al lettore discorrerne alquanto:

II primo Libro, in ottavo grande, quasi in quarto, con segnatura AL, porta nella prima facciata il titolo seguente: Opera nova chiamata la Dragha de Orlando innamorato : dove si contene de molte battaglie: inamoramenti: et come Renaldo si conciò con Plutone in lo inferno. Sotto questo titolo, vedesi una xilografia rappresentante demoni, donne, cavalieri e figure allegoriche. Nella se conda facciata si contiene una lunga lettera di dedica che comincia:

719 – PARTE TERZA – Miscellanea

Alla generosa et illustre casa Bagliona. El suo fidelissimo subgecto et humile mancipio. Francesco Tromba da Gualdo de Nucea. Filicità perpetua. Questa dedica, sia per lo stile, sia pei concetti, è invero assai curiosa ed originale, e ad essa segue un sonetto con il quale l’Editore invita il pubblico a comperare il libro. Con la prima facciata del secondo foglio, comincia il testo del poema, in ottava rima e in diciassette canti, in tutto millesettecentotrentotto ottave, con una xilografia al principio di ogni canto. Queste xilografie rappresentano generalmente avventure guerresche, le quali però nulla hanno a che fare con la narrazione del testo. Disegnate forse per qualche altro poema cavalleresco, dai tipografi furono inserite, per abbellimento, anche nel libro del Tromba, evitando così la spesa di farne altre nuove e speciali. L’ultima ottava termina al foglio 91t. con il verso: « Como aderite nel libro seguente», dopo di che si legge: Finito el primo libro de la Draga de Orlando inamorato, stampato per me Bianchina del Lione et Francescho Tromba da Gualdo de Nucera in la inclita città de Perusia, adì 15 de marzo MDXXV.

Ora qui cade acconcio notare, che dalla lettura di questa frase, risulta un fatto importantissimo per la biografia del Tromba e cioè che costui, non fu soltanto lo scrittore della Draga d’Orlando, ma ne fu anche lo stampatore in unione a Cosmo da Verona, detto appunto Bianchino del Leone, a Perugia. Ciò si deduce inoltre dall’ultimo foglio del libro in discorso (fogl. 92 per quanto non numerato) dove, nella prima facciata, trovasi il decreto di concessione dei soliti privilegi agli editori da parte dell’Autorità Ecclesiastica e che contiene tra l’altro le parole: «… librum intitulatum: La Draga de Orlando Inamorato, sumptibus et expensis Cosmi de Verona alias Bianchino habitatoris Perusie et Francisci Tromba de Gualdo Nuce rie Impressos et stampatos ». E se ciò non bastasse a dimostrare la professione, forse abituale, di stampatore in Francesco Tromba, aggiungerò che al principio del poema, dopo la nona ottava, vi è una piccola xilografia rappresentante un camera divisa in due parti; da un lato si vede lo studio dell’Autore, dove costui, seduto al tavolino, è intento a scrivere i suoi poemi, dall’altro lato vedesi l’officina tipografica, con i torchi e gli altri arnesi dello stampatore.

Non è qui il caso di descrivere la complicata trama di questo primo libro del poema del Tromba, in cui agiscono molteplici personaggi, tra i quali una donzella fornita di poteri soprannaturali, che chiamasi Draga e che da il titolo all’Opera. Di tal libro, sia sotto l’aspetto tipografico, sia come descrizione del contenuto, diede una diffusa relazione il già ricordato Giacomo Vanzolini, nel Periodico «Il Propugnatore ». Costui, dopo aver riconosciuto l’utilità che ne risentirebbe la storia del Poema Epico, ricercando a quali fonti il Tromba abbia attinto, aggiunge che il suo libro è importante perché « non consiste soltanto in uno di quei poemi romanzeschi di fattura popolare che fiorivano cosi numerosi tra il XV secolo e il XVI, ma è anche scritto in dialetto, nel dialetto Umbro quale doveva essere in sul principio del Cinquecento. Forse la lettura del primo Canto non persuaderà tutti di ciò, poiché esso è dei più

720 – PARTE TERZA – Miscellanea

corretti e, dirò così, italianizzati; ma tra gli altri canti ve n’ha parecchi così ricchi di forme dialettali, da convincere, s’io non m’inganno, i più ritrosi».

Il secondo libro del Poema, in 4°, porta il seguente titolo, scritto a caratteri Gotici nella prima facciata: Incomincia el secondo libro della Dragha de Orlando dove tracta de molte aspere bactaglie et como Orlando dove tracta de molte aspere bactaglie et como Orlando passò li monti Caspi et andò a una Cità de Giudei chiamata burbanza et felli convertire alla fede christiana novamente historiato».

Sotto questo titolo, vedesi la figura di un guerriero a cavallo recante una bandiera. Nella seconda facciata del foglio leggesi la dedica ai Baglioni di Perugia e il sonetto per invitare all’acquisto dell’Opera, esattamente come nel primo libro. Con il secondo foglio comincia il testo del Poema, sempre in ottava rima e diviso in sedici canti, con xilografie rappresentanti scene guerresche. Nella strofa finale, si annunzia un futuro terzo libro dell’Opera, dopo di che nella prima facciata del foglio 102 nonché ultimo, si legge: Finito è el secondo libro della Draga composto per Francesco Tromba da Gualdo de Nugea: translactato delle ultime croniche de lo Istoriogrofo Sigimbertho: e corredo per mano del vescovo Tarpino. A questa scritta segue una figura consistente nel distintivo tipografico dello Stampatore (un leone con libro e spada) e di poi: Stampato in perosa: per Cosmo da Verona, dieta Bianchina del Leone. Anno del Signore MCCCCCXXVÌI. Regnante el N. S. Clemente VII Adì XXVI del mese de Maggio. Deo gratias. A tergo di quest’ultimo foglio, il solito decreto ecclesiastico per la concessione dei privilegi.

In questo secondo libro della Draga, non risulta che Francesco Tromba abbia prestato anche l’opera sua di stampatore, ma esso è per la nostra città assai più interessante del primo libro, perché contiene nel penultimo canto, una chiara dimostrazione dei rapporti che, ai tempi del Tromba, correvano tra la sua Patria e la vicina Nocera, secolarmente divise ed in lotta, per ragioni di predominanza. Infatti nel canto XV, il Poeta trasporta e fa agire i vari personaggi del Poema in Tadino, l’antica città Latina, che, dopo il Mille, diede origine a Gualdo e così trova modo di porre in bocca ad un’indovina, una profezia sulle future vicende storielle di quella città. La maga, prevede appunto, lamentandosi, che Tadino, grande ed illustre, per opera delle invasioni barbariche dovrà poi ridursi a piccolo paese che avrà per di più l’onta di esser chiamato Gualdo di Nocera, come infatti chiamavasi Gualdo Tadino ai tempi del Tromba, e ciò perché i Nocerini, procurandosi un Vescovato proprio e attribuendosi così un’importanza politica che non corrisponde a realtà, s’imporranno a Gualdo adoperando anche la malignità ed il tradimento. E il Tromba, per bocca dell’indovina, non limita a queste soltanto le sue inscienze contro Nocera e conclude infine dicendo che sarebbe cosa più conforme a giustizia che essa si chiamasse Nocera di Gualdo.

721 – PARTE TERZA – Miscellanea

Un altro poema epico in ottava rima, intitolato Rinaldo Furioso, diviso in due libri, ciascuno contenente diciassette canti, va sotto il nome di Francesco Tromba, e di esso si conoscono le seguenti edizioni:

Rinaldo Furioso di Francesco Tromba de Gualdo de Nocera.

I Libro: Impresso in Venetia per Nicolo de Aristotile di Ferrara detto Zoppino . . . nel 1530 del mese di Aprile. (In 8°, di fog. 88, con xilografie, caratteri Gotici a due colonne).

II Libro: Stampato in Vinegia per Nicolò detto Zoppino de Aristotile 1531 adì 9 Decembrio. (In 8°, con xilografie, caratteri Gotici a due colonne). Ne esiste una copia nella Biblioteca Trivulziana in Milano.

Il primo et secondo libro di Rinaldo Furioso. Stampato nell’inclita città di Vinegia per Francisco Bindoni e Mapheo Pasini compagni. Nelli anni del Signore 1530 del mese di Agosto, (e alla fine del secondo libro) del mese di Ottobrio. Due libri in ottavo).

Rinaldo Furioso. Stampato nella inclita città di Vinegia per Augustino di Bendoni 1542. (In 8°, caratteri Gotici a due colonne, con xilografie, diviso in due libri).

Rinaldo Furioso. Il primo libro di Rinaldo Furioso di Francesco Tromba da Gualdo Nucea novamente impresso. In Vinegia 1550, (e in fine): Finisse el Primo libro di Rinaldo Furioso di Francesco Tromba da Gualdo di Nucea. Stampato nella inclita Città di Vinegia per Bartolomeo detto Limperadore e Francesco suo Genero 1550.

Secondo libro di Rinaldo Furioso di Francesco Tromba di Gualdo di Nucea. Novamente stampato. In Vinegia 1550, (e in fine): Finisse il secondo libro di Rinaldo Furioso di Francesco Tromba da Gualdo di Nucea. Stampato nella città di Vinegia per Bartolomeo detto lo Imperatore.

Queste due ultime edizioni sono in 8° e in caratteri Gotici. Esistono nella Biblioteca Comunale di Macerata. Il Brunet, ricopiato poi dal Graesse, a tal proposito, scrive per errore, che il I libro porta sul frontespizio la data 1542 e che nel fine vi è segnato l’anno 1550. Quest’ultima data si legge invece anche nel frontespizio.

Per quest’Opera del Tromba si verifica un fatto assai singolare. Esiste un’edizione così intitolata: Rinaldo Furioso di Messer Marco Cavallo Anconitano novamente stampato et con ogni diligentia corretto. Stampato nella inclita città di Vinegia appresso Santo Moyse nelle case Nuove Iustiniane per Francesco Bindoni et Mapheo Pasini compagni. Nelli anni …. 1526 del mese di Marzo. (In 8°). Contiene diciassette canti in stanze di otto versi. Il primo canto comincia: Se mai gran prove a dir me mossi in carte – hor cantar le più horrende il ciel minclina. L’autore promette infine di scrivere una seconda parte del poema. Ora, si noti bene, quest’Opera corrisponde esattamente al primo libro di quel Rinaldo

722 – PARTE TERZA – Miscellanea

Furioso che dal 1530 in poi abbiamo visto stampato con il nome di Francesco Tromba in unione ad un secondo libro dell’Opera stessa. Molto hanno discusso i Bibliografi su questo fatto, ma la spiegazione più naturale, a me sembra possa essere la seguente: Effettivamente il primo libro del Rinaldo Furioso è opera di Marco Cavallo Anconitano, poeta di cui fanno cenno gli scrittori di Storia letteraria e di Poesia epica. In seguito Francesco Tromba, facendo sua la promessa non mantenuta dal Cavallo di proseguire, come sopra si è detto, il poema, ne scrisse il secondo libro, che comincia con i versi: Per ragion naturale ogni mortale – Osservar die la fé mentre che vive, e lo fece pubblicare unitamente al primo composto da Marco Cavallo. Ma gli Stampatori, in un’epoca in cui non si badava tanto al sottile, non si curarono di scindere la paternità delle due parti del libro e diedero senz’altro alla luce l’intero poema con il nome più recente e più noto di Francesco Tromba, il qual sistema fu poi seguito e ripetuto, per ignoranza della cosa, anche nelle successive edizioni.

A Francesco Tromba appartiene un terzo poema eroico, la «Trabisonda », Opera in ottava rima e sedici canti, ben nota nell’epopea cavalieresca dei secoli XVI e XVII, per le molteplici edizioni che se ne fecero e delle quali i Bibliografi ricordano le seguenti :

Incommenza il libro intitulato la Trabisonda opera di stimo piacere: e molte a li auditori grata: si per le gran cose in essa detenute si et per li excelentissimi Uomini; li quali hanno al mondo acquistata eterna gloria et fama. E in fine: Impresso ne la inclita et alma citade de Bologna per mi Ugo Rugerii. Nel tempo del felice stato de la libertade de la detta Bologna. Regente sotto al divo giuanne secondo bentivoglio citadino primario. Neli anni del nostro Signore 1483: adì 30 de Marzo. (In fol. carattere Gotico, a due colonne). Edizione rarissima di cui in Italia esiste, per quanto mi consta, un solo esemplare nella Biblioteca Riccardiana di Firenze. Comincia con i versi « La risonante tuba del poeta – In ciclo hor coronato et pria in tera », e termina con quest’altri « Chi torna in Africa chi in Inghilterra. – Con Carlo mano non fecen più guerra ».

In Venetia. Bartolomeo de Zani da Portesio 1488. (In 4°, citata dal Melzi). – Impresso in Venesia per Christofolo Pensa da Mandel dell’anno de la natività del nostro Signore Jesu Christo 1492 adi 5 de Luio. (In 4°, di 149 fogli non numerati, a due colonne di 40 linee, caratteri Romani, citata dal Brunet. Un esemplare di questa edizione è stato venduto 580 franchi nel 1847). – Impresso in Venetia nel 1511 adì 25 de otubrio. (In 4°, a due colonne. Rara edizione citata dal Brunet). – Stampato in Venetia per Bernardin Venetian de Vidali nel 1518 adi 25 de octobrio. (In 4°, a due colonne con cinque ottave per colonna, pagine non numerate, caratteri rotondi, con xilografie. Edizione rarissima). – Impresso ne la Libreria Mina tiana … de Auosto. (In 4°, con xilografie, caratteri semigotici a due colonne con l’antiporta istoriata). Questo

723 – PARTE TERZA – Miscellanea

esemplare esisteva nella Collezione del medico Milanese Carlo Dall’Acqua, morto al principio del secolo XIX. La data non vi era leggibile, essendo il foglio deteriorato, sembra però che debba riferirsi dal 1515 al 1521. E’ citata dal Melzi e dal Ferrano ed è edizione straordinariamente rara. – In Vinegia per Aloise de’ Torti 1535. (In 4°, a due colonne, fogli non numerati, con xilografie. Citata nel « Catalogne des livres de la Biblioteque de feu M. Le due de la Valliere ». Paris. De Bure 1783. T. II, pag. 525). – Vineggia per Giovanne Padoano et Venturino de’ Ruffinelli 1535. (In 8°, con xilografie. Citata nel « Catalogue of thè library of thè late Richard Heber» Esq. London. 1834. 36. IX. 3002). – Stampato in Venetia per Bartholomeo detto l’Imperatore e Francesco suo genere. 1549. (In 8°, a due colonne, carattere semi­ gotico, con xilografie). – Stampata nell’indica città di Venetia per Giovanni Andrea Valvassore detto Guadagnino regnante l’inclito principe misser Marcantonio Trivisano nell’anni del nostro Signore Jesa Christo 1554. (In 8°, con xilografie. Ve ne è una copia nella Biblioteca Nazionale di Brera in Milano). – In Venetia 1558. (In 8°, a due colonne, caratteri Gotici, con xilografie. Citata in un Catalogo di Payne e Foss librai di Londra). – In Venetia per Alessandro de Vian 1568. (In 8°, citata dall’Haym). – In Venetia 1575. (In 8°, citata dal Melzi). – In Venetia. Pietro De’ Franceschi. 1576. (In 8°, con xilografie. Citata nel suddetto Catalogo di Heber). – In Venetia 1609. Appresso Domenico Imberti. (In 8°, a due colonne, con xilografie. Una copia è da me posseduta). – In Venetia appresso Domenico Imberti 1611. (In 8°. Ne esiste una copia nella Biblioteca Trivulziana in Milano). – In Venetia appresso Lucio Spineda 1616. (In 8°, con xilografie. Ne esiste una copia nella Biblioteca Ambrosiana di Milano). – In Venetia appresso Ghirardo et Iseppo Imberti 1623. (In 8°, con xilografie. Nella Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma e nell’Ambrosiana di Milano), – Venezia 1682. (In 8°, citata nel «Catalogue of thè library of George Hibbert». London 1829. N. 8096). – In Lacca. Per Domenico Marescandoli 1788. (In 8°. Nella Biblioteca Nazionale di Brera in Milano). – Lucca Marescandoli. (Senza data, in 8°, frontespizio con xilografie. Ne esiste una copia nella Biblioteca Marrucelliana di Firenze).

A proposito di questo interessante poema, che appartiene al Ciclo Carolingio, non sarà fuor di luogo fare alcune brevi osservazioni: Noteremo anzi tutto che nelle sue prime edizioni non figura il nome dell’autore Francesco Tromba, nome che comparve sul frontespizio del libro nelle successive edizioni del XVI e XVII secolo. Messo forse in sospetto da questo fatto, il Melzi, copiato poi dal Graesse e dal Brunet, pose in dubbio che la Trabisonda sia opera di Francesco Tromba e ciò anche in considerazione del troppo lungo periodo di tempo che corre dal 1483 (nel qual anno comparve la prima edizione della Trabisonda) all’epoca in cui vennero alla luce le successive opere del Tromba, delle quali l’ultima è la Draga d’Orlando stampata, come si è visto, in Perugia dal 1525 al 1527. Tra il 1483 e il 1527 corrono infatti ben quarantaquattro anni, la qual cosa a prima vista, potrebbe avvalorare il dubbio del Melzi.

724 – PARTE TERZA – Miscellanea

Immaginiamo però ora il caso, probabilissimo, che la Trabisonda sia stata scritta dal Tromba verso il ventitreesimo anno di età, aggiungiamo a questa i quarantaquattro anni decorsi tra la pubblicazione della Trabisonda e della Draga d’Orlando e troviamo che il Tromba, quando pubblicò quest’ ultima opera, avrebbe avuto sessantasette anni di età, estremi questi tutt’altro che inadatti per la produzione di opere letterarie. Ma, anche senza tener conto di ciò, è lecito obbiettare che nessuna prova noi abbiamo per affermare, come fa il Melzi, che il periodo in cui fiorì Francesco Tromba corrisponde all’epoca in cui fu stampata la Draga d’Orlando, poiché quest’opera potrebbe invece essere stata scritta dall’Autore anche vari anni prima della sua pubblicazione. D’altra parte, non vi è poi motivo per credere che le suddette edizioni dei due libri della Draga, portanti rispettivamente le date 1515 e 1527, siano proprio le prime e che non ve ne siano state altre precedenti, oggi ai Bibliografi sconosciute. Anzi, specie per quanto riguarda il secondo libro, si potrebbe invece asserire che l’edizione del 1527 non è la primitiva, considerando le ultime due parole del titolo, cioè la frase novamente historiato, che panni non debba riferirsi alla preesistenza del primo libro del Poema, ma bensì ad una antecedente edizione dello stesso secondo libro.

A tal proposito noteremo, come anche un altro noto Poema cavalleresco, l’Altobello, in una edizione di Venezia (Imberti 1611) in 8°, porta sul frontespizio, come nome dell’Autore, quello di Francesco Tromba. Ma circa tale attribuzione, vanno fatte davvero molte riserve, anche per il fatto che la prima edizione che si conosce dell’Altobello risale al 1476 e, rispetto al Tromba, effettivamente questa data comincia ad essere troppo precoce.

Noteremo infine, a proposito del nostro poeta, che il Vermiglioli nella: Biografia degli scrittori Perugini, parlando della antica Tipografia dei Cartolari in Perugia, che funzionò durante la prima metà del secolo XVI, tra le opere da questa stampate, ne ricorda una di Francesco Tromba, con questo titolo : « Guerre, battaglie nuovamente fatte in Provenza a Marsilia et a Oses con la rotta che ha dato el Sig. Renzo da Cerre col Sig. Federico de Bozza alii Spagnioli per mare e per terra et della venuta del Re per insino a Milano et altre terre della Lombardia con una prophetia apparsa al Re de Bertagna la qual manifesta molte cose de questo anno, che ha da venire, mai più audite ». Il libro termina con uno: « Strambotto composto per Niccolo libraro » (Nicolo Zoppino) e con le indicazioni tipografiche: «Stampate in Perosia ad instantia de Nicolo libraro nel MDXXV ».

Il Poema in discorso contiene le solite descrizioni di battaglie, giostre ed eroiche avventure di cavalieri e l’Autore, forse per allusione al suo cognome, come dice il Vermiglioli, si vede rappresentato in una xilografia di questo libro, in atto di suonare la tromba, a cavallo, nel mezzo di un accampamento, fuor delle mura di una città. Di quest’Opera io non conosco altri esemplari fuori di

725 – PARTE TERZA – Miscellanea

quello descritto dal Vermiglioli, né risulta che sia stata citata dai Bibliografi che elencarono le altre produzioni letterarie del Tromba.

II

GIROLAMO TROMBA, molto probabilmente fu fratello di Francesco Tromba, avendo ambedue vissuto nella medesima epoca, cioè tra la seconda metà del secolo XV e la prima metà del XVI. Alcuni Bibliografi e lo stesso Tiraboschi, errando, lo fanno nativo di Nocera-Umbra, pel fatto che in alcune tarde edizioni di un poema epico che egli ci tramandò, è indicato con il nome di Girolamo Tromba da Nocera. Ma egli è per certo Gualdese, e l’errore si spiega facilmente, pensando che, prima di acquistare l’importanza attuale, nei secoli scorsi, la nostra città chiamavasi non già Gualdo Tadino, ma Gualdo di Nocera, e frequentemente accadeva che si riferisse al maggior luogo (Nocera) quello che spettava al minore (Gualdo); cosi come oggi, nelle pratiche ufficiali, si suole indicare, quale patria di un individuo, il capoluogo del suo Comune, anche se nato in una frazione di esso portante diverso nome. Similmente spesso, in altri casi, si dava come patria, ad un insigne uomo, la città in cui aveva più a lungo dimorato o quella di cui aveva ottenuto la cittadinanza per le sue benemerenze. Quanti sanno, ad esempio, che il grande pittore Pietro Vannucci, generalmente chiamato Pietro Perugino, è nativo invece di Città della Pieve, che Francesca da Rimini ebbe i natali a Ravenna, S. Antonio da Padova a Lisbona, S. Paolino da Nola a Bordeaux, S. Nicolo da Tolentino presso Fermo, S. Nicolo di Bari a Patara nella Licia? Che il celebre vasaro Mastro Giorgio da Gubbio, non era Eugubino?

Come di Francesco Tromba, anche di Girolamo nulla sappiamo per quel che ne riguarda la vita e costui sarebbe anzi a noi oggi completamente sconosciuto se non ci avesse tramandato un poema romanzesco in quarantasette canti ed in ottava rima, che appartiene anch’esso al Ciclo Carolingio ed ha per soggetto le avventure del Danese Uggieri. Comincia con i versi: Ave Regina piena d’humiltade – Madre verace de li pecatori – Vita dulcedo sei di dignitate – Perché lattasti il signor de Signori …….

E’ opera letterariamente di poco conto, ma che interessa invece moltissimo per la storia dell’epopea cavalleresca in Italia, e i pochi esemplari che oggi restano delle sue numerose edizioni, offrirono abbondante materia di studio ai più noti Bibliografi, che di esse diedero l’elenco seguente:

Libro de le bataglie del Danese. Mediolani. Leonardo Pachel 1498. (In 4°. Edizione rarissima citata nel « Catalogne des livres rares et precieux et des manuscrits composant la Bibliothèque de M. De Cotte» Paris 1804. N° 1122).

Libro del Danese. Impresso in Venetia del 1511 adì 4 de Luio. (Senza nome di stampatore, in 4°, con xilografie, carattere rotondo a due colonne. Edizione rarissima).

726 – PARTE TERZA – Miscellanea

Libro del Danese. Milano. Joh. Aug. Scinzenzeler 1513

(secondo il Brunet e il Graesse), 1515 (secondo il Melzi e il Ferrario). In 4°, con xilografie. Citato nel « Catalogne des livres de L. J. Gaignat. Paris 1769».

Libro del Danese Ugieri. Impresso in Venetia per Bernardino di Bendoni 1544 Adì 23 Febraro. (In 4°, carattere rotondo a due colonne, con xilografie. Nella Biblioteca Reale di Parigi).

Idem: In Venetia per gli Heredi di Gioanne Paduano 1553.

(In 4°, con xilografie. Ne esiste copia nella Biblioteca Ambrosiana di Milano).

Danese Ugieri. In Venetia presso Fabio et Agostin Zo pini 1588. (In 8°, a due colonne con xilografie. Ne esiste copia nella Biblioteca Corsiniana in Roma, Fondo Nicolo Rossi).

Danese Ugieri. In Venetia appresso Agostin Zoppini e Ne poti 1599. (In 8°. In questa edizione i canti sono disposti in maniera confusa e sembrano essere 52 anzi che 47).

Danese Ugieri. In Venetia presso Ghirardo Imberti 1611.

(In 8°. In questa e nella seguente edizione, il Poema, secondo il Melzi è ridotto a 46 canti).

Danese Ugieri. In Venetia presso Ghirardo Imberti 1638.

(In 16°. Ne esiste copia nella Biblioteca Trivulziana di Milano).

A proposito del Poema in discorso, va notato che solo poche edizioni di esso, tra le quali il Quadrio cita quella di Venezia di Agostino Zoppini del 1599, portano stampato il nome dell’Autore, Girolamo Tromba. Lo stesso Quadrio nota poi, che costui trasse forse l’ispirazione del Poema da un antico romanzo Francese di cavalleria « Ogier le Danois » stampato in Parigi, in 4°, senz’anno, con caratteri Gotici.

Porfirio Feliciani.

Nacque da Giovan Battista Feliciani, il 19 Aprile del 1554 e la sua ava materna appartenne ai Barzi di Gubbio. Ancor giovanetto si trasferì da Gualdo in Roma, per dedicarsi allo studio delle Leggi, ma dimostrando grande tendenza per la Letteratura e la Poesia, fu preso a benvolere dall’Arcivescovo Girolamo Verallo, che lo distolse dalla via intrapresa e lo condusse nella propria famiglia nominandolo altresì suo Segretario. Con tale qualifica, dopo la morte del Verallo, passò ai servigi di Anton Maria Salviati, allora

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Chierico della Camera Apostolica e poi Cardinale. In questo tempo, e propriamente nel 1598, il Feliciani fu anche creato Abbate Commendatario dell’Abbazia Gualdese di S. Benedetto. Defunto il Card. Salviati, andò, sempre quale Segretario, alla dipendenza del Cardinale Silvestre Aldobrandini del Titolo di S. Cesario, pronipote del Papa. Nello stesso tempo, funzionò anche quale Segretario e Maggiordomo di Donna Olimpia Aldobrandini. Prestò l’opera sua a questa illustre famiglia durante tutto il Pontificato di Clemente Vili, sino ai primi anni di quello di Paolo V. Fu quest’ultimo Pontefice che, ben conoscendo gli alti meriti del Feliciani, lo chiamò allora nella Segreteria di Stato, alla dipendenza del Segretario di Stato Card. Lanfranco Margotti, dopo la morte del quale, avvenuta nel 1611, gli successe in quell’alta carica del Governo Pontificio. Fu in quest’epoca intimo di Torquato Tasso, di Giovan Battista Guarini, di Giovan Battista Marini e di altri illustri letterati e poeti suoi coetanei. Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Foligno, della quale città fu eletto Vescovo il 2 Aprile 1612, avendo allora cinquantotto anni di età, e ai 10 di Maggio del 1623, per la sua età avanzata, con il permesso di Gregorio XV, si associava all’Episcopato Cristoforo Caetani da Anagni, Vescovo in partibus, di Laodicea, che alla morte del Feliciani, nel 1634 ai 2 di Ottobre, gli succedeva. Alcuni scrittori, errando pongono invece la sua morte nel 1632. Fu sepolto nella Cattedrale di Foligno. Politicamente godette ai suoi tempi molta influenza. Fu uomo di grande ingegno e dottrina, versatissimo nella Giurisprudenza, nelle Matematiche, nell’Astronomia, nella Filosofia e sopratutto nella Letteratura, per cui riscosse anche le lodi del celebre Tiraboschi il quale, nella sua Storia della Letteratura Italiana, scrisse che il Feliciani, come poeta, « benché non poco contraesse delle macchie dei suoi tempi, mostrò nondimeno che, in età più felice, sarebbe stato, tra i più felici ».

Di lui ci resta tra l’altro, conservato tra i manoscritti della Biblioteca Angelica in Roma, un interessante Epistolario che occupa ben ventisei grossi volumi, di oltre novemila fogli, in 4°, scritti quasi tutti da una stessa mano. Trattasi di migliaia di lettere indirizzate a Papi (Clemente VIII, Paolo V, Urbano VIII), a Imperatori, Re, Principi d’ogni parte d’Europa, a Legati e Nunzi Apostolici, a Cardinali, a Patriarchi, ad Arcivescovi, a Vescovi e ad innumerevoli diverse altre persone. Pubblicò anche una raccolta di sue poesie con il titolo: Rime morali et spirituali. In Foligno appresso Agostino Alterij 1630. Il volume, in 4°, di pag. 266, più l’indice senza numerazione, è dedicato al Card. Barberini. Consta di duecentoquattro componimenti poetici, notevoli per la grande dolcezza e purità dello stile. Un esemplare di questa pubblicazione, divenuta oggi assai rara, esiste nella Biblioteca del Seminario di Foligno, un altro esemplare nella Marciana di Venezia, un terzo nella Casanatense di Roma ed un quarto presso di me.

Una Poesia del Feliciani, dedicata a Feliziano Canuti da Trevi, leggesi anche a pag. 95 dell’opera: Rime sacre e morali de diversi

728 – PARTE TERZA – Miscellanea

autori, stampata in Foligno nel 1629, dal tipografo suddetto Agostino Alteri. (1)

Andrea di Pietro di Gionta dei Benzi .

Andrea di Pietro di Gionta (o Giunta) dei Benzi nacque in Gualdo Tadino, o nei suoi dintorni, dove anche oggi, specialmente nel villaggio denominato Cerqueto, esistono alcune antiche famiglie che portano, il cognome di Benzi o Bensì. Venne per certo alla luce circa la metà del XIV secolo, e la prima notizia che di lui ci resta si è che, datesi al sacerdozio, ottenne la Cappellania della Chiesa di S. Leopardo, allora esistente presso una borgata Gualdese, denominata Le Piagge.

Ignoriamo poi per quali avventurose vicende, divenuto Dottore in Legge, egli rapidamente ascendesse i più alti gradi sacerdotali, certo è che sul finire dell’anno 1388, dal Pontefice Urbano VI, venne eletto Arcivescovo di Spalato in Dalmazia. Questo Arcivescovato era infatti allora vacante per la volontaria abdicazione del presule Ugolino, il quale aveva, in conseguenza, nominato suo procuratore in Roma, presso la Sede Apostolica, tale Antonio da Gualdo, Scrivano Pontificio, affinchè si adoperasse presso il Pontefice, per fornire con sollecitudine, di un nuovo prelato, la residenza arcivescovile Spalatense, e molto probabilmente, fu appunto questo Antonio da Gualdo, che influì sull’animo di Papa Urbano VI, perché la scelta cadesse sul proprio concittadino Andrea dei Benzi.

L’importante e ricchissimo Arcivescovato di Spalato, si trovava in quell’epoca proprio sul confine tra il regno di Bosnia e quello d’Ungheria, ed il Benzi ebbe l’investitura di esso in momenti oltre modo difficili per gravi rivolgimenti e profonde perturbazioni politiche; ma con ammirabile destrezza e prudenza, egli seppe

(1) Giano Nicio eritreo (G. V. Rossi): Pinacotheca imaginum illustrium virorum. I. Imag. 75 – UGHELLl : Italia Sacra. Venezia 1722. Tomo 1, pag. 717

– Biblioteca Angelica in Roma: Epistolario di Porfirio Feliciani. Manoscritti. Vol. 1215 e seg. – L. JACOBILLI : Vite dei Santi e Beati di Gualdo. Già cit. Pag. 25 — G. B. LAURI: Theatri Romani Orchestra. Roma 1625. Pag. 50 – L. JACOBILLI : Vite dei Santi e Beati di Foligno. Foligno 1628. Pag. 104 – E. Narducci: Catalogus Codicum manus cripto rum praeter Graecos et Orientales in Bibliotheca Angelica, Tomo 1. Roma 1893. Da pag. 501 a pag. 523 – lad VOCAT : Dizionario Storico. Bassano 1806. Tomo III . Pag. 24 – Nuovo Dizionario I storico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri. Bassano 1796. Tomo V – F. ClROCCHIO: Vita di G. B. Vitelli. Foligno 1636. Pag. 310 – L. JACOBILLI: Bibliotheca Umbria e. Foligno 1658. Pag. 232 – G. TlRABOSCHI: Storia della Letteratura Italiana. Vol. IV. Capo III – G. M. dei CRESCIMBENI: L’Istoria della volgar poesia. Roma 1698. Pag. 287 – F. S. qua DRIo : Della Stona e della ragione d’ogni poesia. Voi. II. Parte 1 (Milano 1741). Pag. 304 – P. PERSICO: Del Segretario. Venezia 1629. Pag. 146 – MORONI: Dizionario di Erudizione etc. Vol. XXV, Pag. 141 ; Voi. XXX11I, pag. 79 e seg.

– L. JACOBILLI: Vita di S. Feliciano. Foligno 1626. Pag. 182 e seg. – Biblioteca del Seminario di Foligno (Manoscritti di Dorio e Iacobilli). Codice A, V. 5, e. 59, 225t, 230t. – C. A LESSI: Elogia, virorum illustrium Augustae Perusiae. Centur. II. Tomo II. pag. 1184. (Ms. nella Bibl. Comunale di Perugia),

729 – PARTE TERZA – Miscellanea

acquistarsi l’amicizia di Stefano Tvarko Re di Bosnia, e di Sigismondo Re d’Ungheria, che lo ebbero come Consigliere e dai quali fu tenuto in gran pregio. Nei diplomi e nelle lettere dei due Re, il Gualdese viene infatti indicato coi titoli più lusinghieri, come «Legum Doctor; Fidelis consiliarius et capellanus noster spiritualis; noster consiliarius carus et fidelis». Di questa amicizia l’Arcivescovo approfittò largamente, ottenendo straordinari benefici, privilegi ed immunità per la sua importante Diocesi, della quale difese con ardore i diritti, contro nobili cittadini e contro lo stesso Comune di Spalato, recuperando non poche rendite e molti beni ecclesiastici, già da tempo perduti per illecite usurpazioni. Egli ottenne persino la facoltà di poter costruire fortilizi e castelli a difesa delle sue terre che, estesissime e rette secondo le leggi medioevali, potevansi considerare quasi un piccolo regno, come risulta da dettagliati inventari, fatti compilare dall’arcivescovo Andrea, che sono sino a noi pervenuti negli Archivi ecclesiastici Spalatensi. Della grande opera compiuta dal Benzi a pro dell’Archidiocesi di Spalato, parla del resto a lungo il Parlati nella sua opera «Illirico Sacro». (1)

Ma la straordinaria attività del Benzi, la sua grande ingerenza nella vita pubblica, se da un lato gli procurarono la protezione e l’amicizia dei Re di Bosnia e d’Ungheria, gli crearono d’altra parte innumerevoli inimicizie ed invidie tra il popolo. Già si è detto che in quell’epoca, a Spalato, per ragioni di dominio politico, si combatteva una fierissima lotta. Sigismondo Re d’Ungheria, era da tempo in guerra con Ladislao Re di Napoli, che tentava togliergli il regno, e i sudditi di Sigismondo, a Spalato specialmente, si erano divisi in due opposte fazioni, una delle quali faceva capo al legittimo Re Sigismondo, e l’altra apertamente parteggiava pel pretendente Re Ladislao. I due partiti, secondo l’usanza medioevale, spesso addivenivano fra loro a violenti e sanguinosi conflitti e pare che il possente Arcivescovo di Spalato, non rimanesse neutrale tra i contendenti, ma adoperasse tutta la sua influenza, per favorire, anche con le armi, i fautori di Sigismondo; ed egli stesso usava andare manifestamente armato, cosa del resto non contraria ai costumi di quei tempi guerreschi. Da tutto ciò, l’odio fierissimo che verso di lui rivolse la popolazione Spalatense, per la massima parte avversa al Re d’Ungheria e fautrice di Ladislao, e quest’odio, verso la metà del Decembre 1402, eruppe alfine in una vera e propria sommossa contro l’Arcivescovo che, assalito e malmenato per via dalla folla inferocita, si salvò a stento nel suo sicuro castello, fuggendo poi nascostamente dalla città per rifugiarsi alla corte dell’amico suo Sigismondo; mentre a Spalato le torri e i fortilizi eretti dell’Arcivescovo a difesa dei propri domini, venivano a furia di popolo incendiati e rasi al suolo, e le immunità, i

(1) D. FARLATI; Illirico Sacro. Venezia 1765. Tomo III, pag. 332 e seg. – S. COSMO: Costitutiones Synodi Diocesanae Spalatensis. Spalato 1875. pag. 97, 98 e XX. – C. Eubel : Hierarchia Catholica Medii Aevi. Monasteri; 1898. pag. 484.

730 – PARTE TERZA – Miscellanea

privilegi, i diritti elargiti allo stesso, annullati o soppressi.

Il Pontefice, per questi fatti, fulminò con i suoi anatemi i cittadini di Spalato, i quali non ne tennero però conto, tanto è vero che nello stesso mese, al posto del Benzi, dessero come nuovo Arcivescovo tal Marino de Cutheis. Ma Papa Bonifazio IX abrogò la elezione di questi e solo nel seguente anno 1403, venuto a più miti consigli, decretò l’arcivescovato a Pellegrino, della stirpe reale d’Aragona, dando in compenso ad Andrea dei Benzi, il titolo, puramente onorifico, di Vescovo Samaritano, cioè di Samaria nella Palestina, che era stata infatti dal Pontefice dichiarata sede vescovile in partibus, sotto l’arcivescovato, pure in partibus,di Cesarea. (1)

II Benzi però, anche dopo la sua cacciata dalla Diocesi di Spalato, seguitò, almeno sino al 1413, a ritenere nelle lettere diplomatiche del Re d’Ungheria, il titolo di Arcivescovo Spalatense, nonostante che questo Arcivescovato possedesse regolarmente un nuovo e proprio Pastore. Ciò per certo si deve al fatto, che il Benzi non aveva ancora rinunciato ai suoi diritti sul seggio vescovile da cui era stato violentemente cacciato, tanto più che, patrocinatore di questi diritti, si era fatto lo stesso Re d’Ungheria, il quale infatti, come vedremo, sino al suddetto anno 1413, non volle riconoscere i successori del Vescovo Andrea nella Diocesi Spalatense. (2)

Mentre il Gualdese risiedeva alla Corte di Re Sigismondo, accadde che in Ungheria rimase deserta la sede vescovile di Agria, città posta sull’Eger, il di cui vescovo, Tommaso di Ludany, era dovuto fuggire, come il Benzi, per una sedizione sorta contro lo stesso Re Sigismondo. Al vescovato Agriense venne allora proposto, quale Vicario, Andrea da Gualdo, e ciò chiaro appare anche dalle seguenti parole di una sua lettera, data da Esperies l’anno 1405: «Nos Andreas miseratione divina Archiepiscopus Spalatensis et Legum Doctor, Vicariusque in spiritualibus ac Pontificalibus, dioecesis Agriensis Generalis, per sedem Apostolicam specialiter deputatus … (3)

Durante il suo Vicariato nella diocesi Agriense, e propriamente nel 1407, il Benzi fu da Re Sigismondo inviato al Pontefice quale oratore, unitamente a Valentino, Prete Cardinale del titolo di S. Fabiano, Vescovo di Cinque Chiese, (Funfkirchen) città d’Ungheria, per ottenere la concessione delle indulgenze a coloro che avessero seguito le insegne regie nella guerra contro i Turchi; e a tale richiesta Papa Gregorio XII acconsentì con rescritto dato il 2 di Novembre di quello stesso anno. (4)

(1) Farlati: Op. e Vol. cit., da pag. 350 a 357 – MORONI: Op. cit., Vol. LXI, pag. 19; Vol. LXVI1I, pag. 215 – L. WADDING: Epitome Annaliam Ordinis Minorum. Tomo V.

(2) O. fejèr: Codice Diplomatico dell’Ungheria, Tomo X, Vol. V, pag. 317, 322, 325, 465, 477.

(3) Fejér: Op. cit., Tomo X, Voi. IV, pag. 428 – N. Schmitth: Vescovi Agriensi. Vol. I, pag 383 – Eubel : Op. cit., pag. 77 (in nota).

(4) CACCONIO: Vite dei Romani Pontefici. Roma 1630, Tomo I, pag. 984.

731 – PARTE TERZA – Miscellanea

Nel seguente, dal Papa suddetto, mediante Breve dato a Siena nel Mese di Agosto, Andrea dei Benzi veniva inoltre nominato Collettore Generale di tutti i redditi della Camera Apostolica in Ungheria, per le provincie Colocense e Strigoniense. (1)

II 7 Maggio 1409 moriva l’Arcivescovo di Spalato, Pellegrino d’Aragona, ed in sua vece i Canonici di quella città eleggevano poi l’Arcidiacono Spalatense, Domnio del Giudice. Tale elezione veniva ratificata da Papa Giovanni XXIII che nello stesso tempo, il 30 Luglio 1410, forse per prevenire e paralizzare in Andrea qualche aspirazione al ritorno nella Chiesa Spalatense, Io liberava da qualsiasi vincolo che ancora poteva tenerlo legato all’Episcopato di Spalato e gli conferiva il titolo, puramente onorifico, di Arcivescovo Tebano, come già prima aveva avuto l’altro titolo di Vescovo Samaritano. (2)

Ma il Re Sigismondo, fedele protettore d’Andrea, allo scopo di favorire il ritorno di costui alla primitiva ed agognata sua residenza, non approvava l’elezione del Domnio. Forse a ciò lo spingeva anche un sentimento egoistico, il bisogno cioè di porre a contatto con gli Spalatensi malfidi, un prelato che era sua emanazione, e che avrebbe favorito l’autorità del suo regale protettore. Il Papa abrogava allora l’elezione del Domnio, ed eleggeva Arcivescovo di Spalato il Vescovo Faentino Pietro del Pago. Però il Re d’Ungheria rifiutava anche il Pago e nel 1412, il giorno della festa del B. Valentino martire, così scriveva alla popolazione Spalatense: «… Noi vogliamo assolutamente che sia creduto, ritenuto, venerato e reputato, come vero Arcivescovo Spalatense, il nostro Rev.mo Andrea Arcivescovo di Spalato e nessun’altro; ordiniamo quindi irrevocabilmente e comandiamo con tutta la nostra precisa volontà, alla vostra fedeltà ed a ciascuno di voi, che, appena ricevuta la presente lettera, qualunque altro voi amiate, specialmente quel certo Duimo o Domnio, altra volta Arcidiacono di Spalato, e Pietro del Pago Vescovo Faentino, i quali tentando occupare ed occupando con diverse vie e modi il predetto Arcivescovato, hanno voluto ad ogni costo ingerirsi in ciò, con pregiudizio del nostro diritto di patronato e dello stesso Andrea Arcivescovo Spalatense, essendone invece esclusi, dobbiate accettare come vostro Pastore e vostro Metropolitano il suddetto Andrea… nonostante qualunque bolla o lettera, o qualsiasi altro rescritto… (3) Ma né l’autorità, né la volontà del Re Sigismondo, riuscivano a far ritornare Andrea da Gualdo all’Arcivescovato di Spalato, per cui lo stesso Re, mosso finalmente dalle ragioni e dalle preghiere degli Spalatensi, si decise a riconoscere la definitiva decadenza di Andrea da quella sede. Forse però il Re cedette perché a quest’ultimo riservava un non meno invidiabile Arcivescovato, quello cioè delle città Ungheresi di Colocza e Bàcs,

(1) Archivio Vaticano: Arm. 33, To. 12, Urban. VI, Bonifac. IX, Innoc. VII. Gregor. XII. Litter. Decim. et Collector., fol. 225 e 269.

(2) Moroni: Op. cit. Vol. LXVIII, pag. 215 – Farlati: Op e Vol. cit., pag 356. (Dagli atti concistoriali) – WADDING: Annali già cit. IX, 341 – S. Katona : Storia della Chiesa Metropolitana Colocense. 1800. Vol. 1, pag. 402.

(3) Farlati: Op. e Vol. cit., pag. 361, 363.

732 – PARTE TERZA – Miscellanea

al quale il Benzi venne infatti assunto ai 4 di Gennaio del 1413. E che tale sede fosse importantissima, lo prova il fatto che proprio agli Arcivescovi di Colocza, spettava il privilegio di incoronare i Re d’Ungheria. (1)

E’ bensì vero che in alcuni diplomi regi Ungheresi dal 1413 al 1417, diplomi certamente apocrifi o errati, è detto che la diocesi Colocense, ossia di Colocza, era vacante; ma ciò non infirma la realtà delle cose, poiché in molti altri insospettabili documenti, è specificata chiaramente la qualifica arcivescovile di Andrea dei Benzi. Una lettera di papa Giovanni XXIII del 15 Luglio 1414, si legge infatti indirizzata: «Venerabili fratri Andreae, Archiepiscopo Colocensis et Bacien sis Ecclesiarum invicem unitarum salutem ete. …… Inoltre il Re Sigismondo, scrivendo ai cittadini di Costanza, prima che in tale città fosse indetto 1’omonimo grande Concilio, cioè prima del Novembre 1414, perché promettessero ogni sicurezza e rispetto a Papa Giovanni XXIII che doveva recarsi al Concilio, comanda ad essi di darne assicurazione e giuramento «in manus Reverendi Andreae archiepiscopi Colocensis, utriusque juris doctoris, nostri consiliarit cari et fidelis, vice et nomine SS. D. N. P. P. Ioannis… ». È quindi fuori di dubbio che egli, nell’anno 1414, fosse già riconosciuto come Arcivescovo di Colocza e Bàcs, così dal Pontefice come dal Re d’Ungheria. (2)

Abbiamo qui sopra ricordato il Concilio di Costanza, convocato per volere di Papa Giovanni XXIII e del Re Sigismondo, Concilio restato celeberrimo nella storia, avendo posto fine al grande scisma d’Occidente, quando tre Pontefici contemporaneamente, e cioè lo stesso Giovanni XXIII, Gregorio XII e Benedetto XIII, si contendevano l’indivisibile Sede papale. L’Arcivescovo Andrea, ebbe grandissima parte nel lavori del Concilio che durò dal 1414 al 1418. Egli, tra il Luglio e l’Ottobre del 1414, dal Re Sigismondo fu incaricato di recarsi a Rimini, dove allora risiedeva Papa Gregorio XII, per persuaderlo a recarsi anch’esso a Costanza. Similmente l’altro Papa Giovanni XXIII, quasi nello stesso tempo, con la lettera del 15 Luglio 1414, poco sopra citata, scrisse all’Arcivescovo che, avendo saputo dovere quest’ultimo per andare a Costanza transitare nella Romagna ed altre terre d’Italia, cogliesse tale occasione per indurre i Prelati di quei luoghi a recarsi anch’essi al Concilio. (3)

Approfittando del viaggio in Italia, probabilmente Andrea dei Benzi visitò anche il luogo nativo. Questo noi sospettiamo pel fatto che poco tempo dopo, cioè il 13 Aprile del 1415, il Comune di Perugia,

(1) Farlati: Op. cit., Vol. V, pag. 460 – Katona: Op. cit., Vol. I, pag. 402 – EUBEL: Op. cit. pag. 205.

(2) THE1NER: Documenti Storici dell’Ungheria. Tomo II, pag. 194 – H. VON der Hardt: Il Gran Concilio Ecumenico di Costanza. Francoforte e Lipsia 1696, 1700. Tomo V, pag. 6 – FEJÉR: Op. cit., X, 5, pag. 404, 500, 573, 768, etc.

(3) Theiner: Op. cit., Tomo II , pag. 181, 194 – Schematismus cleri archidioecesis Colocensis et Bacsiensis ad annum Cristi 1886. Coloczae 1886. pag. XIV.

733 – PARTE TERZA – Miscellanea

su proposta del Vescovo Perugino Antonio dei Michelotti, il quale agiva dietro formale richiesta di Re Sigismondo e dello stesso Andrea, conferì solennemente la cittadinanza di Perugia all’arcivescovo Benzi, ai tre fratelli di questo, Bartolomeo, Pietro Paolo, e Simone, nonché ai figli di Simone, come risulta da documenti originali dell’epoca. (1)

Disimpegnate le ambascerie ricevute per l’Italia e giunto a Costanza, il Gualdese quivi adempì appieno all’incarico commessogli dal Re d’Ungheria, di assicurare cioè la dovuta reverenza e sicurezza al Pontefice, quando questi avesse posto piede nella città prescelta a sede del gran Concilio. Infatti dal popolo e dai magistrati di Costanza solennemente e pubblicamente, nel Palazzo del Comune, ricevette sul Vangelo la formula del giuramento e le promesse di fedeltà, richieste pel papa Giovanni XXIII, dal Re Sigismondo. (2)

Compiuta felicemente anche questa delegazione, pare che Andrea dei Benzi si allontanasse, ma per poco tempo, da Costanza, poiché vediamo che quivi ritornò l’anno seguente, per prendere attiva parte ai lavori del Concilio. In quegli Atti Conciliari, con la data 9 Febbraio 1415, leggesi infatti la notizia: «Archiepiscopas Strigoniensis, necnon Andreas Colocensis, hoc fere tempore venerunt». Rimase poi in quella città sino alla fine del Concilio, avvenuta il 22 Aprile 1418, con la deposizione dei tre Papi contendenti. Tanto è ciò vero, che nel documento con cui il nuovo Pontefice Martino V, ai 26 di Gennaio del 1418, concedeva in premio al Re Sigismondo, cui si doveva la buona riuscita del Concilio, di poter raccogliere per un anno la decima dei beni ecclesiastici del clero Germanico, si legge: « …. Datum Constantiae …. Anno Dom. 1418 Ind. II, die vero lunae, 2 mensis Maij…. praesentibus ibidem… reverendis in Christo patribus DD. Andrea archiespiscopo Colocensi.. .».

Terminato il Concilio, nel seguente mese di Maggio, Papa Martino V e il Re d’Ungheria abbandonarono definitivamente Costanza; ma l’Arcivescovo Andrea più non doveva tornare col suo Re, nelle lontane e pingui terre dell’Ungheria, alla sede di Colocza. Era infatti accaduto che l’anno prima della chiusura del Concilio, Guglielmo di Raronia, vescovo di Sion, città Svizzera capoluogo del Vallese, per effetto di alcuni violenti rivolgimenti popolari contro la sua potente famiglia che dominava a Sion, per salvare la vita, era dovuto fuggire da questa città e rifugiarsi a Berna, da dove mal poteva governare l’abbandonata e lontana diocesi Sedunense, ossia di Sion, latinamente Sedunum. Così narra anche Simler, nella sua opera: Descrizione del Vallese e delle Alpi. Per ovviare a questa difficoltà gli stessi Prelati che allora partecipavano al Concilio, nel 1418 nominarono l’arcivescovo di Colocza, Andrea dei Benzi, quale semplice vicario o amministratore nella Diocesi di Sion, sino a che

(1) PELLINI: Op. cit., Parte II, pag. 211 – Annali Decemvirali: Nella Biblioteca Comunale di Perugia. Volume dell’anno 1415, fog. 36.

(2) von der Hardt: Op. cit., Tomo II, pag. 590, 606; Tomo IV, pag. 20; Tomo V, pag. 6.

734 – PARTE TERZA – Miscellanea

cioè il Vescovo Guglielmo di Raronia fosse restituito alla sua sede o succedesse un altro al suo posto; questa nomina fu regolarmente sanzionata in Roma da Martino V, che liberò altresì il Benzi dai legami che lo tenevano avvinto alla Chiesa di Colocza.

Lo stesso Simler, errando, narra poi che nel principio del 1420, tornata la pace nel Vallese, il vescovo Guglielmo de Raronia riprese possesso della sede di Sion. Ma con la scorta di antichi e autentici documenti, proveremo invece che Andrea dei Benzi, sino al termine della sua vita avventurosa, mantenne, prima come Vicario di Guglielmo di Raronia, poi come Vescovo effettivo, l’amministrazione della Chiesa Sedunense. Poiché infatti, essendo morto il fuggiasco titolare della Diocesi di Sion, Guglielmo, il Benzi che, come si è detto, in tale sede aveva sino allora funzionato quale semplice Vicario episcopale, con Bolla del 20 Aprile 1431, da Papa Eugenio IV diretta al Capitolo di Sion, venne nominato effettivo Vescovo Sedunense. Nello stesso tempo il Pontefice, come già aveva fatto il suo predecessore Martino V, tornava a sciogliere il Benzi da qùalsiasi legame con l’Arcivescovato Colocense, che era rimasto sino a questo momento vacante, ed al quale fu, nello stesso anno, preposto, come Arcivescovo effettivo Giovanni dei Buondelmonti, che allora si trovava ad amministrarlo in qualità di Vicario al posto del Benzi. (1)

In relazione a tutto ciò, e come già vedemmo verificarsi quando Andrea abbandonò la Diocesi di Spalato, così anche dopo la sua partenza da Colocza, e propriamente sino all’anno 1431, benché residente a Sion, egli seguitò a ritenere il titolo di Arcivescovo Colocense, come risulta da molteplici lettere sue e da diplomi di Re Sigismondo, conservati negli Archivi di Sion e di Colocza, nei quali documenti il Benzi figura quale «Archiepiscopus Colocensis et administrator perpetuus ecclesie sedunensis». Ciò che a prima vista può sembrare una contradizione o un indebito accumulo di funzioni, si spiega invece benissimo col fatto suddetto che la Diocesi Colocense privata di Andrea dei Benzi, fu dichiarata vacante e tale rimase, retta da semplici Vicari, sino al 1431. Era quindi naturale che il Benzi, alla sua volta sino a tale anno semplicemente Vicario nella Diocesi di Sion, conservasse ancora il titolo arcivescovile della vacante Chiesa di Colocza, sebbene ben poche relazioni più avesse con essa, tanto è vero che dopo il 1419, epoca della sua andata a Sion, non si fa ulteriore menzione del Gualdese, nella Storia ecclesiastica dell’Ungheria. A ciò si aggiunga, che il Benzi non si era certo di buona voglia insediato a Sion, né aveva rinunciato ad ogni diritto sulla diocesi di Colocza, nonostante le ripetute autorizzazioni dategliene dalla Sede Apostolica. Tanto è

(1) J. Gremaud: Documets relatifs a l’histoire da Vallais. Lausanne 1875, 1884, Tomo V, Introd., pag. CXIII – JOASIAS SIMLER: Descrizione del Vallese e delle Alpi. 1633, pag. 146 e seg. – G. muller: Storia della Repubblica Svizzera. Lipsia 1788. Tomo III, pag. 154 – Gallia Cristiana: Parisiis 1770. Tomo XII, pag. 748 – Schematismus cleri colocensis, Coloczae 1887. Da pag. VII a pag. XVII – Eubel: Op. cit, pag. 465.

735 – PARTE TERZA – Miscellanea

vero, che nella su citata Bolla del 20 Aprile 1431, con cui Papa Eugenio IV comunicava al Capitolo di Sion la definitiva elezione del Benzi, vi è la seguente frase che porta molta luce sulle aspirazioni del Gualdese: Cum autetn predecessor (Martino V) …. Wilelmum (de Raronia) …. a regimine et administratione dicte ecclesie (di Sion) amovisset, dictumque Andream episcopum, licet ignarum et non consentientem, a vinculo qua ecclesie Colocensi (cui) preerat tenebatur absolvisset, ac ad eandem vestram ecclesiam transtulisset…. etc.». Per quale ragione poi Andrea dei Benzi sopportasse quell’involontario esilio tra gli aspri monti del Vallese, in una Diocesi allora agitata da violenti lotte intestine, politiche e religiose, né ponesse in opera tutta la sua influenza per ritornare alla prediletta, quieta e ricca residenza di Colocza, sotto la protezione di Sigismondo, è a noi ignoto. E ciò tanto più inesplicabile appare, se riflettiamo che, come si è detto, dal 1419 al 1431, dopo cioè la partenza del Benzi, l’Arcidiocesi Colocense rimase vacante, solo retta da semplici amministratori o vicari, e quindi facile poteva essere per lui il ritornarvi. (1)

Certo, che anche nel Vallese non gli dovevano mancare pingui rendite: Durante la reggenza della Diocesi Sedunenze e propriamente il 21 Agosto 1425, pare ricevesse infatti in Commenda anche l’Abbazia Benedettina di S. Adriano dì Zalawar, presso Wesprim, in Ungheria. Nella stessa Sion egli potè inoltre circondarsi di parenti e di concittadini, a sé chiamandoli dalla nativa Gualdo. Nelle pergamene dell’Archivio Sedunense, frequentemente s’incontrano in quell’epoca i loro nomi coi titoli e le funzioni che ad essi spettavano. Ad esempio esiste un Istrumento redatto a Sion il 26 Febbraio 1419, che comincia con le parole: Nos Andreas Dei et apostolice sedis grafia archiepiscopus Collocensis, generalis et perpetuus administrator in spiritualibus ecclesie Sedunensis per Sedem Apostolicam specialiter deputatus, comes et prefectus Vallesii… » il quale Istrumento nella sua conclusione, si dice fatto « … presentibus providis et honorabi libus viris magistro Hugonoto Richardi cive Sedunense et Corando Sancti Thomae de Gualdo Macerine dicecesis, et aliis pluribus testibus vocatis» per mano di «Raverius Conradini de Gualdo Nucerine diocesis, publicus sacra et imperiali auctoritate notarius …… In altri documenti dello stesso Archivio del Capitolo di Sion, ricorrono poi spesso le note seguenti:

« Seduni 24 Junii 1426 – Benedictus de Gualdo, rector capelle Sancte Trinitatis».

«30 Aprilis 1428 – Benedictus de Gualdo, capellanus dni Andree Archiepiscopi Coloc. administratoris ecclesie Sedunensis».

«Sedani 24 Maij 1428 – Petrus Andreas filius nobilis Amoris filii nobilis quondam Petri de Benchiis de Gualdo, Dei et imperialis majestatis grada comes palatinus».

(1) FEIER : Op. cit., Tomo X vol. 6, pag. 213, 273, 537, 676 . Schesmatismus cleri Colocensis. 1887, pag. XXIII – Schermatismus cleri archidiocesis Colocensis et Bacsiensis ad A. C. 1886 . pag. XVI e in nota N. 4.

736 – PARTE TERZA – Miscellanea

«2 Maij 1432 – Nobiles Petrus Andreas et Symon ejus frater de Benciis de Gualdo, nepotes episcopi, comites palatini »._

« 7 Januarij 1436 – Nobilis Petrus Andree nepos dni Andree episcopi Sedunensis». (1)

Qui noteremo infine, per incidenza, che dal su nominato Amore dei Benzi, nella persona del di lui figlio Benzo dei Benzi, si distaccò un ramo di questa famiglia, che andò a stabilirsi nella vicina città di Gubbio. Quivi anzi, questo Benzo di Amore, sposò Aura, figlia dell’esimio Dottore in Medicina Maestro Girolamo di Maestro Francesco. (2)

La morte dell’Arcivescovo Andrea avvenne a Sion, in castro Majorie, il 17 Aprile 1437, e fu sepolto nella Cattedrale di quella città presso il Battistero, ossia presso l’Altare di S. Andrea, da lui stesso fondato, in un monumentale sepolcro marmoreo, al quale, il 30 Gennaio del 1451, fu aggiunta una lunga iscrizione Gotica ricordante il defunto, iscrizione che comincia così:

Anno Dni M°. CCCC 0 . XXXVII 0 . die. mercurii. XVII. obiit.

aplis. hora. completorii, in castro. Maiorie R. P. D. Andreas.

de Gualdo. epis. Sedun. qui. rexit. ecclesiam. Sed. XIX. anis….

L’immagine del Benzi figura poi, tra molte altre, nel palazzo episcopale di Sion.

Alcuni erroneamente hanno creduto che il Benzi fosse morto in Gualdo Tadino, e ciò forse perché di lui esiste un Cenotafio o sepolcro commemorativo, nel pavimento della nostra Chiesa di S. Francesco, dove infatti anche oggi vedesi una grande lapide del XV secolo, che porta tutta intera scolpita la sua effigie, con nella destra il pastorale e nella sinistra la spada, in segno della giurisdizione anche temporale che aveva nella sua diocesi, come la maggior parte dei vescovi di Germania in quel tempo; ai lati del capo, due scudi portanti la figura di una testa di montone, arme dei Benzi. Alla lapide era annessa una grande iscrizione sepolcrale, che si ruppe nel 1790, ricostruendosi il pavimento del tempio.

Dopo aver narrato la vita del Benzi, è infine necessario qui fare a proposito suo un’importantissima annotazione. Daniele Parlati, trattando dell’Arcivescovo Andrea nella sua già citata opera «Illirico Sacro » cade in un facile errore pel fatto che, ignorando egli il cognome dell’Arcivescovo, cioè de Bentiis (dei Benzi) e avendolo sempre visto indicato nei documenti da lui consultati con le sole parole Andreas de Gualdo, scambiò il nome della patria di costui col nome di un’antica omonima famiglia Italiana e identificò infatti il cittadino Gualdese con un Andrea di Giovanni, facente parte, in quell’epoca, dell’illustre famiglia Gualdo di Vicenza. Lo stesso errore commise il Moroni nel suo « Dizionario dì Erudizione» facendo però derivare l’arcivescovo Andrea, anziché dalla famiglia Gualdo di Vicenza, dalla famiglia Gualdo di Rimini,

(1) Gremaud: Op. cit. Tomo IV, pag. 145, 155 – Schematismum cleri Colocensis, 1887. pag. XV – EUBEL : Op. cit. pag. 205 (nota 5).

(2) Cancelleria Vescovile di Gubbio: Rogiti di Pietro di Bedo di Benedetto dal 1434 al 1461. e. 44t, 105t, 111t , 116t, 137t, 152t, 157.

737 – PARTE TERZA – Miscellanea

e nel facile inganno caddero poi tutti gli altri storici posteriori, che trattando del Benzi, al Parlati ed al Moroni si attennero. Dei moderni ad esempio, il Crollalanza, che nel suo Dizionario Storico Blasonico, tra i membri della Famiglia Gualdo, ricorda un « Andrea arciv. di Spalato nel 1390 ». (1)

Ma che il padre dell’Arcivescovo si chiamasse Pietro e non Giovanni, che il suo cognome fosse «dei Benzi» e non « Gualdo» che la sua patria consistesse nell’attuale Gualdo Tadino o Gualdo di Nocera, come dicevasi ai suoi tempi, e non già Rimini o Vicenza, chiaro appare da molti fatti e da molti documenti che lo riguardano. Nell’atto già citato con cui i Magistrati di Perugia, nel 1415, concedevano al Benzi ed alla di lui famiglia la cittadinanza Perugina, trovasi scritto che il Re Sigismondo …….. recommictebat comuni Perusi dominum Andream de Gualdo Nucerie (Gualdo di Nocera) archiepiscopum colociensem, eius dilectum et fidelem consi liarum …….. e più avanti nello stesso documento, l’Arcivescovo è così indicato col padre, coi fratelli e coi nepoti: ……. domi nus Andreas, et Bartolomeus et dominus Petrus Paulus, filii olim magistri Petri Gionte de Bentiis de Gualdo, fratres carnales dicti domini Andree; et filii Ximonis fratris carnalis dicti domini archiepi scopi et nepotes dicti domini Andree …….. Negli Atti del Concilio di Costanza egli viene chiamato ……… Andreas de Benziis de Gualdo, Legum Doctor, Archiepiscopus Colocensis ». In una lettera del Re Sigismondo, con la data 24 Agosto 1412, lo stesso Presule è denominato « dominus Andreas de Bentiis de Gualdo, Archiepiscopus Spalatensis ». (2)

Tutto ciò senza tener conto di altri documenti, in cui il cognome latinizzato de Bentiis, passando attraverso le difficoltà di una lingua straniera, ne è uscito fuori deformato ma pur sempre riconoscibile. Infatti Stefano Katona, nella sua Storia della Chiesa Metropolitana Colocense, scrive de Brentiis. Cosi Ignazio de Batthyan, vescovo di Transilvania, che nei suoi manoscritti, tratti dagli Archivi Vaticani, riporta la nota seguente: «1413. 4 Ian. Fr. Andreas de Brume dictus, archiepiscopus Tebanensis, providetur de ecclesiis Colocensi et Bachiensi». Così nelle stesse Tavole Concistoriali, dove leggesi: «Anno 1413, pridie nonas Ianuarii, provisum est Eccle siae Colocensi et Bacsiensi unitis …… de persona Fr. Andreae, de Brunse dicti, archiepiscopi Thebani». E così infine l’Eubel, che nella sua « Hierarchia Catholica Medii Aevi » indica il nostro presule costantemente col nome Andreas Benzis de Goalda (de Gualdo). (3)

(1) G. B. DI Crollalanza: Dizionario Storico Blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane. Pisa 1886. pag. 506 – moroni : Op. cit., Vol. LXVIII, pag. 215 – FARLATI: Op. cit., Tomo III, pag. 332 e segg.

(2) Kerchelich: Storia dell’Episcopato Zagabriense. I, pag. 158 – M. DOGIEL: Codice Diplomatico della Polonia. Voi. IV, pag. 88, N°. 83 – fejer: Op. cit., Tomo X, Vol. V, pag. 292.

(3) Katona: Op. cit. Vol. I, pag. 402 – F arlati: Op. cit., Vol. V, pag. 460 – EUBEL : Op. cit., pag. 205, 465, 484.

738 – PARTE TERZA – Miscellanea

Da tutto ciò, specie dal documento Perugino, chiaro appare come l’appellativo Benzi, stia a rappresentare il cognome del nostro Arcivescovo, e la parola Gualdo la patria. Ad indicarci il luogo nativo di Andrea, basterebbe del resto l’esistenza del suo sepolcro commemorativo nella Chiesa di S. Francesco in Gualdo Tadino, e la già ricordata presenza a Sion di alcuni parenti e concittadini dell’Arcivescovo, i quali sono appunto indicati nei documenti, non già come aventi il cognome Gualdo, ma come originari de Gualdo, Nucerine dioecesis.

Del resto, la differenza tra lo stemma gentilizio dell’arcivescovo Andrea, e quelli delle famiglie Gualdo di Vicenza e di Rimini, doveva bastare per far sorgere nel Farlati, nel Moroni e nei loro seguaci, almeno il dubbio di aver commesso un errore. L’Arcivescovo Andrea, come risulta da molti documenti del Concilio di Costanza, e dal su ricordato sepolcro commemorativo, aveva sul blasone, in campo d’argento la testa negra di un caprone, con la lingua rossa fuori usciente dalla bocca ; i Gualdo di Vicenza, vi portavano invece, in complicato modo disposte, le bande, la cometa, la torre, e l’aquila bicipite; mentre i Gualdo di Rimini, come ci avverte l’Ughelli, mostravano lo stemma seguente: Un leone intarsiato su di una targa d’oro, ornata col cingolo militare. (1)

Così pure con Andrea Benzi, Arcivescovo Colocense, non va confuso un Andrea de Petra, Arcivescovo Colossense in partibus (cioè di Colossi, oggi Konos nella Frigia Asiatica) oriundo da Costantinopoli, ma di sangue greco, teologo Domenicano dell’Ordine dei Predicatori, che da alcuni storici e in qualche antico documento è, per errore, data la somiglianza dei nomi, confuso con il Gualdese e designato quindi quale Arcivescovo Colocense. Costui, che fu mandato da Eugenio IV, come Legato, al Concilio di Basilea del 1411, e che poi per effetto del Concilio Ecumenico Fiorentino, nel 1439, dallo stesso Papa venne inviato, a scopo di predicazione a Cipro e in altre regioni d’Oriente, nulla ha di comune col nostro. (2)

La Famiglia Mattioli.

Alcuni suoi membri meritano di essere qui ricordati, se non altro, a causa delle molteplici relazioni che, per oltre un secolo, mantennero con i Duchi di Parma e di Piacenza, alla Corte dei quali ricoprirono importantissimi e godettero non poca autorità ed influenza.

(1) UGHELLl: Op. cit., Vol. II, pag. 428 – Farlati: Op. cit., Vol. III, pag . 332 e seg. – D’ANGREVILLE : L’Armorial historique du Canton du Vall ais. 1868 – von der hardt: Op. cit., Tomo V, Prolegomeni – peterffy: SS. Concil. Hung. I, 318 – crollalanza : Op. cit., pag. 506 – M. A. GINANNI : L’arte del Blasone. Venezia 1756.

(2) katona : Op. e Vol. cit., pag. 410 – spondano: Continuazione degli annali del Baronio. Anno 1438, N. XXIX e seg.; Anno 1432, N. XIII – E. CECCONI : studi storici sul Concilio di Firenze. 1869. Parte I, Sez. ll, Doc. X e XI – LE QUIEN: L’Oriente Cristiano. III, 1052.

739 – PARTE TERZA – Miscellanea

I.

MATTIOLI ORAZIO – Figlio di Pietro, nacque in Gualdo il 20 Ottobre 1625. Datesi alla Magistratura, divenne ben presto assai noto per la sua dottrina, integrità e destrezza nell’amministrare la Giustizia. Fu Protonotaro Apostolico e il 20 Settembre del 1672, mentre risiedeva a Loreto per ragioni di officio, venne da Ranuccio II Farnese, Duca di Parma e Piacenza, chiamato nel suo Ducato quale Uditore Civile e Maggior Magistrato, con lo stipendio di scudi trecento d’oro ed altri benefici ed emolumenti. Morì il 13 Maggio 1677.

II.

MATTIOLI FELICE – Fratello del precedente, vesti sin dalla giovinezza l’abito dei Minori Conventuali, nel quale Ordine Religioso raggiunse il grado di Ministro Provinciale dell’Umbria, nell’anno 1667. Fu Dottore in Teologia e alla morte del fratello Grazio venne anch’esso chiamato da Ranuccio II alla Corte Ducale di Parma e Piacenza, quale Consigliere Spirituale del Duca stesso. Morì in Acquasparta sul finire del secolo XVII. Lo scrittore Francescano Padre Bartolomasi ci da di lui queste brevi notizie biografiche: « F. Fr. Felix Mattioli de Gualdo, qui de numero Collegialium S. Bonav. fuit anno 1624. Post lauream institutus Baccalaureus Con ventus Perusiae, Regens Tipherni, Firmi, ac Fani Custos Sac. Assis. Conv. an. 1665 atque electus Minister Provincialis in Comitiis ha bitis Ameriae die 13 Septembris an. 1667. A Secretis et Assist. Prov. desighatus M. Fra Joseph Maria Onori de Pedeluco ». Pubblicò le due seguenti Opere di Teologia:

Fidei Ortodoxae Divinaeque Sapientise Theatrum in quo Deus, Intelligentiae, Homo gestum faciunt etc. Ludus publice dabitur a Mag. F. Felice Matthiolo de Gualdo Min. Convent. Firmani Studij Regente Romae in Aedibus SS. Duodecim Apostolorum pro Comitiis Generalib. die 31 Maij Anni 1653.

Prediche quaresimali del P. Maestro Felice Mattioli da Gualdo Minor. Convent. Teologo dell’Altezza Serenissima di Ranuccio II duca di Parma e di Piacenza. Et alla medesima dedicate. Con

(1) Documenti e Memorie di Casa Mattioli, nell’Arch. Privato di tale Famiglia in Gualdo Tadino – Gazzetta Universale. Num. 57. Anno 1794. 12 Luglio – MORONI: Dizionario di Erudizione Storico – Ecclesiastica. Vol. XXXIII. Pag. 79 e seg. – Notizie di alcuni scrittori Francescani nell’Umbria tratte dai manoscritti dell’Abate A. Savelli, per cura di M. faloci PULIONANI (In Miscellanea Francescana. Foligno. Vol. III. Pag. 51 – E. FILIPPINI: L’Ac­ cademia degli Agitati di foligno (In Bollettino della R° . Deputazione di Storia Patria per l’Umbria. Vol. XXI. Pag. 373 – R°. Archivio di Stato in Parma. : Ruolo N°. 46. Reale Ducal Camera di Parma, anni dal 1774 al 1805, pag. 18.

740 – PARTE TERZA – Miscellanea

Tre Indici de’ Suggetti Che SÌ trattano; de Luoghi Scritturali che si spiegano; e delle cose più notabili, che la presente Opera contiene. In Fuligno. Per Antonio Mariotti 1682. (In 4°, di pag. 511-XXVII).

III.

MATTIOLI GIOACCHINO – Nacque in Gualdo da un Francesco Orazio Mattioli, che fu uomo assai dotto, Pretore in Foligno, morto poi Luogotenente d’Orvieto nel 1753.

Studiò Gioacchino in Roma la Giurisprudenza, riportando poi la Laurea Dottorale nell’Università di Macerata l’anno 1748 e, quale Dottore in materia civile e criminale, entrò subito nella carriera giudiziaria percorrendone brillantemente i più alti gradi e basterà qui dare un rapido cenno della sua attivissima vita.

Dal 1748 al 1751, lo troviamo in Rodi, Uditore con il Card. Tommaso Maria Ghilini, allora Governatore di detta città ed in quest’epoca, il 18 Maggio 1749, venne eletto membro dell’Accademia degli Agitati che fioriva in Foligno. Dal 1751 al 1754, quale Luogotenente Generale dello stesso Cardinale, risiedette in Orvieto, esercitandovi contemporaneamente la Giudicatura Civile. AI termine della sua Luogotenenza, il 15 Gennaio 1754, il Comune di Orvieto lo elesse all’ufficio di Podestà e nello stesso anno, il 22 Maggio, era stato eletto contemporaneamente Podestà anche di Città di Castello, ma rinunziò ad ambedue le Podesterie e passò invece a Roma con il suddetto Cardinale Ghilini, per la trattazione delle Cause nella Sacra Consulta. Durante questo tempo, l’anno 1756, venne nominato Luogotenente Generale ed Uditore Generale Civile delle Provincie di Marittima e Campagna, trasferendosi al seguito del Governatore Cardinal Raniero Finocchietti e in tale Officio fu in Frosinone sino al Marzo 1758.

Passò poi subito, con lo stesso Cardinale e con la stessa qualifica, nella provincia del Patrimonio con residenza a Viterbo. In seguito, dal Maggio 1760 al Dicembre 1764, fu Luogotenente Generale ed Uditore Generale Civile in Perugia per la Provincia dell’Umbria. Durante la sua dimora in quest’ultima città, fu dai Decemviri Perugini eletto, per un anno, Uditore di Rota in assenza dell’Uditore Urbinate. Nello stesso mese di Decembre 1764, assunse la Luogotenenza Generale della Marca con l’Uditorato Civile in Macerata, ma vi si trattenne poco tempo poiché, già sin dal 10 Novembre dello stesso anno, era stato eletto Avvocato Fiscale della Repubblica di Genova, per un triennio, con l’onorario di Lire 3029 annue ed altri emolumenti, e infatti nel Gennaio del 1765 lo vediamo rinunciare alla Luogotenenza di Macerata per portarsi in Genova.

Allo scadere del triennio, la stessa Republica Genovese, derorogando dalla legge che proibiva passare da un Officio all’altro, lo destinava, per un altro triennio, all’Uditorato di quella Rota Cri­minale. Durante la residenza nella grande città Ligure, il Principe Doria Panfili gli affidò anche la Soprintendenza dei molti feudi che aveva nel Genovesato, nel Piemonte e nella Lombardia.

741 – PARTE TERZA – Miscellanea

L’anno 1771 fu invitato ad assumere l’Officio di Uditore di Rota della Re pubblica di Lucca, ma ricusò, poiché partendo da Genova, riassunse invece la Luogotenenza Generale della Marca, ove si trasferì nel Giugno di quello stesso anno. Dalla Marca passò, dopo un anno e mezzo, a Lucca, avendolo quella città, il 19 Ottobre 1772, e letto Podestà con poteri criminali illimitati, potendo giudicare da sé solo, senza appellazione, cause anche di capitale importanza. Nonostante la legge che proibiva l’esercizio di detto Officio per più di un triennio, fu poi riconfermato successivamente dal Senato Lucchese, nello stesso Officio di Podestà, per altri quattro trienni. In quel tempo funzionò anche quale Giudice Civile, per rivedere in appello le Sentenze Rotali emesse a parità di voti. Durante la sua lunga residenza in Lucca, nel 1781 e nel 1784, fu richiamato dalla Repubblica di Genova quale Uditore della Rota Civile, ciascuna volta per un triennio e con l’aumentato salario di Lire 3377 più altri benefici e privilegi, ma ambedue le volte rifiutò l’onorifico e lucroso incarico, preferendo restarsene in Lucca qual Podestà. Con decreto 30 Maggio 1785, fu però richiesto da Ferdinando Duca di Parma e di Piacenza, quale Consigliere nel Supremo Consiglio di Grazia e Giustizia del Ducato, e questa volta il Mattioli abbandonò finalmente la Podesteria di Lucca che, caso rarissimo, aveva tenuto per quasi tredici anni e passò allo Stato Parmense. Il Senato di Lucca, in ricompensa dei lunghi servigi prestati, lo nominò Nobile Originario di quella città inscritto nel Libro d’oro e lo ammise, come Senatore, al godimento di tutti gli onori e dignità spettanti ai patrizi originari della Repubblica Lucchese.

Due anni dopo, nel Settembre, per la quarta volta risultò eletto Uditore della Rota Civile di Genova ma, come in passato, declinò la vantaggiosa offerta. Forse in compenso di ciò, il 30 Settembre 1788, il Duca lo elesse Governatore di Parma e il 19 Settembre 1791 Governatore di Piacenza. Nel Luglio 1794 ottenne da Ferdinando il grado di Primo Ministro del Ducato, e finalmente, ai 29 di Marzo del 1795, fu eletto Gentiluomo di Camera con esercizio e Consigliere intimo dello stesso Duca di Parma. Morì carico di onori, nei primi anni del secolo XIX, dopo aver ottenuto il titolo nobiliare di Marchese e numerosi benefici dai Duchi di Parma e Piacenza, benefici che estese altresì ai suoi congiunti, specie al nepote FRANCESCO IGNAZIO MATTIOLI, che, nato il 21 Marzo 1760, fu Ufficiale delle truppe Pontificie circa il 1805, passò poi al Comando delle Milizie Parmensi con il grado di Capitano ed ebbe in moglie Caterina Castiglioni di Cingoli, sorella di Papa Pio VIII.

La Famiglia Bongrazi.

La Famiglia Bongrazi, oggi estinta, è ben nota nella Storia Gualdese. I suoi membri coprirono, per lunga serie d’anni, molteplici e cospicui pubblici Offici in patria e fuori, ed i loro nomi si leggono sovente nelle carte dei nostri Archivi.

742 – PARTE TERZA – Miscellanea

Ad un BONGRAZIO BONGRAZI, i Consules et Consilium populi vetustae Mevaniae, accordarono il privilegio di cittadinanza con deliberazione del 21 Febbraio 1546.

Nel 1548, un SILVESTRO MARIA BONGRAZI, accolse in casa sua il Pontefice Paolo III di passaggio per Gualdo, avendone in ricompensa un Decreto di esenzione dal pagamento di ogni balzello, sì Comunale che Camerale, per sé e per la sua famiglia, Decreto che venne poi riconfermato nel 1587.

Rammenteremo anche MARCANTONIO BONGRAZI, il più noto fra tutti, che fu Uditore in Avignone e visse tra il cadere del secolo XVI ed il principio del XVII. Possediamo ancora due pergamene che lo riguardano: Una è data dal Palazzo Apostolico di Avignone, il 10 Aprile 1615, con la quale Giovan Francesco dei conti Guidi del Bagno, Vice-Legato e Vicario Generale del Card. Borghese, Legato in Avignone, nominava Notaro Papale e della Sede Apostolica, Marcantonio Bongrazi suo Segretario. Con l’altra, data nella stessa città il 29 Settembre di quell’anno, Giovan Francesco sopra ricordato, conferiva al Bongrazi il Decanato della Collegiata di S. Pietro d’Avignone, nella quale città risiedeva appunto in quell’epoca il Bongrazi per il suo Officio.

Ad un Sacerdote, BENEDETTO BONGRAZI, il Vescovo di Pesaro, con Decreto del 20 Giugno 1665, assegnava per le molte sue benemerenze, una pensione di venti scudi annui sulla Chiesa Parrocchiale di S. Anatolia del Castello di Monte Santa Maria, nella Diocesi Pesarese.

Un MARCO AURELIO BONGRAZI, fu poi nel 1683, Luogotenente del Card. Cibo in Civitavecchia.

Finalmente, non va dimenticato PROSPERO BONGRAZI, a cui Francesco dei conti Sforza, con Decreto dato a Santa Fiora, il 20 Maggio 1692, concedeva per i suoi meriti, il titolo di Dottore in Legge e Notaro, valendosi per ciò fare, del diritto concesso agli Sforza da Papa Paolo III il 14 Aprile 1539, di poter cioè creare Cavalieri Laureati e Dottori. (1)

Niccolò Moroni.

Fece per lungo tempo parte della Municipalità Gualdese, nella quale ricoprì anche il grado di Gonfaloniere e quello di Avvocato del Comune, restandoci molte sue arringhe nei nostri Libri Consigliari di quel tempo. Nel 1557, con il beneplacito del Pontefice, andò al Governo di Matelica, quale Luogotenente degli Ottoni, Signori di quella città. E, a proposito degli Ottoni, ricorderemo che costoro ebbero in seguito nuovi rapporti con un

(1) Moroni: Dizionario di Erudizione etc. Vol. XXXIII, pag. 88 – L. JACOBILLI: Discorso della Città di Foligno etc. Foligno 1646 – Arch. Di stato in Roma : Collezione delle Pergamene. Perg. provenienti da Gualdo Tadino. Dal n°. 32 al N°. 40.

743 – PARTE TERZA – Miscellanea

altro membro della Famiglia Moroni e precisamente nel 1579, quando cioè, essendo stati gli Ottoni spodestati della loro Signoria su Matelica da Papa Gregorio XIII, per ricuperarla, ricorsero all’inganno, tentante provare che non dai Papi, ma dagli Imperatori, quel dominio, essi avevano ricevuto. Ma per questa prova occorrevano dei documenti, ed allora chiamarono in Matelica un parente di Niccolo, tal Curzio Moroni da Gualdo, il quale riuscì a procurar loro un Diploma di investitura feudale degli Ottoni, falsificato da un suo amico, quel famoso Medico Alfonso Ceccarelli di Bevagna che, per le sue innumerevoli falsificazioni di consimili documenti storici, fu poco dopo, nel 1580, fatto decapitare da Gregorio XIII.

Lasciato il governo di Matelica, Niccolò Moroni andò in seguito, Uditore di Rota in Perugia e quindi in Firenze durante il Pontificato di Gregorio XIII (1572-1585). Nel 1591 era ancora vivente.

Di lui lo Jacobilli scrisse che, nel 1570, «fiiit adoptatus in familiam de Moronibus Mediolanen e Comitibus Pontis Curoni, a Joanne Morone S. R. E. Cardinali…». La suddetta frase «fuit adoptatus» va, per certo, intesa nel senso di «venne accolto come famigliare» poiché l’omonimia di Niccolò con la storica famiglia Milanese, altro non è che una fortuita e semplice coincidenza.

Niccolò Moroni pubblicò un Trattato Giuridico: De Fide Treuga et Pace, della quale Opera ho potuto rintracciare le seguenti edizioni :

Venetiis. Ad candentis Salamandrae insigne 1570. (In 8°, con dedica al R. D. Urbano della Rovere, Vescovo di Senigallia).

Venetiis. Apud Damianum Zenarum 1574. (In 8°. Con dedica al Protonotaro Apostolico Monte Valenti e variis suffulta addictionibus).

L’opera del Moroni fu inoltre pubblicata con l’aggiunta di molte nuove rubriche, nel Tomo XI, Parte I (da pag. 418 a pag. 455) del Tractatus illustrium in utraque tum pontificii tum caesarei iuris facilitate iurisconsultorum etc. Venetia 1584. (1)

Antonio Umeoli.

Apparteneva alla antica e nobile famiglia Gualdese, «De Humiolis» il di cui nome andò in seguito, a mano a mano, trasformandosi e volgarizzandosi in Umeoli. Il suo padre si chiamava Gaspare ed un suo fratello Bernardino. Ebbe il titolo di Dottore in Legge; nel 1472 lo troviamo Vicario Generale in spiritualibus et temporalibus del Vescovo di Nocera; nel 1477 Rettore della Pievania di S. Maria di Tadino in Gualdo e nel 1481 della Chiesa di S. Andrea, sempre in Gualdo. II 21 Luglio 1485, ottenne il Cancellierato di questa città con tutti gli emolumenti e privilegi inerenti a tale officio. Fu poi

(1) L. JACOBILLI : Bibliotheca Umbriae. Già cit. Pag. 210 – L. JACOBILLI : Vite dei Santi e Beati di Gualdo. Già cit. Pag. 25 – C. ACQUACOTTA: Appendice alle Memorie di Matelica (Lapidi e Documenti). Ancona 1839. Pag. 352 – Moroni: Dizionario di Erudizione etc. Già cit. Vol, XXXIII, pag, 88 e Vol. XLIII, pag. 264.

744 – PARTE TERZA – Miscellanea

Uditore e Vice-Camerlengo di S. Chiesa in Roma, negli ultimi anni del Pontificato di Innocenze VIII, ricevendo altresì da questo Papa importantissimi mandati ed attestazioni di benevolenza, ad esempio la donazione di alcune terre sulla montagna Gualdese, mediante Breve del 13 Gennaio 1491. Fu poi anche Luogotenente e Commissario Pontificio in Faenza nel 1490, in Fano e Cesena nel 1492, ed in Foligno, per conto del Legato dell’Umbria Card. Giovanni Borgia, nel 1497. Lo troviamo finalmente Uditore della celebre Lucrezia Borgia, figlia di Papa Alessandro VI, che da questi era stata preposta, nel 1499, al Governo di Spoleto e l’Umeoli tenne tale officio anche sotto il successore di Lucrezia. Ne fu rimosso però quando, nel Giugno del 1501, il Comune di Spoleto mandò alla Corte Pontificia appositi delegati, con l’incarico di adoperarsi affinchè, per sedare ogni malcontento, si allontanasse da Spoleto l’Umeoli, resosi odioso a quella cittadinanza.

Da un documento che possediamo, ci risulta infine, che il 13 Novembre del 1508, l’Umeoli era già morto da qualche tempo. (1)

Francesco Benfigli.

Fu Teologo di gran nome, allievo dell’antico Convento di S. Francesco in Gualdo. Nel 1580 divenne Ministro Provinciale dei Conventuali per l’Umbria. Da Sisto V fu eletto, nel Maggio del 1590, Ministro Generale dello stesso Ordine. Successo a Sisto V, Urbano VII e poi Gregorio XIV, quest’ultimo, in seguito a denunzie pervenutegli sul conto del Bonfigli, lo costrinse a rinunziare all’onorevole titolo. Innocenze IX, succeduto a Gregorio XIV, dietro domanda del Bonfigli, diede incarico al Card. Mattei di promuovere una nuova inchiesta sulle denunzie fatte al suo predecessore, ma morto anche questo Pontefice, dal successore Clemente VIII, l’inchiesta fu invece affidata al Card. Della Rovere, per le decisioni del quale, il Bonfigli fu reintegrato nel suo officio di Ministro Generale, con Breve del 28 Aprile 1592. Tenne il Generalato dei Minori Conventuali sino al 1593, nel quale anno veniva eletto Vescovo di Ascoli di Puglia, dove morì nel 1603. (2)

(1) L. jacobilli : Vite dei Santi e Beati di Gualdo. Già cit. pag. 24 – Biblioteca del Seminario di Foligno: Manoscritti di Jacobilli. Cod. A. II. 16, c. 116t; Cod. B. VI. 7, c. 112 e 126; Cod. A. VI. 6, fogl. 470t ; Cod. A. V. 3, fogl. 154; Cd. A. V 5, fogl. 607 – G. MORONI: Dizionario di Erudizione etc. Vol. XXXII, pag. 38: Vol. XXXIII, pag. 88, Voi. XCIX, pag. 133 – A. Sansi : Storia di Spoleto. Parte IV. Foligno 1884. Pag. 129 e seg. – Arch. Notarile di Gualdo Tadino : Rogiti di Pietro di Mariano di Ser Lorenzo Muscelli, dal 1473 al 1527, c. 245, 246; del 1496 e 1480, c. 60t. – L. Jacobilli : Di Nocera nell’Umbria e sua Diocesi. Foligno 1653. Pag. 109.

(2) F. UGHELLI: Italia Sacra. Venezia 1722. Tomo VIII, pag. 236 – L. JACOBILLI: Vite dei Santi e Beati di Gualdo e della regione di Taino. Già cit. pag. 25 – MORONt : Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica. Vol, XXVI, pag. 121 ; Voi. XXXIII, pag. 88; Vol. LXIII, pag. 280.

745 – PARTE TERZA – Miscellanea

Giovan Battista Spinola.

Fu Giureconsulto insigne. Ricoprì per lungo tempo vari onorifici incarichi nel Comune di Gualdo, di cui fu anche Camerlengo, per conto della Camera Apostolica, dal 1538 in poi. Di lui così scrisse lo Jacobilli: Io. Baptista Spinula I. C. Gualdensis, non exigui ingenii vir, qui Romanam Curiam sequens, in eadem multa designavit. Scripsit de Gratia et Iustitia, et in titulum C. quando Imperator inter Pupillum, et Viduas, et alia in Jure. Floruit an. 1550». (1)

(1) L. Jacobilli: Bibliotheca Umbriae. Già cit. Pag. 157 – Moroni – Dizionario di Erudizione etc. Vol. XXXIII. Pag. 88 – Biblioteca Angelica in Roma: Manoscritti. Epistolario di Porfirio Feliciani. Vol. 1231. Fogl. 241.

746 – PARTE TERZA – Miscellanea

LA ROCCA FLEA

Venne in origine chiamata più comunemente Rocca Plebea o di Plebeo, perché si elevava non lungi dalle sorgenti del fiume Feo, che poi lambisce le mura di Gualdo, e che un tempo veniva appunto chiamato con il nome di Fleo o di Plebeo. Di questa Rocca, che certo ebbe non poca importanza nel tenebroso Medio-Evo, sono affatto sconosciute le prime origini, e non ci restano disgraziatamente che poche notizie, non sufficienti per illustrare appieno le avventurose vicende, di cui per certo dovette esser teatro, come tutti i vetusti Castelli Medioevali.

I primi accenni della Rocca in discorso, li troviamo in documenti del XII secolo, nei quali non di rado vedonsi ricordati i Feudatari delle Rocche di Plebeo e di Pigneolo, quest’ultima esistente allora sulle pendici del monte sovrastante al villaggio di Rigali e poco più in alto di questo. Troviamo ad esempio indicati quali Comes arcis Plebei et Pigneoli, tre Vescovi della Diocesi di Nocera e cioè Monaldo, Offredo e Anselmo, tutti e tre appartenenti alla storica Famiglia Atti di Foligno, i quali l’un dopo l’altro, ressero il Vescovato suddetto da circa l’anno 1144 al 1190. Anche un fratello del su nominato Vescovo Anselmo, chiamato Berardo, che verso il 1170 fu Priore della Cattedrale di Foligno, appare ricordato con la qualifica di Conte delle Rocche di Plebeo e di Pigneolo.

In seguito, come fu già visto, durante il XIII secolo, la Rocca in discorso ritrovasi più di una volta nei Libri delle Sommissioni esistenti nell’Archivio Perugino, e durante il Trecento, nelle nostre cronache, dove, a più riprese, vengono infatti ricordati i Comites de arce Flea che ne erano Signori, e che nel secolo XI, vedemmo fondare la vecchia Abbazia Gualdese di S. Donato. (1)

Da quanto si legge in un’antichissima Vita manoscritta d’Innocenzo III, esistente nell’Archivio Vaticano, possiamo con certezza desumere che le Rocche di Gualdo, Cesi ed Assisi, erano nel 1177

(1) L. JACOBILLI: Di Nocera nell’Umbria e sua Diocesi. Già cit. pag. 73,74, 75 – Biblioteca Vaticana: Codice Ottoboniano 2666. Già cit. c. 52, 75, 76 – M. FALOCI : I Priori della Cattedrale di Foligno. In Bollettino della R. Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, Perugia 1914. Vol. XX, pag. 253.

747 – PARTE TERZA – Miscellanea

in potere dell’Imperatore Federico I, che indi a poco, concedendo in feudo al Duca Tedesco, Corrado di Lutzen o d’Uerselingen tutto l’antico Ducato di Spoleto, dovette con questo cedergli anche la Rocca Flea che ne faceva parte. Tanto è ciò vero, che assunto al Pontificato Innocenze III e postosi all’opera per riconquistare in favore della Chiesa tutte le terre su cui potesse accampare qualche diritto, toglieva anche il Ducato Spoletino al vassallo del Barbarossa; e infatti nella primavera del 1198, alla presenza di molti Vescovi e Feudatari, Corrado d’Uerselingen rassegnava in Narni il dominio del Ducato nelle mani del Vescovo di Ostia, Ottaviano, rappresentante del Papa, e mentre scioglieva i suoi vassalli dal giuramento di fedeltà, cedeva alla Chiesa anche le Rocche di Gualdo e di Cesi, né potè cedere quella di Assisi, perché gli Assisani si ribellarono e la raserò al suolo. Ed è appunto a questo travagliato periodo storico, che si riferisce un accenno alla nostra Rocca fatto in una Bolla di Papa Onorio III, data da Anagni il 4 Ottobre 1223 e diretta al Podestà e popolo di Perugia, per sanzionare le condizioni della pace fatta tra le fazioni cittadine di quel Comune, nella quale Bolla si leggono infatti le frasi seguenti : « A dicientes nihilominus ut debita que per Suppolinum quondam capitaneum militum sicut apparet per instrumentum Beneveniatis notarij fuerunt imposita parti sue venturus potestas infra duos menses post tempore suscepti regiminis sine salario salvi facere teneatur. Et si quis pro parte sua de parte militum pro expensis vel debitis obligatus est usque ad adventum potestatis predicte (sic) ipsum indemp nem per suos facere conservari ac restituere de camera Communis expensas que in custodia Vallis Mortale et Rocce de Flea facte sunt et fieni quandiu per sedem apostolicam tenebuntur. Si qua vero per nos acta sunt potestas non intromittat se de illis set ea faciat invio labiliter observari. . . . ». (1)

Già vedemmo come nel 1208, la Rocca passasse alla dipendenza di Perugia per effetto della sommissione di Gualdo a quella città, ma per certo la Sede Papale seguitò, ciò nonostante, ad accamparvi delle pretese ed ha considerarla come un suo legittimo possesso, poiché ai 16 di Gennaio del 1234, confermando il Pontefice Gregorio IX la celebre Costituzione di Papa Simmaco, con cui si vietava l’alienazione di qualunque cosa che appartenesse al temporale dominio della Santa Sede, e specialmente di alcune Terre e Castelli, nomina tra quésti anche la Rocca di Gualdo, che dovette avere allora non poca importanza. E scrive infatti: « Coeterum ad cauthelam quaedam loca specialioris inhibitionis vincalo adstringenda speciali expressione nominum praesenti paginae

(1) A. Cristofani: Op. cit. – A. Sansi: Op. cit. Foligno 1879. Parte III, pag. 2627 – S. BORGIA: Memorie Istoriche di Benevento. Già cit. Tomo III, pag. 142, 194 – G. MORONI: Op. cit. Vol. LXIX, pag. 87, 89 – L. MURATORI: Rerum Italicarum Scriptores. Tomo III. Milano 1723. Vita Innocentii Papae III pag. 488, 489 – Arch. Vaticano: Reg. di Onorio III .Anno VIII. N. 52.

748 – PARTE TERZA – Miscellanea

fecimus annotari, videlicet . … In comitati Nucerino: Roccam de Gualdo». (1)

Questa però aveva certamente molto sofferto nelle continue guerre e nei frequenti assalti di quei torbidi tempi, poiché circa il 1242, quando Gualdo passava a Federico II e, come narrammo, sorgeva a nuova vita circondandosi di Mura, veniva quasi completamente ricostruita dal suo nuovo padrone, l’Imperatore suddetto, e resa inespugnabile e forte. Le Mura civiche si distaccavano appunto dai due fianchi della Rocca, e andavano a circondare l’abitato descrivendo un ampio percorso di forma pressoché ovale. Questa cerchia di Mura, era validamente rafforzata da diciassette Torri, opportunamente disposte sul suo percorso, ed in essa si aprivano quattro Porte turrite, da cui prendevano nome i quattro corrispondenti Quartieri della Città, e cioè : Porta S. Donato, Porta S. Martino, Porta S. Benedetto e Porta S. Facondino, come può vedersi dal disegno che pubblichiamo qui appresso. Nel Settecento, così le Mura come le Torri erano ancora in discreto stato di conservazione, ma più tardi, per molteplici cause, non ultima l’espansione edilizia della Città, subirono enormi devastazioni, tanto che oggi esse esistono, ma pur tuttavia mutilate, solo nel tratto interposto tra Porta S. Donato e Porta S. Benedetto, con le corrispondenti Torri più o meno decapitate e ridotte ad abitazioni private. Delle quattro Porte, restano al presente bastantemente intatte, Porta S. Donato e Porta S. Benedetto, con le Torri sovrastanti trasformate però anche esse in abitazioni. Porta S. Facondino esisteva ancora nel 1760, tanto è vero che in quell’anno il Comune decise di vendere a privati cittadini la Torre sovrastante alla Porta, Torre però anche essa oggi scomparsa con la sottostante arcata, e la demolizione certo avvenne, non essendo più sufficiente, per l’accresciuto traffico stradale, l’antica e angusta Porta costruita nel Medio-Evo. Per lo stesso motivo, all’estremo opposto della Città, nell’anno 1847, venne aperta nelle Mura, presso la disagevole Porta S. Donato, quella attualmente nota con il nome di Porta del Mercato. La quarta Porta infine, cioè quella di S. Martino, scomparve, perdendo il suo arco e la sua Torre, in epoca e per motivi a noi sconosciuti.

Con la sottomissione a Federico II, la Rocca Flea ritornava in potere degli Imperatori Tedeschi, e d’allora in poi soggiacque a tutti i domini che vedemmo succedersi nella nostra Città, in quel tempo sorta ai suoi piedi. E di questi molteplici dominatori della Rocca Gualdese, Biordo Michelotti, nel 1394, le apportava notevoli restauri e lasciava di ciò memoria mediante una lapide apposta sopra l’entrata del Torrione centrale, nell’interno del cortile, la quale nella sua parte inferiore, toltene le abbreviature di rito, dice così:

(1) Arch. Vaticano : Gregorio IX. Reg. XVII. c . 131; An. VII, Ep. 469; An. VII, Ep. 194 – S. Borgia: Memorie Istoriche di Benevento. Già cit. Tomo III Pag. 144 – GARAMPI: Op. cit. pag. 241.

749 – PARTE TERZA – Miscellanea

. STRENUUS . ARMORUM .

. DOCTUSQUE . REGIMINE .

. PRINCEPS . :

. HOC . FIERI . FECIT .

. BIORDUS . DE . MICHELOCTIS .

. A . D . M . CCC . L . XXXXIV . :

Questa lapide, nella sua porzione superiore, presenta oggi, all’osservatore la nuda pietra, ma un tempo conteneva per certo lo stemma dei Michelotti, distrutto poi forse dallo scalpello dei Fortebracci, come allora si usava, quando con le armi gli tolsero anche il possesso della Rocca Flea. AI posto dello Stemma, fu in seguito dipinto un S. Michele Arcangelo, Patrono della nostra Città, la quale effigie però è stata completamente cancellata dal tempo.

Nei documenti di quel secolo, la Rocca Flea viene quasi sempre indicata come «Arx major Terre Gualdi», e ciò per certo in confronto del Palazzo del Podestà, il quale, addossato all’antica Torre tuttora esistente sulla Piazza Vittorio Emanuele, costituiva un secondo e minore Fortilizio entro la Città, tanto è vero che, come già si disse, era anche talvolta indicato con il nome di Cassero. (1)

Cade qui acconcio l’accennare, come curiosità storica, a un documento riguardante la nostra Rocca, il quale fa parte di un vecchio manoscritto dell’Archivio di Stato in Roma, avente per titolo: «1455. Inventario de le Roche del Ducato e de la Marcha». Da esso si apprende che il 17 Giugno, Martedì, del 1455, il Commissario Pietro Gundissalvo da Valenza, mandato dal Papa, dimette dalla sua carica « Spectabilem Virum Melchiorrem de Calendrinis de Serzana», Castellano della Rocca di Gualdo, già eletto da Martino V, e vi sostituisce il nobile uomo «Antonio de Petronibus de Spoleto», il quale ricevendo le chiavi e la consegna della Rocca stessa, giura con la forinola riferita nell’ istrumento. Quest’ultimo termina con le parole: « Acta fuerunt hec in dicta arce Gualdi sub anno Indict. die mense et pontificatu quibus supra presentibus ibidem venerabilibus viris Angelo de Velis de Perusio, et Ser Marino de Montefalcone Testibus etc.».

Segue quindi un:

Inventarium rerum et munitionum repertarum in dieta arce assignatarum prelibato dno Antonio novo Castellano per dictum dnum Petrum Commissarium sequitur et est tale: In primis una campana grande acta ad sonare: quindici balestre grosse da molinello: cinque molinelli forniti con girelle: 1960 aste da verettuni: 1264 verrettuni ferrati: 4 cassetti da verettuni senza ferri: quatro cincti da balestre forniti: 4 chiavi da balestre: una incudineta per fare ferri da verrettuni: doy croci de legne per balestre a bancho: sei talglie de legne con girelle e senza: quatro banchi forniti da carcare balestre: dece coraze fornite bene in puncto: cinque coraze e meza al modo antiche coperte: doi coraze veche senza

(1) Arch. Notarile di Gualdo: Rogiti di Gaspare di Raniero dei Ranieri dal 1455 al 1485, e. 1t; di Luca di Ser Gentile dal 1466 al 1499, e. 161t.

750 – PARTE TERZA – Miscellanea

piastre: doi coraze stiavate: doy pecte da giostre del modo anticho: ceto pecti vechi: undeci celate fornite bene in puncto: undici celate invirnicate: octo elmicti invirnicate del modo anticho: cinque para de bracciali e mezo, vechi: sei para de spallani vecchi: quatro para de guanti vechi: uno coltello da polire arnie: uno ferro da polire arme: uno ceppo de legno da polire arme: sey legni per polire arme: uno rastello de legno da tenere arme: una bombardella rotta: una bombarda de ferro: tre bombarde con ceppi, ciò è doi chiavate e una senza ceppo: una ciarabottana de metallo con cinque cerchi de ferro: uno ferro da carcare bombarde: doy chiodi de ferro da bombardella,: uno cavellecto da bombardella: undeci scoppeti de ferro forniti: tre forme per fare palocte da scoppeti: uno pezo de piombo e palecte: doy tenevelli da scoppeti: octo scarselle per tenere polvere: doi barrilecti e mezo de salinetro: quatro barrili pieni de polvere da bombarde: uno bigonzello quasi pieno de polvere: tredeci taragoni de papa Eugenio: sette lance, l’una con ferro, e l’altre senza : undeci lime de ferro fra grandi e piccoli : una segecta piccola : una sega grande da doy mani: una sega da una mano: doy ferri piccoli de sega senza fornimento: doi altri segecte da una mano: doy assi de ferro: uno trapano per nettare: uno traffaro da pransare: doy scalpelli de ferro picoii: tre para de ferri da presoni: uno paro de ferri (snodati: cinque martelli de ferro piccoli e uno altro martello grande: doy legni grossi da briccola: uno ferro per fare palocte da scoppeti: quindeci graffi de ferro: una lumiera.de ferro: uno tinello de ferro da cavilglia : doy canapi grossi novi e boni: uno altro canapo tosato: doy pali grossi de ferro: tre pali de ferro con li manici: palecte de ferro da murare doy: una caviglia de ferro per la briccola: uno cerchio grosso de ferro per la briccola: uno naspo de legno per carcare briccola : doi legni grandi prò spalle da briccola: quatro cerchetti piccoli de ferro: doy mazè de ferro: doy zeppe de ferro: it. doy zeppe de ferro: doy sgravine grosse de ferro: uno picnic ne grosso de ferro con zeppa, doy pichion i, l’uno piccolo: doy ronconi bolongnesi : uno fuso de legno ferrato; doy cappellanari de legno: uno tenevello grande e uno piccolo ; cinque palecti de ferro piccoli : una accetta grande e doy altre piccole: doy sgorbie de ferro e uno pontarolo: una ascia longa de ferro: vintjcinque petzi de ferro per la bricchola, pesano in tuto libre centocinquanta: ferramenti menuti vechi libre cento: ferri per tenere mantellecti quatordeci: uno molino fornito per macinare: una scala de funi: una scalcia piccola e doy scalcete piccoline de legno: una maza de legno: una grata de ferro; una rota de legno da tirare: doy rote de legno piccole: una catina de legno per lavare: uno cippo grosso chiavato per banche: uno cippo grosso da talgliare: uno banche con una rota piccola per rotare: una rota piccola senz’altro: una tinoza per bruciare cavalgli: quatro banchitti piccoli da sedere: uno bancho grande da sedere: un bancho da mangnare: doy altri banchi da sedere: cinque banchi et cinque banchiti da sedere: uno uscio e uno paro de tripede: uno bancale de legno con doy serrimi: una tavola da mangnare: doy usci vechi e tristi: uno arcibancho: una bancheta bassa: certe petze de tavole prò mantellecti: petze de legni decisette fra grandi e piccoli: doy lettere triste: una lectéra da familgli: una lectéra con palgia: una lectéra con cavalecto de capo e uno solare de sopra a lecto: una lectéra grande e una altra piccola: doy cassete per tirare calcina: tre casse veche senza coperti: una casseta vecha coperta: una cassa per tenere pane: una cassa con doy serrimi: sey botte grande da tenere vino: sey botte piccole da tenere vino: uno imbottatore de legno da imbottare vino: uno

751 – PARTE TERZA – Miscellanea

carratello da tenere aceto: doy incile da tenere farina: una matera con .una tavola da spinare pane: una, cassa per buroctare farina: una arena grande da tenere farina: uno fornp per coctiare, pane: doy tine da tenere farina: uno crivello da crivellare grano: uno paro de mantici boni: una incudine de ferro bona: una altra incudine de, ferro rotta: una incudinetta fitta nel ceppo: una chioderà da fare chiodi: una tanaiglia de ferro per talgliare: doy para de tenalglie da focina: una ceppa de ferro per talgliare: doy tavole da mangnare: uno paramento fornito da altare: uno calice de peltro colla patena: doy tovalglieti per aitare: uno missjalecto vechio: dpy cataste de legni in la coczina, de terra al solare: deci salme de grano.

Munitiones nove diete arcis empte ab antiquo Castellano nomine Camere Apostolice et assignate ut supra.

It. doy balestre nove: cento verrettimi ferrati grossi: uno horiolo con polvere: quatro matarazze bone: quatro schiavine bone: sette some de vino bianche: doy some e mezo de aceto: carne salata libre c,e,nto e sesantaquatro: sale libre doicento e vinti: sette broche da olio, petiti deciocto: doy broche piene de olio: some de farina tre o vero grano: it. de acciaro libre cinquan- tatre: de ferro libre trenta: sètte barili! da tenere vino: uno badile piccino: una scala grande che va in su le mura: Io ponte de la torre: la casa.de la focina: tre centenara de coppi: un gireffo de botte».

Vengono poi indicate le paghe con i nomi dei famigliati e cioè: In primis dnus Antonius de Petrohibus de Spoleto Castellanus, Pietrangelo e Pierbenedetto figli del precedente, parecchi altri di Spoletò, Giovanni Antonelli, Pecucio Vannetti, Sufferentus Angeli, Francesco di Giacomo da Iesi e altri, in tutto ventiquattro persone compreso Giovanni d’Alemagna, maestro delle bombarde. L’istrumento è sottoscritto da Iohannes Schombrod.

Infine, in un altro manoscritto che pure si conserva nell’Archivio di Stato in Roma, e porta per titolo: «Inventari Rocharum 1458, tempore domini nostri pape Pij II», trovasi un Secondo documento dello stesso genere del precedente e che qui appresso trascrivo, potendo come quello, interessare per lo studio della vita medìoevale:

« Inventarium bonorum repertorum in arce terre Gualdi.

In nomine domini, amen, anno d. a. nat. eiusdem M°. CCCC°. LVIIII° Jnd. VIJ, tempore etc. Pii pp. II, die vero XVIIIJ Ianuarii. Hoc est quoddam inven tarium rerum bonorum, mobilium et repertorum in arce terre Gualdi Nucerini apud Iacobum de Tolomeis de Senis tunc Castellanum diete arcis, factum, scriptum et publicatum per me Bartholomeum de Albinzinis not. infrascriptum mandato et commissione R.di in Xpo p. et d. d. Nicolai de Bonapartis perusii etc. dignissimi thesaurarii etc.

In primis: Cinque balestre ad molinelli fornite – Tre molinelli colli cordoni – 4 balestre sensa noce et corda – tre balestre rocte – 1 bayccho – 1 celata – 1 cassa da velectoni ferrata – X libre de sale – 2 barrili de polve de bombarda – 2 broche d’olio – 20 libre de cardo vecchio – 1 lictiera con una cassa – 2 casse vechie e triste – 1 tavola piccia e triste – 7 some de farina – 2 botti da tener farina – 2 arche de far pane – I cassa vechia – 1 tavola vechia – 3 bombardelle di ferro – 1 cerbottana de me­tallo – 1 bombardella de ferro rocta – 2 banchi de tirar balestre – 1 campana

752 – PARTE TERZA – Miscellanea

de bronzo – 8 some de grano alla mesura de Qualdo – 1 lectiera – 2 canapi

– 4 corazze triste e male in ordine – 4 corazzine triste sonno in Perusia – 2 petti a l’anticha – 2 celate vechie – 20 fra celate e bayncchi – 3 seghe fra grandi e piccole – 3 scoppeti tristi – 3 para de ferri – XIJ rampini de scalare – 4 para de guanti tristi – 4 para de bracciali tristi – 2 inchodine 1 grande una piccia – 4 taragoni coll’arme de pp. Eugenio – 40 libre de salnistro – 3 casse de velectoni senza ferri – Più pezzi de ferramenti – Uno molino – VII1J botti – Uno botticelle con IHJ barili d’aceto – 3 barile de vino – 4 barile de vino – 2 cataste de legna – 2 mandace – 80 some de fieno – 3903 libre de farina quale gli mandò p.° pelo dice non serra pagata

– XJ some de vino mandò el dicto dice non esser pagato – 26 libre de sale mandò messer Francesco da Folingno – una soma d’acieto mandò el dicto – 18.00 velectoni ferrati – 6 ballestre ad molinello – 6 molinelli – uno bacile et mezzo de polve da bombarda, pesò libre 14 – 100 Gavette da fare corde da balestre – uno scopietto de ferro – 4 scopietti de ferro – 40 libre de piommo – 60 libre d’agutti – 87 libre de polve da scopietti – 100 libre de ferro – 40 libre d’acciajo – Uno paro de tenaglie grosse – 300 velectoni grossi da bancho – 20 some de grano per ancontani 38 la soma, monta fior. 38 – 20 some de vino per fior. uno la soma, monta fior. 20. «Ego Bartholomeus, Angeli de Castello etc. not. ». (1)

Sin dai primi tempi, dopo che Gualdo venne in potere dei Perugini, risiedettero nella nostra Rocca un Castellano ed una Guardia armata, più o meno numerosa. In seguito, verso la metà del secolo XV, essendo divenuta Rocca di Frontiera tra il Ducato di Spoleto e quello di Urbino, venne convenientemente, munita e affidata ad un più forte presidio e in tale stato durò sino al termine di quel secolo. Anzi, nella fine del 1497, Papa Alessandro VI v’inviò come Castellano, Filippo degli Arcioni, Romano, che poi in seguito, istigato dal Signore di Camerino, Giulio Varano, a cui il Papa voleva togliere ogni dominio, cominciò a ritenere per sé la Rocca in discorso e finì con l’impadronirsene completamente, in segreto accordo con lo stesso Giulio Varano. Si diede ivi a coniare falsa moneta, ad assaltare e spogliare i malcapitati passeggeri che valicavano la sovrastante montagna, commettendo senza alcun freno, angherie e scelleratezze di ogni genere. (2)

Con l’entrare del secolo XVI, la nostra Rocca divenne residenza dei Cardinali Legati preposti al Governo di Gualdo, i quali vi ebbero stanza sino al 1587, e tra questi il Card. Antonio Del Monte prima, e poi il Card. Giovanni Salviati, restaurarono la Rocca stessa lasciando incisi i loro nomi sulle cornici in pietra di alcune porte e fenestre, l’ultimo di essi con la data 1547. Scopo dei restauri fu quello di rendere adatti alla residenza di quei Dignitari Ecclesiastici,

(1) Arch. di Stato in Roma. Sezione dell’ex Convento del Gesù: Rocche. 1458. C. 137; 1455. C. 8 – D. GASPARl: Fortezze Marchigiane e Umbre nel secolo XV. In Arch. Storico per le Marche e per l’Umbria. Vol. III. Foligno 1886. pag. 146, 165.

(2) C. L.ILLI: Dell’Historia di Camerino. Macerata 1652. Parte II . pag. 248.

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i rozzi e primitivi alloggi della vecchia Fortezza, che di poi, sino al 1798, accolse i Commissari Apostolici, che furono a capo della Città in luogo dei Cardinali Legati. Durante il XVIII secolo, oltre che a residenza dei Commissari Apostolici, alcune delle sue Torri furono adibite ad uso di Carcere Laicale, al quale officio serviva contemporaneamente anche una parte della Torre Comunale, come si è detto facente parte del Palazzo del Podestà, nell’interno della Città.

La nostra Rocca nel 1803, fu dalla Camera Apostolica che la possedeva, ceduta in enfiteusi al Comune di Gualdo, che l’aveva chiesta per istituirvi un Ospedale, progetto questo che mai ebbe attuazione; con Decreto del giorno 11 Gennaio 1817, venne poi ceduta dal Governo Pontificio a Mons. Francesco Piervissani, Vescovo di Nocera Umbra, che la ridusse ad uso di Conservatorio Correzionale, e finalmente dall’attuale Governo Italiano, venne adibita a Carcere Mandamentale.

Oggi, di questa importante e pittoresca Rocca, dalle forti muraglie rivestite di edera, non restano che i Torrioni e il Maschio centrale, tuttora in buono stato di conservazione e recanti qua e là sulle mura scolpiti gli stemmi ed i nomi dei suoi molteplici dominatori. Sotto il pondo dei secoli e per le devastazioni degli uomini, crollarono però in parte le fortificazioni accessorie e le mura di cinta, le quali nel lato che guarda la Città, erano difese da un profondo fossato, ancora ben visibile, che un tempo era ricolmo di acqua e sul quale si abbassava il così detto Ponte Levatoio. Purtroppo anche ai tempi nostri, nella prima metà del secolo XIX, ricevette parecchi notevoli danni da chi barbaramente demolì i numerosi piombatoi e i merli che coronavano le muraglie, e disfece altre opere interne, per servirsi di quegli ottimi materiali, come già i Principi dell’alma Roma, fecero per il Colosseo.

Notevoli restauri furono apportati d’altra parte alla Rocca nel 1863, con la ricostruzione della Torre d’angolo che guarda a Settentrione, nonché di tutta la muraglia costituente la facciata dell’edificio, la quale si diparte da tale Torre ed è rivolta verso la montagna. Ma questi restauri furono condotti senza alcun criterio artistico, basti dire che sulla facciata suddetta, si aprì un secondo, nuovo ingresso alla Rocca, che prima non esisteva e che sul vertice di questa muraglia e di questa Torre, non furono più ripristinati i piombatoi e le merlature, che coronavano superbamente la vecchia costruzione.

Oggi però la Rocca Flea fa parte degli edifici monumentali d’Italia ed è sottoposta a tutela da parte dello Stato. (1)

(1) A. BUCARI : La Bastola. Milano 1902. pag. 28 (Nota 15) – Arch. Co munale di Gualdo: Copia-Lettere dall’anno 1764 al 1818. c. 185, 186.

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Storia civile ed ecclesiastica del Comune di Gualdo Tadino - Ruggero Guerrieri

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Nessuno ignora che con i nomi di Stemma, Arme, Scudo, Blasone, s’intendono le insegne di una famiglia, di una città o di una nazione che, attraverso i secoli, ebbe importanza storica più o meno notevole e l’Araldica è appunto la scienza che da la spiega­zione di tali svariate e complicatissime insegne ed indica il modo di formarle e descriverle.

Mi si permetta quindi di soffermarmi alquanto su alcune brevi nozioni di Araldica, di questa dottrina cosi varia, vasta e geniale, che lo Scosero paragonò ad un abisso e di cui il Conte Marco Antonio Ginanni, il più profondo scrittore che ne abbia trattato, ebbe a dire: «So per esperienza che chi vi si è applicato trenta o quarant’anni, vi trova mai sempre che apprendere». Tali brevi nozioni, saranno indispensabili per poter bene intendere quanto appresso esporrò.

In Araldica adunque, chiamansi Pezze Onorevoli, alcune figure limitate sulla superficie o campo dello Stemma, da determinate linee di partizione e tra le Pezze Onorevoli dì Primo Ordine, si annoverano, insieme a molte altre, la Banda e la Sbarra. La Banda

Storia civile ed ecclesiastica del Comune di Gualdo Tadino - Ruggero Guerrieri è una striscia che scende diagonalmente dalla destra del capo dello Stemma, alla sinistra della sua punta (tenendo presente che secondo le convenzioni Araldiche, la destra dello Stemma corrisponde sempre alla sinistra di chi lo guarda e viceversa) e sull’arme possono stare una, due, tre e quattro Bande persine La Sbarra invece, è una striscia che percorre diagonalmente lo Stemma in senso inverso, cioè dalla sinistra del capo alla destra della punta e, come la Banda, può esservi ripetuta più dì una volta. Tanto la Banda quanto la Sbarra,

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e in generale, stanno a significare tradizioni guerresche, potenza, onori e dignità militari. Più particolarmente, secondo quanto scrive il Ginanni, la prima è la figurazione del Balteo, ossia di quella cinghia che portavano ad armacollo, da destra a sinistra, gli antichi soldati per sostenere la spada; la seconda invece sta ad esprimere la cinghia della carabina, che portasi in senso inverso. Ma non va taciuto che altri Autori danno a queste Pezze Araldiche anche un diverso significato, le fanno cioè derivare dalle sciarpe o tracolle, che anticamente le donne donavano ai loro cari, partenti per la guerra, e vi raffigurano persino steccati e scale, arnesi militari assai usati nei tornei e negli assedi del Medio Evo. Certo è che le Sbarre furono un tempo il contrassegno dei Ghibellini, mentre invece i Guelfi pare preferissero le Bande per i loro Blasoni.

Or dunque, ricercando i Bolli ed i Sigilli apposti sulle secolari carte degli Archivi Gualdesi, osservando gli Stemmi ancora esistenti sulle muraglie e sulle torri dirute dei nostri Castelli, ispezionando gli intagli di antiche sculture in legno, e molte vecchie stampe, potei rinvenire numerosi esemplari dell’antica e primitiva Arme Gualdese. Questa generalmente consisteva nella figura di San Michele Arcangelo, Patrono della nostra Città, portante uno Scudo che, notisi bene, è sempre solcato da tre Bande, cioè da tre strisce che scendono diagonalmente dalla destra del suo capo alla sinistra della sua punta. Ciò chiaramente risulta dalla riproduzione genuina dei Sigilli Comunali, qui appresso indicati con i Numeri IV, V, XV, XVI e della scultura in legno N°. X. Più di rado, nei vecchi Stemmi Gualdesi, si trova il solo Scudo con le tre Bande e cioè senza la figura di San Michele Arcangelo, come nei Sigilli N°. I, VI e VII, nelle sculture in pietra N°. Il e IX, ed in quella in legno N°. VIII. Va però notato, che in qualcuno dei suddetti Stemmi, specialmente nei più antichi, le tre Bande sono disposte in modo da lasciare sul campo dello Scudo, non quattro spazi residuali, come per esempio nello Stemma N°. VI, ma bensì tre soli spazi, come in quelli N°. II, V, VII, IX e X. Si avrebbe insomma, per usare un termine araldico, lo Scudo Bandaio, che ha la particolarità di avere tante Bande quanti sono gli spazi rimasti sul campo, mentre invece nello Scudo con Bande, il numero di queste è sempre inferiore di un’ unità a quello degli spazi, come si vede appunto nel suddetto Stemma N°. VI. Esiste anche un Sigillo, assai rozzo e raro, che appare atipicamente bandaio e cioè con due soli spazi residuati nel campo (N°. III). E finalmente vi sono quattro esemplari di Stemmi Gualdesi in antichi Timbri del Comune (N°. XI, XII, XIII, XIV), che prenderemo in esame a solo titolo di curiosità, poiché, certo per errore od ignoranza di chi li incise, portano due sole Bande invece di tre. È da notarsi il fatto che questi Timbri appartengono, presso a poco, ad una medesima epoca.

Ed ora sembrami opportuno ricordare che, in occasione di queste indagini, tentai anche di scoprire le primitive particolari origini dell’Arme cittadina, ma per quanto cercassi non mi fu possibile

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rintracciarle e le difficoltà di tale ricerca si accrebbero anche per il fatto che, disgraziatamente, non pervenne sino a noi alcuna figurazione dello Stemma di Gualdo, così nelle carte di Archivio come in qualche pittura o scultura, che sia precedente al secolo XIV. I più antichi Scudi, sono infatti quelli da me riprodotti con i Numeri I, II e III.

Certamente lo Stemma di Gualdo non è un Arme parlante, come quella di Fabriano, che ha la figura di un fabbro; quella di Acquasparta, che rappresenta un corso d’acqua spartito da un ponte; quella di Montelupone, che ha un lupo appoggiato su monti; di Sassoferrato, portante una pietra cerchiata di ferro. Non sta a rappresentare qualche monumento od altra particolarità cittadina, come nello Scudo di Ravenna che mostra un pino a ricordo della storica pineta di Dante. Non risulta che Gualdo l’assumesse da qualcuno dei suoi più importanti dominatori antichi, poiché infatti Federico II di Svevia, le città di Spoleto e Perugia, Biordo Michelotti, Braccio Fortebraccio, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino, che in varie epoche possedettero più o meno a lungo la nostra città, non hanno mai avuto Bande sui loro Scudi. Non l’assunse neppure da uno dei tredici Cardinali Legati, che tennero a vita il governo di Gualdo dal 1514 al 1587, poiché come si è detto, già esistevano Bande nell’insegna cittadina sin dal secolo precedente. Non gli venne, a mio parere, da una fazione a cui Gualdo abbia in modo particolare aderito, poiché, considerando le origini spiccatamente Ghibelline della Città, che risorse per opera di Federico II e seguì in principio le parti del grande Svevo, per mente e cuore superiore ai suoi tempi, avrebbe dovuto porre sul proprio Scudo, invece delle Bande le Sbarre che, come si disse, furono l’insegna preferita dai Ghibellini. Del resto, fatta eccezione per le così dette Armi parlanti, le origini e la significazione storica degli antichi Stemmi è quasi sempre cosa difficile per non dire impossibile, specie poi di quelli che, come l’Arme Gualdese, non hanno dei particolari caratteri, ma portano insegne generiche e che si riscontrano spesso in Araldica. Le Bande sono frequentissime infatti nei Blasoni della Franca Contea, ed in Italia basti fra tanti notare gli antichi Duchi di Montefeltro, che avevano uno Scudo bandeggiato d’oro e d’argento, nonché i Sacchetti ed i Tofani di Firenze, i Pasqualigo, i Contarini, gli Ariani ed i Minotto di Venezia, i Briandata ed i Scaniglia di Genova, i Cosci di Livorno, i Santinelli di Pesare, i Gualandi ed i Rossi di Pisa, i Barnabò di Foligno, i Sangri ed i Castrucco di Napoli, antiche e storielle famiglie, le quali tutte, sebbene con diverso colore, portano come Gualdo, le Bande sopra lo Scudo. A proposito dell’Arme nostra, riferendoci a quanto già scrissi più sopra, possiamo quindi oggi soltanto asserire che, per la sua conformazione, risale a tempi assai antichi e che, araldicamente, sta in generale a significare un passato ricco di avventure guerresche, il conseguimento di onori e dignità militari.

Già descrivemmo, i vari tipi dello Stemma di Gualdo che, prima del 1600, si ritrovano sopra tutto nei Sigilli dei documenti d’Archivio.

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Ora però è necessario notare che con il sopravvenire del secolo XVII, sino alla metà del XVIII, venendo completamente assorbita ogni libertà ed ogni autonomia Municipale dal Governo Pontificio, anche l’Arme nostra cittadina scomparve dalle carte manoscritte o stampate del Comune, come dalle pubbliche insegne e venne, quasi in ogni caso, sostituita dal noto Stemma Papale con le chiavi e il triregno. E’ infatti cosa rarissima, durante quell’epoca, trovare nelle pitture, nelle sculture, nei documenti dell’Archivio Comunale, l’Arme antica di Gualdo, cioè lo Scudo con Bande, solo, ovvero portato dall’Arcangelo San Michele.

Però dopo la metà del secolo XVIII, quasi a prevenire la non lontana fine del Governo Papale, dapprima timidamente, e poi sempre più spesso, lo Stemma cittadino cominciò a ricomparire tra noi. Infatti dal 1763 al 1769, fabbricandosi l’attuale Palazzo del Comune, in sostituzione dell’antica residenza Priorale distrutta dal violento terremoto del 1751, i Gualdesi si ricordarono del patrio emblema e sulla fronte del nuovo e vasto edifizio, collocarono un grande Stemma scolpito in pietra, dove faceva bella mostra di sé l’antico Patrono della città, fieramente appoggiato sopra lo Scudo.

Tale Stemma fu poi tolto dalla fronte di quel palazzo per far posto ad un pubblico orologio ed oggi giace dimenticato e mal ridotto, in un fondo Municipale. Ricomparve non solo nelle pubbliche insegne, ma anche nelle carte Municipali sotto forma di stampe e di bolli e persino a scopo decorativo, ed infatti una grande mappa catastale della Città, disegnata intorno al 1835 e conservata nell’Ufficio Tecnico, come pure un ritratto di Gregorio XVI esistente nel l’Archivio del Comune, portano la figura dell’Arcangelo San Michele, che si appoggia su di uno Scudo avente tre Bande.

Ma il ritorno dello Stemma cittadino si effettuò con una novità, consistente nel fatto che, sopra lo Scudo, venne collocata impropriamente ed abusivamente una Corona nobiliare. Il fatto si verificò, la prima volta, nel grande Stemma in pietra, come si è detto, apposto sulla fronte del nuovo Palazzo Municipale, nella seconda metà del Settecento, ma dopo di allora, la Corona nobiliare divenne comune ed immancabile a tutti i nostri Stemmi. Ciò appare, tra l’altro, anche dai Sigilli in uso da quell’epoca in poi, ad esempio in quelli qui indicati con i N. XII, XIII, XIV, XV e risulta anche dai Diplomi a stampa che, dopo l’erezione di Gualdo al rango di Città (1833), si concedettero ai Gualdesi più ragguardevoli, per documentare la loro inscrizione, a seconda dei casi, o nel Ceto Civico o in quello Nobile (N. XVII).

Però, mentre si diffondeva sempre più nelle pratiche pubbliche l’uso dello Stemma cittadino, altrettanto questo tendeva a semplicizzarsi, a spogliarsi cioè della figura di San Michele Arcangelo, restando solo lo Scudo portante tre Bande. Tale tendenza andò sempre più accentuandosi, specialmente nelle module, nei registri e nelle altre carte stampate Municipali, dove l’effigie del Santo Protettore, scomparve completamente nella metà del secolo XIX.

Lo Stemma così semplificato, cioè senza l’Arcangelo, ma sempre

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munito delle tre Bande e sormontato anche da una Corona di Duca o Principe, comincia infatti a divenire costante negli avvisi a stampa per concorsi all’officio di Medico e Maestro, pubblicati da vari tipografi, per incarico del Comune di Gualdo, negli anni 1843, 1844, 1853, 1854, 1855, 1858, 1860, 1862 e 1863.

Ed eccoci così giunti ad un’epoca assai interessante per lo studio dell’Arme Gualdese, poiché appunto allora si verificò il caso stranissimo, che nel Comune di Gualdo Tadino, senza che alcuno se ne avvedesse, si cominciò a cambiare, dapprima con incostanza, poi in modo stabile e radicale, la direzione delle Pezze Onorevoli dello Stemma, falsando quindi anche il significato araldico dello stesso. Le strisce si diressero cioè dalla sinistra del capo alla destra della punta, in altre parole, alle Bande si sostituirono le Sbarre e si ebbe così lo Stemma che indichiamo col N°. XVIII.

Quando e come il cambiamento avvenisse, mi fu possibile apprendere solo dopo lunghe e pazienti ricerche e di esso eccone in breve la spiegazione;

Nell’anno 1864, il Comune di Gualdo commise alla Tipografia Campitelli di Foligno, sin da quel tempo importantissima ed assai nota, la stampa di module per mandati di pagamento e di avvisi di concorso all’officio di Medico, dovendo così le une come gli altri, portare appunto l’Arme della Città nostra. Ma, sia per disattenzione dell’incisore, che facendo sul legno o sul metallo l’impronta delle Bande, non pensò di inciderle in senso inverso, affinchè nella stampa risultassero in direzione normale, sia per qualche altra causa, le stampe pervennero al Municipio di Gualdo fregiate con uno Stemma, il quale, anziché essere fornito delle tre Bande originarie, cioè da tre strisce scendenti diagonalmente dalla destra del capo alla sinistra della punta, era invece munito di tre Sbarre, cioè da strisce dirette nel senso inverso. Nessuno forse si accorse dell’errore o almeno non diede ad esso soverchia importanza ed il Comune di Gualdo, senza osservazione alcuna, seguitò a far pubblicare i suoi avvisi, i suoi decreti e le sue module, a fare intestare le sue carte, cosi dalla Tipografia Campitelli, come da altri stabilimenti tipografici della nostra regione. Da quell’epoca, ma per la durata di pochi anni, si verificò allora un fatto assai singolare, che cioè le stampe prodotte dal Campitelli portavano lo Scudo con le tre Sbarre e delle Corone appartenenti ora all’una ora all’altra delle varie dignità secolari, mentre quelle uscite dai torchi di altri tipografi, lo ebbero, senza eccezione, regolarmente con le tre Bande e la Corona di Duca o Principe. Ad esempio, esistono in Archivio due avvisi a stampa, l’uno per concorrere ali’ officio di Maestro di musica, l’altro al posto di Maestra elementare, i quali benché pubblicati nello stesso anno 1867, pure, perché usciti da due diverse tipografie, sono fregiati ciascuno da un emblema diverso e cioè quello del Campitelli ha le Sbarre ed una Coroncina Patrizia come nello Stemma N°. XVIII, l’altro stampato dallo Sgariglia, pur di Foligno, ha le Bande tradizionali ed una Corona di Duca o Principe.

Avvenne in seguito che il nostro Comune, per un lungo spazio di

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tempo, diede incarico esclusivamente alla Tipografia Campitelli di fornirgli tutte le stampe di cui aveva bisogno ed allora senza contrasto alcuno, l’uso dello Stemma in modo erroneo munito di Sbarre, si generalizzò del tutto nelle nostre pratiche Municipali. Ne venne di conseguenza che anche nei Bolli degli uffici del Comune, si verificò in breve spontaneamente, per imitazione, un tal cambiamento ed infatti intorno al 1887, rinnovandosi alcuni Sigilli, cominciò a comparire pure in essi lo Scudo con le tre Sbarre. Uno Stemma scolpito in pietra, andò poi ad ornare una bella fontana a Porta San Facondino. Si adottarono le Sbarre per gli Stemmi che fregiano i berretti dei famigli, delle guardie, dei cantonieri e consimili impiegati Comunali; si apposero nelle pubbliche insegne, si applicarono sugli stendardi e sulle bandiere di Associazioni cittadine e finalmente, ridipingendosi la grande sala Municipale, si collocò nel centro della sua volta uno Stemma del Comune, dove, sul campo bianco spiccano tre Sbarre rosse. E nonostante che il cambiamento fosse avvenuto pub blicamente, pur tuttavia, pare incredibile, passò inavvertito da ognuno durante un così lungo volgere d’anni, chiaro indizio cotesto di quell’ignoranza e di quella trascuratezza, che nella nostra regione si ha per tutto quanto rappresenta tradizioni storiche e artistiche.

Ma, a dire il vero, anche altre volte, nei secoli scorsi, si errò sostituendo le Sbarre alle Bande nello stemma di Gualdo. Un consimile Stemma ho infatti osservato in una rara Stampa raffigurante il B. Maio da Gualdo, stampa fatta eseguire nel Settecento dai Frati del nostro Convento di S. Francesco e recante, con lo Stemma suddetto, anche una dedica al Gonfaloniere ed ai Priori del Comune di Gualdo.

Solo in questi ultimi anni, dopo che, con una apposita Pubblicazione, feci notare un così grave errore, si è cominciato a ritornare all’antico e genuino Stemma Gualdese, cioè lo Scudo attraversato da Bande e non da Sbarre. Ne resta però purtuttavia esclusa la figura dell’Arcangelo S. Michele.

Poco sopra ho ricordato, incidentalmente, i colori dello Stemma attuale, ed anche di essi non sarà superfluo discorrere alquanto.

Come ho detto, essi sono il rosso per le bande, il bianco pel campo. Ma effettivamente nessun documento scritto, nessun dipinto antico, nessuno dei soliti segni convenzionali araldici (striature e punteggiature) stanno ad indicarci quali furono in origine i colori dello Scudo. Il più antico ricordo che di essi ci resta risale alla prima metà del Seicento, ai tempi cioè degli Storici Folignati Dorio e Jacobilli. Costoro, in due loro Codici oggi conservati nella Biblioteca del Seminario di Foligno (C. V. 14, e. 416; C. V. 5, anno 1242) lasciarono scritto che quando Federico II di Svevia, nel 1242, circondò Gualdo di mura, concesse altresì a questa città il proprio stemma, che portava tre bande rosse in campo bianco.

Ora, a parte l’errore che sia questo lo stemma di Federico II, poiché invece gli Hohenstaufen recavano sul proprio scudo tre leoni rossi leopardati e sovrapposti in campo d’argento, la notizia, dataci dai due scrittori Folignati è pur tuttavia per noi importantissima,

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poiché ci prova che, almeno sin da quell’epoca, cioè sin dai primi del Seicento, i colori dello Stemma Comunale Gualdese, erano pre cisamente quelli attuali. Non vi è quindi motivo di ritenere, che diversi siano stati in passato e nella loro origine. Una sola osservazione dobbiamo fare: Nella pittura araldica, il bianco non esiste, stando esso sempre a significare l’argento, così come il giallo sta a dimostrarvi l’oro e quindi nella figurazione colorata dello Stemma in discorso, le strisce rosse dovrebbero esser tracciate, anziché in campo bianco, su campo d’argento.

Anche a proposito della Corona sovrastante allo Scudo, si sbizzarrì spesso erroneamente l’immaginazione dei disegnatori e dei tipografi. In realtà non ci consta, che al nostro Stemma, in qualche epoca più o meno remota, sia stata concessa l’una o l’altra delle varie corone che si annoverano nell’Araldica. Gli antichi Stemmi del Comune, senza eccezione, ne sono privi ed una Corona di Duca o Principe, venne a fregiare lo Scudo per la prima volta, come si è detto, su quello Stemma scolpito in pietra che fu apposto sulla fronte del nuovo Palazzo Municipale, poco dopo la metà del secolo XVIII.

Ed ora non mi resta che concludere, riassumendo in poche e brevi definizioni quanto già dimostrai e cioè:

-. Lo Stemma antico e vero del Comune di Gualdo, consiste nella figura dell’Arcangelo San Michele, patrono della Città, armato di spada e recante uno Scudo con tre Bande, cioè tre strisce dirette diagonalmente dalla destra del suo capo alla sinistra della sua punta.

– La figura del Santo protettore, rappresentò nell’Arme la parte secondaria ornamentale e per tale ragione non fu costante. Nello Scudo consistette invece l’emblema effettivo della Città e quindi possiamo bene assumere per Stemma cittadino, come già fecero alcune volte i nostri antenati, il solo Scudo con le tre Bande senza l’Arcangelo, ma giammai questo isolatamente cioè senza lo Scudo.

– Non conosciamo i colori originari dello Stemma, ma tenuto conto delle leggi Araldiche e della consuetudine, dovremo adottare il rosso per le Bande e l’argento pel Campo.

– Non risulta che lo Scudo portasse in antico una delle varie Corone che si annoverano nell’Araldica, ma se per seguire l’uso comune, si vuole adottare qualcuna di queste, dovrà preferirsi la Corona di Duca o Principe, come quella che prima comparve sul nostro Stemma; a meno che non si voglia assumere la speciale Corona Comunale, prescritta dall’Art. 44 del Regolamento Tecnico Araldico, approvato con Regio Decreto Numero 234, il 13 Aprile 1905.

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Storia civile ed ecclesiastica del Comune di Gualdo Tadino - Ruggero Guerrieri (I) Sigillo della Corporazione dei Legnaiuoli di Gualdo. Secolo XIV. Vi si vedono lo Stemma Comunale e gli arnesi dì lavoro dei Boscaiuoli, cioè la scure ed il cuneo infisso nel tronco, con le parole abbreviate: Sigillum Artis Maistrorum Linamriorum de Gualdo.
(II) Scultura in pietra sulla Torre centrale e maggiore della Rocca Flea, Torre risalente all’ultima decennio del secolo XIV, nonché su i Capitelli delle colonnine che sostenevano la Mensa dell’antico Altare Gotico del Beato Angelo, nella Chiesa di S. Benedetto, costruito circa la metà di quello stesso secolo e poi barbaramente demolito nei tempi trascorsi.
(III) Sigillo Comunale Gualdese del secolo XV, assai raro nei documenti d’Archivio. Nello spazio circolare bianco intorno alla figura dell’Arcangelo, evvi una leggenda di impossibile interpretazione, ma probabilmente anche in essa, come in quella di Sigilli N. V e XI, si dovrebbe leggere « COMUNITAS GUALDI ».
(IV, V, VI, VII) Sigilli Comunali Gualdesi in uso nel secolo XVI.
(VIII) Scultura in legno sulla fronte di un bel Cofano, oggi conservato nella Pinacoteca Comunale di Gualdo e che servì originariamente per conservare (chiusi con tre serrature) i Sigilli del Comune e che poi fu adibito quale Urna, per depositarvi le schede in occasione delle elezioni. Secolo XVI.
(IX) Scultura in pietra sulla facciata di una delle case prospicienti la Residenza Municipale, case fatte costruire dal Legato Gualdese Card. Del Monte, nella prima metà del secolo XVI, alla quale epoca vi fa anche riferito lo Stemma.

763 – PARTE TERZA – Miscellanea

Storia civile ed ecclesiastica del Comune di Gualdo Tadino - Ruggero Guerrieri (X) Scultura in legno sul piedistallo di una Statua del Beato Angelo, esistente nella Chiesa di S. Benedetto. Secolo XVII.
(XI, XII, XIII, XIV.XV. XVI) Sigilli Comunali Gualdesi in uso dalla fine del secolo XVIII alla metà del XIX. Quello con il N. XV, fu inciso circa il 1633, quando cioè Gualdo ottenne da Papa Gregorio XVI il titolo di Città.
(XIII) Stemma apposto su i Diplomi di Ceto Civico e Ceto Nobile, che si rilasciarono ai Gualdesi, dopo la suddetta erezione di Gualdo al rango di Città.
(XVIII) Stemma Comunale Gualdcse, con errata direzione delle strisce, ossia con Sbarre invece di Bande, del quale era invalso l’uso dalla metà del secolo scorso sino ai primi annì di quello attuale.

764 – PARTE TERZA – Miscellanea

L’ARTE DELLE MAIOLICHE IN GUALDO TADINO

Da tempo antichissimo, la nostra città ebbe importanza notevole nell’arte delle Maioliche, sia comuni che artistiche, e questa industria si trasmise in Gualdo, sempre più florida attraverso i secoli, sino ai giorni presenti, perdurando tuttora. Assai ricercate erano infatti le terrecotte Gualdesi e ce lo prova anche un severo bando emesso nel 1492 dai magistrati di Gubbio, con il quale, per favorire i vasai di quella città, si vietava ai forestieri di portare a vendere su i mercati Eugubini qualsiasi sorta di terrecotte, fatta solo eccezione per le Pignate Gualdenses, di cui era permessa e desiderata anzi l’importazione.

Tra gli antichi vasari Gualdesi, emerse in modo speciale la famiglia Biagioli, detta anche dei Monina, che sino al XVII secolo, possedette una sua fabbrica nella strada oggi appunto appellata la Via Monina. Altra famiglia che in passato coltivò degnamente quest’arte, fu quella dei Pignani: Un Battista Pignani da Gualdo, quivi fabbricava Maioliche nella seconda metà del Cinquecento, ed un suo discendente, tal Lorenzo Pignani, trasferitesi in Roma, vi produceva Maioliche assai pregevoli e nel 1673 otteneva da Papa Clemente X, il privilegio di applicare sulle stesse l’oro, con un sistema speciale prima di allora mai usato. Anche di un altro vasaro Gualdese, e cioè Luzio di Aurelio, abbiamo notizia nella prima metà del Seicento.

Le antiche Officine Gualdesi, fabbricavano, più che altro, delle Maioliche semplicemente policrome, cioè senza lustri o riflessi metalici, ed in minore quantità ne foggiavano fornite di cotali lustri o riflessi, simili cioè a quelle che, nella vicina Gubbio, creava il celebre Mastro Giorgio Andreoli. Questa seconda varietà dei prodotti Gualdesi, se non nel disegno, certo nei suddetti lustri o riflessi metallici, nulla aveva da invidiare ai capolavori di quel grande Maestro. Lo Jacquemart, a tal proposito scrive infatti, che nelle antiche Maioliche Gualdesi, si riscontra «peu ou point d’art, mais dans la donnée des lustres métalliques, la plus brillante application qu’on puisse réver de ce tour de maint dont les esprits furent un moment férus au seizième siècle. Le rubis de Gualdo est si rutilant qu’il efface les bleus intenses; aussi celui qui a vu une pièce teinte de ce rouge, reconnaitra partout les oevres de l’usine».

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Similnente il De Mauri nota che «specialmente il rosso rubino, ha uno splendore tutto caratteristico ed è superiore a quello di Gubbio». Oltre il rosso rubino, anche il turchino oscuro, come giustamente osserva il Genolini, era di una gran perfezione. La caratteristica delle Maioliche uscite dalle fabbriche di Gualdo nel XVI e XVII secolo, sta appunto nel grande contrasto che si riscontra tra il perfetto splendore dei riflessi e l’esattezza del disegno, che lascia invece non poco a desiderare, e ciò conferisce loro un carattere del tutto speciale. Gli stessi Jacquemart e De Mauri, dicono anche che le nostre fabbriche, pare consistessero in una diramazione di quelle di Gubbio, ed il loro giudizio trova infatti riscontro nella tradizione popolare, che vorrebbe importata in Gualdo l’arte dei lustri metallici, da un figlio dello stesso Mastro Giorgio Andreoli. Delle antiche Maioliche Gualdesi semplicemente policrome, senza cioè riflessi metallici, non è oggi difficile trovare esemplari: Molte di esse figurarono all’Esposizione d’Arte Antica Umbra in Perugia nel 1907. Un’abbondante collezione di frammenti, fu anche da me donata nel 1927, al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza. Tra le Maioliche Gualdesi di questo genere, un vero capolavoro è il grande Altare in terracotta, tutto ricoperto di smalti colorati, sullo stile di Luca della Robbia, con figure e fregi in basso ed alto rilievo, che esisteva un tempo nella Chiesetta della SS. Trinità, rifugio alpestre il quale sorge solitario sull’estrema e desolata vetta del Monte Serra Santa, a 1348 metri sul livello del mare, ed oggi invece ammirasi in una cappella, nell’interno della Chiesa di S. Francesco in Gualdo.

Detto altare misura, sopra la sua mensola, metri 2.60 di altezza per metri 2.25 di larghezza. La sua estremità superiore, a forma di timpano, contiene in alto rilievo la scena dell’Annunciazione e tra le due figure di questa, appare un ricco vaso ripieno di frutta. Sotto al timpano, ossia nel quadro centrale dell’altare, vedesi in mezzo il Padre Eterno, con in capo una specie di mitria e con le braccia protese in avanti, seduto su di una predella ornata anteriormente da sei piccole figure di Religiosi d’ambo i sessi, inginocchiati ed oranti, racchiusi in un medaglione avente ai lati due draghi. Intorno al capo del Padre Eterno, due Angeli con le mani giunte, si librano a volo, e più all’esterno, da ciascuna parte, lo spazio restante è occupato da una testa di Cherubino. Di fianco al Padre Eterno, a destra di chi riguarda, scorgesi S. Facondino in atto di preghiera e S. Rocco; a sinistra S. Sebastiano con le braccia conserte al petto e la Vergine anche essa orante. Tutte queste figure, foggiate a basso ed alto rilievo, hanno un altezza di metri 1.20 circa. I pilastrini laterali, che con la soprastante base del timpano servono da cornice al quadro centrale or ora descritto, sono ornati con trofei d’armi, istrumenti musicali, libri, vasi e tabelline recanti dei motti, ad esempio: Laus Deo. Detti pilastrini figurano poggiare su altri due sottostanti, alti metri 1.18, che dalla mensola dell’altare, lungo la muraglia, vanno sino a terra e sono ornati con bizzarri fregi e mascheroni. Gli intensi freddi e l’umidità della deserta Chiesuola alpestre, dove solo giunge

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durante l’anno qualche raro pastore o qualche audace escursionista, hanno deteriorato questo bellissimo altare. Non vi esiste alcuna data circa l’epoca in cui fu eseguita quest’opera, che va certo riferita alla prima metà del secolo XVI, forse a tempo di qualche pestilenza e ciò in considerazione della presenza nel quadro, come si è detto, di S. Sebastiano e S. Rocco, noti protettori contro la peste.

Un’altro bello e grande altare, uscito dalle antiche fabbriche Gualdesi, è quello oggi esistente nella remota Chiesa Parrocchiale di Giomici , nel Comune di Valfabbrica, dedicata all’Arcangelo S. Michele. Le parti decorative di questo altare, specie per quanto si riferisce alle cornici del timpano ed ai festoni di frutta, hanno grandissime somiglianze con le corrispondenti decorazioni del già descritto altare della Chiesa della SS. Trinità sul Monte Serrasanta e si direbbero anzi foggiate dalla stessa mano. Questo di Giomici, differisce dal precedente, per il fatto che la parte centrale, anziché le immagini in terracotta, contiene invece un quadro su tela raffigurate il Titolare della Chiesa, cioè l’Arcangelo S. Michele.

Assai più rare, sono le Maioliche Gualdesi fornite di riflessi o lustri metallici, le quali, sprovviste generalmente di qualsiasi marca, si confusero spesso con i prodotti Eugubini. Nove di questi pezzi, già facenti parte dell’antica e ben nota Collezione Campana, e che furono minutamente descritti dal Darcel, con la Collezione stessa passarono poi al Museo Parigino del Louvre, dove ancora si trovano. Nell’Esposizione di Parigi del 1878, due bei piatti scodellati, completamente coperti di lucidi metallici, figuravano tra gli oggetti rari esposti nelle sale del Trocadero, sezione delle Maioliche antiche Italiane. Anche nella Raccolta del Genolini, esisteva un piatto perfettamente conservato, del tutto rassomigliante ai due precedenti, che venne giudicato come una delle migliori Maioliche eseguite in Gualdo nei primi del secolo XVI. Finalmente alle fabbriche Gualdesi sono da attribuirsi anche alcune piccole mattonelle smaltate policrome, murate sopra la porta d’ingresso della Chiesa della Madonna del Piano, presso Gualdo.

Ininterrotta, questa geniale arte delle Maioliche, sin dagli antichi tempi, seguitò a progredire in Gualdo Tadino. Una prova della grande attività delle nostre fabbriche, anche nel secolo scorso, ci è data tra l’altro, da un Decreto a stampa pubblicato dalla Delegazione Apostolica di Perugia, il 14 Decembre 1833, con il quale si prescrivevano varie pene e multe ai numerosi Vasari e Fornaciari Gualdesi che, aprendo dovunque cave per estrarne l’argilla necessaria alla loro industria, ma specialmente nei dintorni del villaggio di Cerqueto, lasciavano stagnare le acque in dette cave, le quali divenivano poi fomite di miasmi e di infezioni palustri. E il Decreto suddetto, considerando « che per quanto sia stimabile una industria nei Vasellaj e Fornaciaj, in ogni modo la medesima deve cedere alla preziosità della vita di non pochi Agricoltori che formano anch’essi una classe di uomini assai benemeriti», fissava a tale scopo dettagliate norme per l’estrazione delle argille e per il buon mantenimento delle corrispondenti cave.

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Anche al presente, numerose fabbriche di Maioliche, si artistiche che comuni, prosperano in Gualdo Tadino, diffondendo dovunque nelle più lontane regioni, fuori dei confini d’Italia e d’Europa, le loro geniali creazioni. (1)

(1) De MAURI: L’Amatore di Maioliche e Porcellane. Milano 1899. pag. 196 – A. GENOLINI: Maioliche Italiane, Marche e Monogrammi. Milano 1881. pag. 77 – Catalogo della Mostra d’Antica Arte Umbra, edito dal Comitato esecutivo. Perugia 1907. Sala XII. N°. 80, 147, 164,165, 176, 185, 204, 222, da 244 a 306, 322, da 353 a 361, da 371 a 380, 411 – A. Jacquemart: Les mervelleis de la Cèramique. Paris 1870. Parte II. pag. 184 ; Histoire de la Ceramique.Paris 1873. pag. 324 – C. Drury E. fortnum : Maiolica. Londra 1875. pag. 126 – A. Darcel : Notice des fayences peintes Italiennes etc. Paris 1864. pag. 276, 305 e seg. – Arch. Notarile di Gualdo: Rogiti di Francesco Bongrazi dal 1636 al 1638, c. 23; di Francesco Cecchini dal 1572 al 1591, c. 147t.

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NOTIZIE STATISTICHE E TOPOGRAFICHE

Gualdo Tadino, nella Provincia di Perugia, è oggi Capoluogo di un Mandamento comprendente i circostanti Comuni di Nocera Umbra, Fossato di Vico e Sigillo. Sorge a metri 537 di altezza sul livello del mare, nel confine tra 1’Umbria e le Marche su di un Colle chiamato S. Angelo, ai piedi dell’Appennino Centrale, che si eleva a Nord-Est della Città e più propriamente ai piedi del versante Mediterraneo del Monte Serra Santa, dominando così tutta la ridente ed estesa vallata che a Sud-Ovest le si distende davanti. È posto sotto 0° 19′ di longitudine (Meridiano di Roma) e 43° 13′ di latitudine.

Il territorio del Comune di Gualdo Tadino è esteso Km. q. 119.240, ha la figura di un poligono arrotondato, con un diametro medio di Km. 14, e in sé comprende i seguenti villaggi : Rigali che dista da Gualdo Km. 3 e m. 520, Petroia Km. 4.240, Corcia Km. 5.900, Casone Km. 5.950, Roveto Km. 6.120, Gaifana Km. 6.960, Boschetto Km. 7.970, Busche Km. 6.300, Margnano Km. 7.040, S. Lorenzo Km. 7.940, Rasina Km. 4, Broccaro Km. 5.400, Voltole Km. 7.170, Case Genni Km. 7.770, Palazzo Ceccoli Km. 3.380, Cerqueto Km. 4.080, Pastina Km. 6.980, Grello Km. 8.700, Maggiano Km. 9.440, Morano Osteria Km. 12, Morano Madonnuccia Km. 14.250, Palazzetto Km. 5.500, S. Croce Km. 6.630, Badia di Val di Rasina Km. 8.580, Pieve di Compresseto Km. 11.140, Poggio S. Ercolano Km. 12.340, Magione Km. 3.500, Piagge Km. 5.400, Nasciano Km. 5.100, Borgonuovo Km. 5.140, S. Pellegrino Km. 6.600, Crocicchio Km. 9.540, Caprara Km. 13.260, Casale Km. 2.180, S. Facondino Km. 2.860, Vaccara Km. 3.700, Palazzo Mancinelli Km. 4.160, Pian di Gualdo Km. 4.100, Genga Km. 4.400, Categge Km. 5.320. Confina al Nord con i Comuni di Gubbio e Fossato, da cui Gualdo dista rispettivamente Km. 24 e Km. 9, ad Est con Fabriano Km. 28, al Sud con Nocera Km. 14, ad Ovest con Valfabbrica Km. 24. Dista infine dal Capoluogo di Provincia, (Perugia) Km. 48.

In quanto alla viabilità, il territorio di Qualdo è attraversato per Km. 13, cioè da Gaifana, confine con il Comune di Nocera, a Categge, confine con il Comune di Fossato, in direzione Sud-Nord, dall’importante Linea Ferroviaria Roma-Ancona, con Stazione a

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Km. 2 da Gualdo ed altra Stazione a Gaifana; per Km. 4, dal Ponte sul Fiume Sciola al Ponte sul Chiascio, presso il villaggio Branca, confine con il Comune di Gubbio, in direzione Est-Ovest, dall’altra linea Ferroviaria Fossato-Arezzo ; per Km. 14, da Gaifana a Categge, dalla Via Flaminia, in direzione Sud-Nord; per Km. 11.620, da Gualdo al Vocabolo Canepine presso il Castello di Schifanoia, confine con il Comune di Valfabbrica, dalla Via Provinciale che mena a Perugia, direzione Ovest-Est; per Km. 8.280, da una Colonnetta indicante il bìvio per Fossato e Gubbio, al ponte sul Chiascio, dalla Via Provinciale Eugubina, in direzione Est-Ovest. Il territorio è inoltre solcato da numerose e comode Strade Comunali, aventi una sezione media di m. 4.50, le quali congiungono la Città ai su nominati Villaggi. Tali vie si dipartono: Da quella Provinciale per Perugia, presso il Vocabolo Contado, sino a Pieve di Compresseto (Km. 3.760); dalla Provinciale per Perugia, Vocabolo Padiglione, passando per Pastina, Grello e Morano sino al confine con il Comune di Valfabbrica (K. 12i; dalla Via Flaminia, passando per Rigali, sino a Petroia (Km. 1); dalla Via Comunale di Grello sino a Maggiano (Km. 1.350); dalla Flaminia, presso il Casone, sino a Roveto (m. 720); dalla Flaminia sino a Corcia (m. 680); dalla Flaminia a Busche e Margnano, sino a S. Lorenzo (Km. 3.240); da Rigali alle Voltole (Km. 3.800); dalla Flaminia, presso la Chiesa di S. Rocco, alla Rasina (Km. 3); dalla Strada Comunale di Pieve di Compresseto sino a Poggio S. Ercolano (Km. 1.320); dalla Via Provinciale per Perugia a Palazzetto (m. 720); dalla Provinciale per Perugia, presso la Stazione Ferroviaria, sino alle Piagge (Km. 3.280), dalla Via Provinciale Eugubina, presso il Ponte sul Chiascio, sino a Caprara (Km. 3); dalla Provinciale Eugubina, presso Corraduccio, sino a Crocicchio (Km. 1); dalla Provinciale Eugubina a S. Pellegrino (Km. 1.200); dalla Provinciale Eugubina a Borgo Nuovo (Km. 1); dalla Flaminia a Palazzo Mancinelli (m. 520); dalla Flaminia a Vaccara (m. 480) ; dalla Flaminia a S. Facondino (m. 400) ; dalla Flaminia a Casale (m. 400); dalla Comunale per le Piagge fino all’incontro con la Provinciale Eugubina, lungo il percorso della vecchia Strada Flaminia, (Km. 1.860); e dal passaggio di Gaifana al Ponte Pacifico, sul confine con Nocera Umbra (Km. 1.140). Oltre a ciò, il territorio è percorso in montagna da Km. 9.270 di Strada Carrabile della sezione media di m. 2.70; e da Km. 43.790 di Strada Mulattiera, della sezione media di m. 2. In collina è percorso da Km. 6 e mezzo di Strada Carrabile della sezione media di m. 3, e da Km. 6.180 di Strada Mulattiera della sezione media di m. 2.20. Finalmente vi sono Km. 39,830 di Strade Carrabili aperte, parte in collina e parte in pianura, in istato mediocre, della sezione media di m. 3; e Km. 186.673 di Strade Carrabili incassate, pure della sezione media di m. 3, parte in collina e parte in pianura, le quali trovansi in cattivo stato. Nel complesso la viabilità si può dire al completo, essendovi circa tre Km. di strada, per ogni Km. di del territorio. Quest’ultimo, è costituito da un altipiano limitato ai lati da due catene di rilievi montuosi, quasi paralleli e diretti da Nord

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verso Sud. L’altipiano ha una media di m. 420 di altezza sul livello del mare, è coltivato prevalentemente a vite, grano e formentone, ed è costituito da sedimenti alluvionali brecciosi rossastri, più raramente argillosi bruni, del periodo quaternario antico e recente. Delle due catene di rilievi montuosi, quella a ponente dell’altipiano, è formata da colline, contrafforti dell’Appennino, tra le quali raggiungono la maggiore altezza Monte Rampone (m. 763), Monte Citerna (m. 727), Monte Camera (m. 720). Sono in parte coltivate e in parte coperte da boschi cedui e risultano costituite in prevalenza da marne ed arenarie del periodo terziario antico. La catena a levante dell’altipiano fa parte dell’Appennino Umbro-Marchigiano, ed è formata da vere montagne tra le quali, andando da Sud verso Nord, sono notevoli il Penna (m. 1432) che ha una miniera di ferro, il Monte Fringuello (m. 1186), il Monte Nero (m. 1413), il Monte Serra Santa (m. 1348) e il Monte Maggio, corruzione dell’antico nome Monte Maggiore, Mons Maioris, come leggesi in una pergamena Fabrianese del 1282 (m. 1361). In tale catena predominano, sopra ogni altro tipo di roccia sedimentaria, numerose varietà di calcari stratificati dell’epoca secondaria, da ciò la sua ricchezza in ottime cave di pietra per costruzione. Ha le più alte vette nude, squallide e rocciose, tutto al più mantenute a praterie, spesso bianche per neve sino all’Aprile, ma i suoi fianchi sono rivestiti da boschi cedui di quercia, elce, faggio e castagno ed ai suoi piedi vegeta rigoglioso l’olivo. Un tempo, tutte queste montagne erano completamente coperte da boscaglie secolari, dove vivevano abitualmente il cinghiale ed il lupo, e sulle quali si libravano le aquile, ma vandalicamente abbattute le foltissime selve, anche quegli animali in parte scomparvero dalla nostra fauna, che oggi, per i quadrupedi di qualche importanza, è solo rappresentata da pochi lupi, dalla volpe e dalla lepre.

Il sistema fluviale del territorio Gualdese, consta di piccoli ma numerosi corsi d’acqua aventi origine dai monti suddetti: Tra i più importanti abbiamo il fiume Feo, che è alimentato dalle sorgenti della Valle di S. Marzio (m. 620 d’altezza), rasenta le mura della Città, ed è tributario del Rasina, dopo Km. 4 e mezzo di corso. Il Rasina, che formasi nel Padule di Rigali presso Setteponti, (m. 480 d’altezza), e dopo un corso assoluto di Km. 14, va a gettarsi nel Chiascio, percorrendo terreni argillosi in gran parte ottimi per la fabbricazione di maioliche e laterizi. Il Rio Vaccara, in tempi remoti chiamato Castriano, che nasce sopra il villaggio di Vaccara, a m. 500 di altezza, tra Monte Maggio e Serra Santa, e dopo percorsi Km. 5 si unisce allo Sciola ; presso le sue sorgenti esisteva l’antico Castello di Castriano, che aveva dato il nome a questo corso d’acqua e del quale erano ancora visibili le rovine nel XVII secolo. Il Remore, lungo Km. 6, che si origina a Capo d’Acqua, in vocabolo Mori, dove pure esisteva un antico Castello Romano di tal nome, (m. 560 d’altezza), a monte del Convento dei Cappuccini, ed è an ch’esso affluente dello Sciola; nel Medio-Evo chiamavasi Rivum Mori, da cui certamente originò per corruzione Romare, e nel Seicento questo fiumicello faceva funzionare tre molini per cereali,

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una Valchiera per fabbricare carta, ed una per panni. Va ricordato infine lo Sciola, che formasi presso il predio Le Pezze, sotto Nasciano, (m. 450 d’altezza), ha Km. 8 di corso dopo la confluenza del Romore, e scarica le proprie acque nel Chiascio. Il Chiascio poi ed il Rio Boschetto, non attraversano come i precedenti il territorio Comunale, ma scorrono sul suo confine, segnandone i limiti rispettiva­mente con i Comuni di Gubbio e Nocera-Umbra, il primo per una lunghezza di Km. 7 e mezzo, ed il secondo per Km. 1.700. L’Arone, il Padule, il Maccantone, il San Giovanni, il Nagello, sono poi tor rentelli quasi asciutti nell’Estate, che solcano il nostro territorio recando solo acqua pluviale, e dei quali i primi due si versano nel Rasina e gli ultimi tre nel Caldognola, altro torrente che scorre per Km. 2 e mezzo su i confini del Comune, segnandone anzi i limiti con quello di Nocera.

Nel territorio Gualdese, è infine accertata la presenza dell’Uomo preistorico, e ne fanno fede alcune Stazioni dell’Epoca della Pietra da me rinvenute in Morano e nella Valle di S. Marzio, Stazioni ricche di oggetti lavorati in silice ed osso.

Scendendo poi ad epoche che più si avvicinano a quelle storiche, ricorderemo anche non poche scoperte archeologiche, che furono fatte in ogni tempo nello stesso territorio. Queste scoperte, sempre fortuite e che si poterono regolarmente sorvegliare e studiare soltanto da poco più di un decennio, consistono, in modo quasi esclusivo, nel rinvenimento di sepolcri isolati, oppure di sepolcreti veri e propri, però tutti con il rito dell’inumazione. Soltanto una tomba, trovata l’anno 1928 nella contrada «San Facondino» era a cremazione, provvista di vari vasi di corredo e protetta da un tumulo di pietre ivi trasportate dal prossimo monte. Questo è il sepolcro più antico venuto in luce nel nostro territorio, e, dal vasellame d’impasto grezzo e mal cotto e dagli altri oggetti che ne formavano la suppellettile funebre, si può giudicare come appartenente all’ottavo e forse al nono secolo avanti Cristo. Tombe del settimo e sesto secolo avanti Cristo, sono state trovate un po’ dovunque: Nella località Ginepraio, sita sul Monte Castiglione sopra il villaggio di Boschetto, a Campo Calvio, nella pianura tra Gualdo e la Chiesa detta Madonna del Piano, nonché presso il gruppo di Case Popolari sorte poco lungi dall’ex Chiesuola di S. Rocco. Ma i gruppi di sepolcri più numerosi e che furono perciò anche metodicamente scavati, sono stati quelli scoperti nella località Malpasso esistente presso l’antica Tadinum, nel vocabolo Le Cartiere situato sulla riva sinistra del Rio Romore ed a San Facondino, presso la Chiesa omonima; sepolcri che possono rimontare al quarto o terzo secolo avanti Cristo. Tombe della fine della Repubblica Romana ed Imperiali, sono quelle che più frequentemente s’incontrano in occasione di lavori agricoli e quasi sempre nelle vicinanze ed a monte dell’antica Via Flaminia. Non sono state invece fino ad ora rinvenute tombe del quinto secolo, ma soltanto qualche raro oggetto pertinente a quel periodo di civiltà, venne raccolto in tombe di poco più tarde.

La forma dei sepolcri è sempre la fossa, a differenza dei vari tipi

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che si riscontrano in altre regioni, dove la natura del sottosuolo essendo diversa, prestavasi invece a scavare loculi ed ipogei. La fossa aveva ristrette dimensioni quando doveva contenere soltanto il cadavere e qualche oggetto; facevasi però più grande allorché il corredo funebre del defunto era assai più abbondante. L’ubicazione degli antichi centri abitati corrispondenti ai vari sepolcreti scoperti, fu potuta identificare soltanto per la necropoli di Monte Castiglione, presso la quale abbondavano infatti avanzi ceramici e frammenti di tegole e di coppi del tipo più antico (V1I-V1 sec. a. C.). Ma resti di altri consimili centri abitati, che erano difesi in gran parte naturalmente e trovavansi prossimi ai gruppi più densi di sepolcri, non devono difettare nel territorio Tadinate e credo che sarebbe facile poterli rintracciare mediante opportuni saggi. In questi antichissimi centri abitati, risiedevano le primitive popolazioni della nostra regione, le quali, lontane dal mare e da importanti città commerciali, si dedicarono, per certo, quasi esclusivamente ai lavori agricoli ed alla pastorizia. Da qui l’uniformità e la rozzezza del vasellame, la povertà e la semplicità degli oggetti da noi ricuperati nei loro sepolcri. Dai risultati delle scoperte che sono state fatte, possiamo inoltre affermare che nel quarto e terzo secolo avanti Cristo, nel nostro territorio, densissima dovette essere la popolazione residente presso quella grande arteria Consolare che era allora la Via Flaminia, popolazione che da certi utensili, armi ed armature restituitici dai sepolcri, dovremmo giudicare di origine Gallica, così come Galliche erano le necropoli rinvenute alcuni anni or sono nel Piceno, a Filottrano ed a Montefortino.

Il Vernacolo del territorio Gualdese, appartiene, nelle sue linee generali, al sistema dialettale Romano-Umbro-Marchigiano, con il quale ha comune infatti i più importanti caratteri. Ma considerato nelle sue sfumature fonetiche e morfologiche e nelle sue intonazioni, ci appare come un nucleo linguistico diverso dai dialetti da cui è contornato, vale a dire dal Folignate a Sud, dall’Eugubino a Nord, dal Fabrianese ad Est e dal Perugino ad Ovest.

Vi si riscontra, con frequenza, la sottrazione dell’ultima sillaba di una parola, specie negli infiniti dei verbi (parlà, vedè, sentì, lègge, invece di parlare, vedere, sentire, leggere) e nei nomi propri (Antò, Filomè, Piè, per Antonio, Filomena, Pietro). Comune è anche la perdita della prima lettera o sillaba di una parola (‘na, ‘mporre, ‘ l, ‘n, ‘sto, per una, imporre, il, un, questo) e la riduzione ad j del nesso gl (fijo, foja, anzi che figlio, foglia). Abbonda l’aggiunta d’una vocale o sillaba alla fine di una parola; così a molte voci monosillabiche si applica la particella ne od e (scine, none, mene, tene, quane, chene o quene, lue, seie, per si, no, me, te, qua, che, lui, sei). I nomi dei parenti si prolungano con la forma atona del pronome possessivo che caratterizza la relazione di parentela (màmmeta, fràtemo, bàbbeto, sòreta, cioè mamma tua, mio fratello, babbo tuo, tua sorella). Esiste pure l’aggiunta di sillabe al principio della parola specie delle par ticelle to o tu agli avverbi di luogo (tuquì, tolà, tulì, per qui, là, li) e della lettera t alla preposizione a ( ta me, ta te, per a me, a te).

773 – PARTE TERZA – Miscellanea

Si riscontra frequente la trasposizione nell’ordine delle lettere o, per meglio dire, dei suoni di una parola specialmente nei nessi dell’r (drento, crastato, stroppio, treato per dentro, castrato, storpio, teatro). Notevole a tal proposito il fenomeno del cambiamento della sillaba ri in ar (arpulire, ardire, arfare, artornare, anzi che ripulire, ridire, rifare, ritornare). Per il consonantismo basti ricordare le assimilazioni di Id in il (callo, per caldo, Guatto per Gualdo), di nd in nn (quanno per quando, tonno per tondo, sponna per sponda, unnece per undici), di mb in mm (gamma per gamba) e per il vocalismo atono la preferenza dell’e sull’a nella penultima dello sdrucciolo (balsemo, sabbeto, per balsamo, sabato); come pure anche nelle finali postoniche, all’i spesso corrisponde e (diece, domane, ogge, per dieci, domani, oggi). Troviamo infine abbondantissime le alterazioni di voci, anche comuni, alterazioni che sono di varia origine e più o meno diffuse anche in altre regioni dell’Italia Centrale (tronàre per tuonare, ciménto per cemento, sentùto per sentito, poje per polli, gajina per gallina, ferrorìa per ferrovia, ogna per unghia).

Dei vocaboli speciali caratteristici, potrebbe farsi un lunghissimo elenco, basti citare i seguenti: Stronàto (bisbetico), pantecàna (grosso topo), pomèssa (luogo riparato dal vento o dal sole), crèscia (pizza o torta), mojìca (mollica), luta (carbone acceso), nìscola (altalena), screàto (deficiente), ombrecciòne (ombelico), fiocca (gallina nel periodo che cova le uova) frìscolo (torchio per uve), uccàta (grida scomposte per deridere alcuno), ascenciòne (la mosca che in estate depone le uova sulle carni), chiòchena (fogna), giómo (gomitolo), prèscia (fretta), schiòppa (spicchio d’aglio), ciampecòne (persona trasandata), ciarapìca (pettegola), ventèllo (torlo d’uovo), bonamènte (sovente), sparniciarèlla (sonnolenza), brància (foglia), gracèscia (grappolo), tròscia (piccola raccolta d’acqua stagnante), genigèlla (cenere ancora calda commista a particene di fuoco), ciàffo (stoffa sciupata), bufa (tempesta di neve), pescòlla (pozzanghera) e, tra i verbi, agguattà (nascondere), rusticà (far solletico), sguillà (scivolare), arcutinà (radunare), impatassà (ostacolare), rimbeferà (ripetere), sgarufà (razzolare, metter sossopra), smuginà (rimescolare), annugìrse (annoiarsi), trabadàrse (trastullarsi), abbozza (tollerare), strinàrse (sentir freddo), abboccà (entrare), ag ginàrse (sbrigarsi), inciarfajà (balbettare), introgiàrse (lordarsi con melma), stollà (dissaldare), stolzà (schizzare), smastriccià (maneggiare qualcosa senza cura), rancicà (graffiare), sfrigià (produrre segni lineari simili a graffiti), scòte (nel senso dello spazio, per esempio: Non ci scote, per Non c’entra), calfì (ammuffire), mollà (bagnare), aggàttlirse (esser colpiti da raucedine), stremolì (rabbrividire per freddo), sfantazzà (folleggiare), scatizzà (suscitare), capà (scegliere), ammarrà (danneggiare il taglio ad una lama), trizzicà (tentennare), attufà (proteggere bene dal freddo con scialli o mantelli), tricà (durare), etc.

L’ultima Statistica Ufficiale, pubblicata nel 1931, dava per la nostra popolazione, le cifre che riassumiamo qui appresso. E’ interessante confrontare tale Statistica, con quelle che già riportammo a proposito della popolazione Gualdese in epoche precedenti (vedi pag. 255, 277, 283, 284):

774 – PARTE TERZA – Miscellanea

LOCALITÀ
con le case isolate circostanti
Famiglie Abitanti residenti
Gualdo Tadino e sobborghi . . 931 4001
Morano . . . . . 166 1016
Pieve di Compresseto …. 108 694
San Pellegrino …… 117 621
Rigali . . . . . 106 507
Caprara ……. 67 495
Cerqueto . . . . . 82 438
Grello …. 64 412
Palazzo Mancinelli . . 77 359
Poggio Sant’ErcoIano . 51 328
Vaccara …. 55 309
Rasina … 44 295
Palazzo Ceccoli . . 39 255
Piagge ……. 42 221
Casale ……. 33 205
Crocicchio … 25 186
Roveto . . . . . . 33 186
Petroia … 33 167
Voltole … 24 156
Maggiano . . 25 154
Gaifana (Porzione appartenente a Gualdo) 33 145
Nasciano ……. 21 142
Busche . . . . . . . 20 140
Pastina . . . . 28 140
Corcia . . . . . . 20 134
Borgonuovo …… 19 121
Gambaro ……. 17 120
San Lorenzo . . . 16 108
Badia. (Porzione appartenente a Gualdo) 16 107
Caselle ……. 17 102
Palazzetto . . . . 16 95
Categge ….. 5 57
Genga . . . . . 9 44
San Facondino …. 7 41
Case Genni . . . 8 36
Broccaro . . . 5 31
Maccantone (Porzione appartenente a Gualdo) 4 30
Boschetto (Porzione appartenente a Gualdo) 6 28
Pian di Gualdo . . . . 4 26
totali 2393 12652

775 – PARTE TERZA – Miscellanea

La popolazione Gualdese è eminentemente laboriosa, e nella Città prosperano numerosi e svariati Stabilimenti Industriali, tra i quali tipici quelli per la fabbricazione delle Maioliche Artistiche, ben noti in Italia ed all’estero. Anche il commercio è, non meno dell’industrie, assai sviluppato, con nell’inverno importanti mercati settimanali e nell’estate frequentatissime Fiere ogni mese, mentre per i bisogni commerciali sonvi pure dei fiorenti Istituti di Credito. Le molte e svariate Associazioni Cittadine, le numerose e antichissime Opere Pie, e i ben frequentati Istituti Scolastici, provano inoltre anche essi, quanto vivace sia il soffio di progresso e di civiltà che anima questa gaia cittadina dell’Umbria verde. 

INDICE DEI CAPITOLI

777 – INDICE DEI CAPITOLI

PREFAZIONE
Pag. VII
PARTE PRIMA – STORIA CIVILE
Dalle origini sino ai tempi moderni
Pag. 3
PARTE SECONDA – STORIA ECCLESIASTICA
Gli Ordini Religiosi ed i loro Monasteri
I Frati Minori Conventuali ed il loro Convento di S. Francesco
Pag. 287
I Frati Minori Osservanti ed il loro Convento di S. Maria Annunziata
294
I Frati Minori Cappuccini ed il loro Convento di S. Michele Arcangelo
298
Le Monache Clarisse ed i loro Conventi di S. Margherita e di S. Chiara
301
I Monaci Benedettini.
Le loro Abbazie di S. Benedetto, di S. Donato e di S. Pietro di Val di Rasina – I loro Eremi di S. Salvatore e di S. Pietro di Acqua Albella e di S. Gervasio e S. Protasio a Capo d’Acqua
Pag.
307
Le Monache Benedettine ed i loro Monasteri di S. Pietro di Val di Rasina, S. Agnese, S.Lucia, S. Maria Maddalena e S. Maria di Capezza
336
La Congregazione Monastica Benedettina Cisterciense del Corpo di Cristo in Gualdo Tadino
342
I Monaci Silvestrini e la Congregazione degli Oblati di S. Carlo nel Monastero di S. Niccolo
349
I Monaci Agostiniani ed il loro Convento di S. Agostino
350
L’Istituto Salesiano S. Roberto
351
Le Chiese
Chiesa di S. Benedetto in Gualdo Tadino
Pag.
353
Chiesa di S. Donato in Gualdo Tadino
365
Chiesa di S. Francesco in Gualdo Tadino
372
Chiesa di S. Maria dei Raccomandati in Gualdo Tadino
382
Chiesa di S. Margherita in Gualdo Tadino
388
Chiesa di S. Paterniano in Gualdo Tadino
391
Chiesa di S. Agostino in Gualdo Tadino

Chiesa di S. Niccolo in Gualdo Tadino
393
Chiesa di S. Maria di Tadino poi S. Chiara in Gualdo Tadino
394
Chiesa dei S.S. Agnese e Filippo in Gualdo Tadino
399
Chiesa di S. Sebastiano in Gualdo Tadino
401
Chiesa di S. Maria del Purgo o « La Madonnuccia» in Gualdo Tadino
403
Chiesa di S. Angelo di Flea in Gualdo Tadino
404
Chiesa di S. Maria di Loreto in Gualdo Tadino
405
Cappella di S. Giovanni Battista nella Rocca Flea
406
Chiesa di S. Andrea nel Quartiere di Porta S. Benedetto in Gualdo Tadino
407
Chiesa di S. Maria dei Ceccarelli in Gualdo Tadino
408
Chiesa di S. Andrea Apostolo nel Quartiere di Porta S. Donato in Gualdo Tadino

Chiesa di S. Lucia e S. Giuseppe presso la Porta Civica di S.Facondino in Gualdo Tadino
411
Oratorio di S. Giovanni Battista in Gualdo Tadino
412
Chiesa di S. Pietro Apostolo in Gualdo Tadino

Chiesa di S. Bernardo della Capezza in Gualdo Tadino
413
Chiesa di S. Antonio in Gualdo Tadino
414
Chiesa di S. Maria Nuova in Gualdo Tadino
415
Chiese di S. Lorenzo e di S. Biagio in Gualdo Tadino

Chiesa di S. Maria del Mercato in Gualdo Tadino
416
Chiesa di S. Antonio Abbate fuori la Porta Civica di S. Facondino in Gualdo Tadino

Chiesa di S. Giacomo Apostolo fuori la Porta Civica di S. Facondino in Gualdo Tadino
418
Chiesa di S. Maria Annunziata nel Convento dei Minori Osservanti presso Gualdo Tadino
419
Chiese del Beato Marzio e della Beata Anna presso Gualdo Tadino
422
Chiesa della SS. Trinità sul Monte Serra Santa
423
Chiesa del Crocifisso presso Gualdo Tadino
425
Chiesa di S. Rocco presso Gualdo Tadino
427
Chiesa di S. Maria e S. Gregorio della Cava o di S. Spirito presso Gualdo Tadino
429
Chiesa del Corpo di Cristo fuori la Porta Civica di S. Benedetto in Gualdo Tadino
432
Chiesa di S. Maria di Rote presso Gualdo Tadino
434
Chiesa di S. Michele Arcangelo nel Convento dei Frati Minori Cappuccini
435
Cappella del Beato Angelo presso il Convento dei Frati Minori Cappuccini
437
Chiesa dei S.S. Gervasio e Protasio e Capo d’Acqua
439
Chiesa di S. Facondino nel villaggio omonimo
440
Chiesa del Cimitero Comunale Principale
449
Chiesa di S. Biagio presso il villaggio di Vaccara
450
Chiesa della Visitazione di Maria Vergine nel villaggio di Palazzo Mancinelli
451
Chiesa di S. Giuseppe nel Piano di Gualdo
454
Chiesa di S. Egidio presso il villaggio di Categge
455
Chiesa di S. Pellegrino nel villaggio omonimo
456
Chiesa di S. Maria delle Grazie nel villaggio di S. Pellegrino
464
Chiesa di S. Bartolomeo nel villaggio di S. Pellegrino
466
Chiesa del Crocifisso nel villaggio di S. Pellegrino
467
Chiesa di S. Maria di Monte Camera nella Parrocchia di S. Pellegrino

Chiesa di S. Giuseppe nel villaggio di Borgonuovo
468
Chiesa di S. Maria del Gambaro
469
Chiesa di S. Maria di Frate Luca sulla Via Flaminia
470
Chiesa di S. Lazzaro sulla Via Flaminia
473
Chiesa di S. Bartolomeo nella Parrocchia di S. Facondino
475
Chiesa di S. Salvatore di Corneto o di Sciola
476
Chiesa di S. Michele Arcangelo nel Castello di Crocicchio
477
Chiesa dì S.- Maria presso il Castello di Crocicchio
480
Cappella della Maestà presso il Castello di Crocicchio
481
Chiesa di S. Lorenzo presso il Castello di Crocicchio
482
Chiesa di S. Pietro di Crocicchio
484
Chiesa di S. Antonio da Padova in Branca

Chiesa di S. Cristoforo nel villaggio di Caprara
485
Chiesa di S. Giovanni nel vocabolo « La Foresta » presso il villaggio di Caprara
487
Chiesa dell’Assunzione di Maria Vergine nel villaggio di Pieve di Compresseto
488
Chiesa di S. Maria delle Cinturate presso il villaggio di Pieve di Compresseto
494
Chiesa della Concezione di Maria Vergine presso il villaggio di Pieve di Compresseto


Chiesa di S. Lucia in Pieve di Compresseto
495
Chiesa della Visitazione di Maria Vergine a S. Elisabetta in Coldorto
496
Chiesa di S. Lorenzo del Vigneto presso Coldorto
497
Chiesa di S. Paolo Apostolo in Patrignone
498
Chiesa di S. Ercolano nel villaggio di Poggio S. Ercolano
500
Chiesa di S. Apollinare presso il villaggio di Poggio S. Ercolano
502
Chiesa di S. Maria di Loreto presso il villaggio di Poggio S. Ercolano
504
Chiesa di S. Martino presso il villaggio di Poggio S. Ercolano
505
Chiesa di S. Donato presso il villaggio di Poggio S. Ercolano

Chiesa di S. Maria Assunta in Nasciano
506
Chiesa di S. Maria del Cannine nel villaggio di Piagge
509
Chiesa di S. Leopardo di Piagge
510
Chiesa di S. Angelo di Fabrica
512
Chiesa di S. Bartolomeo degli Accarelli
513
Chiesa di S. Orbica
515
Chiesa di S. Giuseppe al Palazzaccio
516
Chiesa di S. Pietro Apostolo in Val di Rasina
517
Chiesa di S. Croce in Val di Rasina

Chiesa di S. Cristoforo di Coltaccone
520
Chiese di S. Savino e di S. Pietro di Serra
522
Chiesa di S. Antonio da Padova nel villaggio di Cerqueto
525
Chiesa di Maria Vergine della Mercede nel villaggio di Palazzo Ceccoli
526
Chiesa di S. Ippolito Martire
527
Chiesa di S. Maria nel villaggio di Pastina
528
Chiesa di S. Giovanni Battista nel villaggio di Grello
531
Oratorio di S. Pietro Apostolo nel villaggio di Grello
533
Chiesa di S. Donato di Agello presso Grello

Chiesa di S. Angelo di Pierle presso Grello
534
Chiesa di S. Maria di Monte Rampone in Morano
537
Chiesa di S. Giovanni Evangelista in Morano
538
Chiesa di S. Giuseppe in Morano
541
Chiesa di S. Maria Vergine del Rosario in Morano
542
Chiesa di S. Maria Vergine dell’Assunzione in Morano
543
Chiesa di S. Facondino in Morano

Chiesa di S. Paolo in Morano
544
Chiesa di S. Lucia in Peritelo, già nel villaggio di Voltole
545
Chiesa di S. Nicolo presso il villaggio di Voltole
548
Chiesa di S. Biagio presso il villaggio di Voltole
550
Chiesa di S. Lorenzo di Carbonara
551
Chiesa di S. Felicita nel villaggio di Busche
553
Chiesa di S. Pietro presso il villaggio di Margnano
556
Chiesa di S. Antonio da Padova nel villaggio di Rasina
557
Chiesa di S. Nicolo nel villaggio di Boschetto
558
Chiesa di S. Egidio nel villaggio di Gaifana
561
Chiesa di S. Croce nel villaggio di Gaifana
563
Chiesa di S. Martino nel villaggio di Gaifana

Chiesa di S. Carlo nel villaggio di Roveto

Chiesa di S. Giuseppe nel villaggio di Corcia
565
Chiesa di S. Cristoforo presso il villaggio di Corcia
566
Chiesa di S. Pietro Apostolo nel villaggio di Rigali
567
Chiesa di S. Maria del Soccorso presso il villaggio di Rigali
570
Chiesa di S. Leonardo Eremita in Pezzuole
571
Chiesa di S. Martino presso Gualdo Tadino
574
Chiesa di S. Maria di Loreto volgarmente detta «La Madonna del Piano
576
Le Confraternite
Confraternita di S. Maria dei Raccomandati o del Gonfalone in Gualdo Tadino
Pag.
580
Compagnia dei Preti in Gualdo Tadino
583
Confraternita della SS. Trinità in Gualdo Tadino
586
Confraternita della Concezione di M. V. in Gualdo Tadino
588
Confraternita di S. Maria del Carmine in Gualdo Tadino
589
Confraternita di Maria Vergine in Gualdo Tadino
590
Confraternita del Corpo di Cristo o del Sacramento in Gualdo Tadino

Confraternita della Morte o della Misericordia in Gualdo Tadino
592
Confraternita del Suffragio in Gualdo Tadino
593
Confraternita del Rosario in Gualdo Tadino
594
Confraternite di S. Sebastiano, di S. Bernardo e di S. Michele Arcangelo in Gualdo Tadino
595
Confraternita del Nome di Gesù in Gualdo Tadino
598
Confraternita del Crocifisso in Gualdo Tadino
599
Confraternita di S. Caterina in Gualdo Tadino
602
Confraternita delle Cinturate o di S. Monica in Gualdo Tadino

Confraternita di S. Agostino in Gualdo Tadino
603
Confraternita di S. Giovanni Battista in Gualdo Tadino
604
Confraternita del Sacramento nella Parrocchia di S. Facondino
606
Confraternita del Rosario nella Parrocchia di S. Facondino
607
Confraternita del Sacramento nella Parrocchia di S. Pellegrino

Confraternita del Rosario nella Parrocchia di S. Pellegrino
609
Confraternita di S. Pellegrino o di S. Maria delle Grazie nella Parrocchia di S. Pellegrino
610
Confraternita del Rosario nella Parrocchia di Crocicchio
611
Confraternita del Sacramento, già della B. V. Maria, nella Parrocchia di Caprara

Confraternita del Rosario nella Parrocchia di Caprara
612
Confraternita del Sacramento nella Parrocchia di Nasciano
613
Confraternita del Sacramento nella Parrocchia di Pieve di Compresseto

Confraternita di S. Maria delle Cinturate nella Parrocchia di Pieve di Compresseto
614
Confraternita del Rosario nella Parrocchia di Pieve di Compresseto
615
Confraternita della Concezione di M V.o del Gonfalone nella Parrocchia di Pieve di Compres.

Confraternita del Sacramento nella Parrocchia di Poggio S. Ercolano
616
Confraternita di S. Giovanni nella Parrocchia di S. Giovanni di Catigliano in Morano

Confraternita di S. Giovanni o del Corpo di Cristo nella Parrocchia di Grello
617
Confraternita del Sacramento nella Parrocchia di Boschetto

Confraternita del Rosario nella Parrocchia di Boschetto
618
Confraternita di S. Maria del Carmine nella Parrocchia di Boschetto

Confraternite del Rosario e del Sacramento nella Parrocchia di Roveto
619
Confraternita del Sacramento nella Parrocchia di Rigali

Confraternita del Rosario nella Parrocchia di Rigali
620
PARTE TERZA – MISCELLANEA
Gli Uomini Illustri Gualdesi
Matteo di Pietro di Ser Bernardo
Pag.
623
Bernardo di Girolamo di Maestro Matteo
691
Pittori Gualdesi Minori (Valeriano Vittori, Indaco Massicci)
696
La Famiglia Durante (Piero, Giovan Diletto, Polluce, Castore, Ottavio, Giulio e Girolamo)
698
Francesco e Girolamo Tromba
717
Porfirio Feliciani
726
Andrea di Pietro di Gionta dei Benzi
728
La Famiglia Mattioli (Orazio, Felice, Gioacchino, Francesco Ignazio Mattioli)
738
La Famiglia Bongrazi (Bongrazio, Silvestro, Marcantonio, Benedetto, Marcaurelio, Prospero)
741
Niccolo Moroni
742
Antonio Umeoli
743
Francesco Bonfigli
744
Giovan Battista Spinola
745
La Rocca Flea
746
Lo Stemma Comunale Gualdese
755
L’Arte delle Maioliche in Gualdo Tadino
764
Notizie Statistiche e Topografiche
768
Indice Alfabetico Generale
777

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